«Mi manda papà» disse Alfonsino Billè, fatti tre passi, dall’uscio alla scrivania, al cavaliere dottor Cono Borruso, pretore di Cefalù, che, alzati gli occhi dall’incartamento – il voluminoso fascicolo della causa degli eredi Munafò, attori, contro gli eredi Polizzi, convenuti, per la proprietà di una scaglia di terreno in contrada Olivuzza, adibito alla “coltivazione dei fichi secchi” (proprio così aveva scritto quella bestia del cancelliere: era mai possibile che così egli avesse dettato?), causa che da tempo si trascinava e per cui due famiglie, imparentate tra loro, s’erano ingiuriate, offese, odiate, dall’una e dall’altra parte: non era, no, per il terreno (ci cacavano sopra da ambedue le parti): un puntiglio era! –, disfatto, annoiato, con perle di sudore sul faccione e sulla nuca a cuscinetti, gli occhi più appannati degli spessi occhiali affumicati che gravavano sul naso di spugna, tirò un sospiro. Si allargò davanti e si scostò dal collo la giacca a doppio petto.
«Eh?» fece, prendendo finalmente coscienza che una persona stava davanti alla sua scrivania.
«Alfonso, signor pretore, figlio dell’avvocato Billè» gridò con voce stridula l’usciere ch’era rimasto rispettosamente sull’uscio, forte, per varcare l’enorme distanza in cui sapeva si rifugiava il pretore per trovare giusta concentrazione nello “scorrere” le cause, e per vincere il ronzio fastidioso del ventilatore sgangherato sopra la scrivania.
«Ah!» fece il pretore.
«Mi manda papà» ripeté Alfonsino.
«Come sta, ah? Svelto, svelto figlio bello, dimmi che vuoi. Non c’è tempo, qui si muore. Il lavoro in questa pretura è massacrante, massacrante! Ah? Allora? Parla, figlio bello.»
«Un permesso, dottore, un permessino...»
«Permesso, ah?»
«Per il Club...»
«Club?»
«Il Village magique, dottore, i francesi...»
«Maria Santissima! La parola vi siete passati. E tutti qui da me venite? E che è? E che fu? E che c’è in ’sto villaggio magico, il miele, ah?» Si abbatté affranto contro la spalliera della poltrona.
«Paladino, alla macchina!» ordinò poi risoluto, rombante. Il vecchio usciere, ossuto, bianco, saltellò svelto fino al tavolino su cui troneggiava una nera, antica, imponente Remington.
«Messier direttore» dettò il pretore. E su quel messier non ebbe dubbi, sebbene non conoscesse il francese, ché lui, ai suoi tempi, aveva studiato il tedesco, lingua di gran moda allora, per via della stretta amicizia italo-germanica.
«Le presento il mio conoscente e amico signor Alfonso Billè, persona seria e dabbene, del quale approfitto per porgerLe i miei più cordiali saluti. Mi creda Suo. Firma, Paladino.»
Paladino sfilò il foglio dal rullo e lo pose con grazia sulla scrivania, sotto gli occhi del pretore. Il quale prese la penna stilografica dal taschino e firmò, con rotondo svolazzo. Annoiato, scostò il foglio da sé e Paladino fu svelto a riprenderlo. Lo sventolò, vi soffiò sopra per fare asciugare l’inchiostro e lo porse, con un sorriso di complicità, ad Alfonsino, che, rosso in viso come un peperone e con le mani che leggermente gli tremavano, lo piegò in quattro e se lo infilò in tasca.
«Grazie, dottore, grazie. La ringrazio molto.»
«Va be’, va be’» fece il pretore. Gli porse stancamente la mano grassa e pesante e Alfonsino fu svelto a prendergliela nella sua e a stringergliela calorosamente
«Statti buono. Salutami tuo padre. Eh... Stiamo attenti a ’ste femmine francesi. Ah?»
«Riverito» fece Alfonsino sull’uscio, con un sorriso che gli arrivava alle orecchie, che voleva essere di ammiccamento per la scopritura delle sue segrete intenzioni e nello stesso tempo di rassicurazione per i timori del pretore.
Paladino, dietro, seguì Alfonso fino al pianerottolo in cima alle scale.
«Arrivederci» gli disse Alfonso prima di scendere. «Grazie anche a lei» e gli strinse la mano e, nel ritirarla, Paladino si trovò nel palmo, per come s’aspettava, una pallina di carta.
L’usciere mise svelto la mano nella tasca dei pantaloni, inchinandosi mentre Alfonsino scendeva svelto le scale, e intanto con le dita srotolava la palla. Tastò bene la carta, capì al tatto: cinquecento lire.
«Più miserabile e pidocchioso di tuo padre!» mormorò sorridendo e inchinandosi per l’ultima volta, mentre Alfonsino usciva sulla strada. Alfonsino fu subito investito dalla luce accecante di mezzogiorno e dall’afa di luglio che gravava sull’antico selciato. Inforcò le polaroid e si spostò sul lato sinistro della via, dove una breve lista di ombra dava illusione di riparo. Il suo fresco di lana blu brillava alla luce e brillava la seta della cravatta a pois.
Era vestito di tutto punto, da sera.
Era ancora mezzogiorno: avrebbe dovuto aspettare non poche ore prima di varcare il cancello del villaggio turistico dei francesi, di quel luogo di libertà e di piaceri di cui tanto aveva sentito favoleggiare. Camminando, programmava intanto mentalmente la giornata. Che avrebbe fatto per occupare tutte queste ore?
Intanto mangiare. Sentiva già sordi rumori allo stomaco, dei contorcimenti alle budella che erano chiaro segno di fame. Maledetta fame. Ostinata, incessante. E lui la soddisfaceva.
Ma la sua angustia era il grasso. Sui fianchi, alla pancia. «Alfonsino, cerca di dimagrire» gli ripeteva la sua Mirella. Sua? Ah!
«Alfonsino, sciupato sei, figlio mio, mangia, mangia» gli diceva incessantemente sua madre. E giù piattoni di spaghetti, carne, pesci e dolci. E lui a chi doveva dare ascolto?
Passò davanti ai vetri di una porta finestra. Sbirciò di traverso la sua sagoma: certo, grasso non si poteva dire. Grassottello. E poi così vestito, col suo completo blu, sembrava più composto, più sfilato. Si piaceva, in qualche modo. Certo, si angustiava, rabbia gli veniva quando vedeva i suoi amici, Tore, Pino, Fefè, magri come chiodi, gambe a bastoncino sfilate in quei blue-jeans e i toraciuzzi di crocifissi in quelle camicie strette strette e aperte fino all’ombelico. Leggeri, eleganti come ballerini della tivù erano. E gli facevano invidia quei figli di..., che poi mangiavano, mangiavano come lupi, più di lui.
Gare di maccheroni facevano, quando erano assieme nelle trattorie, chi ne mangiava di più, gare di melanzane alla parmigiana, di castrato alla brace, di gelati. E che erano? Tubi, pozzi senza fondo? E le ragazze del paese, le donne, le femmine francesi lì del villaggio, tutte, le stupide, si intenerivano, li coccolavano, se li lisciavano come fossero bambini denutriti da allattare.
Si trovò, senza accorgersene, nella piazza del duomo. Grande, assolata, con le alte palme al centro che disegnavano sulle mattonelle rotondi cerchi di ombra. Il duomo, in fondo, contro l’alta roccia, era di fiamma, d’oro fuso. Frotte di forestieri, di turisti a gruppi erano lì, muti, a leggere nei loro libretti, a contemplare estasiati, a fotografare. Muti poi salivano per l’alta gradinata e compunti s’infilavano dentro l’antico tempio dove i mosaici li avrebbero lasciati esterrefatti.
“Chi lo sa cosa ci trovano, boh?, in questa chiesona” pensava Alfonsino. Egli aveva un vago ricordo della storia dell’arte al liceo, ma di questo tempio non sapeva un’acca. “Colonna dorica, ionica e corinzia” solo questo ricordava. E più che la forma delle colonne, di cui sapeva solo il nome, ricordava la faccia della professoressa: vecchia, barbuta, noiosa.
«Billè, l’arte non è per te» gli ripeteva sempre, facendo ridere, la vecchiaccia, tutta la classe per quella rima così smaccata. “Chi se ne fotte dell’arte?” si chiese Alfonsino con astio ritardato.
Gli occhi di Alfonsino caddero sui giornali esposti dall’edicolante, sulla sinistra. Riconobbe subito con gioia la copertina della sua rivista preferita, “Alfa-Beta-Gamma”. Al suo paesino di montagna arrivava sempre con due giorni di ritardo e il suo giornalaio gliela conservava, porgendogliela di nascosto, dalla parte posteriore dell’edicola, con sempre sulle labbra quel sorriso fastidioso di ruffiana complicità, come di consapevolezza e copertura di un suo segreto vizio. Era una rivista “spinta”, va bene, per soli uomini, ma coi tempi nuovi che corrono, moderni...
Ma Alfonsino, per quanto ogni volta lo decidesse, non aveva mai trovato il coraggio di sottrarsi a quel sotterfugio, di rompere una volta per sempre quella complicità confidenziale col giornalaio, non aveva mai trovato il coraggio di comprare apertamente, davanti ad altre persone, la sua rivista. E anche adesso, anche in questo paese forestiero, la chiese ancora con la stessa titubanza, la stessa vergogna di sempre addosso, la chiese assieme a un quotidiano, che non gli interessava per niente e che non avrebbe letto, ma che gli serviva in qualche modo a nascondere anche dentro di esso, a coprire l’imbarazzo e la rivista.
Con i suoi giornali sottobraccio, andò a sedersi all’ombra, sulla poltroncina di vimini sul marciapiede del bar di fronte.
«Una granita di limone» ordinò al cameriere.
Nell’attesa, aprì subito la pagina che più gli interessava, la rubrica di corrispondenza e di consigli di Margaret Love, la famosa sessuologa. Alfonsino cercava sempre ansiosamente un caso simile al suo o che al suo in qualche modo somigliasse, una risposta di Margaret che finalmente gli schiarisse i dubbi, una volta per sempre, lo quietasse.
“Cara Margaret Love, sono sposata da sette anni e sono ancora vergine.” Alfonsino passò oltre. “L’altro giorno io stavo seduta su una panchina, e ho visto mia figlia che si allontanava con un altro bimbo di cinque anni. Quando sono rimasti soli, il bimbo ha tirato giù le mutandine della mia piccola, e anche la mia ha cercato di guardare il suo compagno in quel posto.” Ancora oltre. Niente, non c’era niente che potesse riguardarlo. Mai il suo caso, mai. Qualche volta un altro sembrava che lo sfiorasse, che si avvicinasse al suo, e poi niente, deviava, scappava via, divenendo un’altra cosa. Aveva, più e più volte, pensato di scrivere a Margaret, aveva anche scritto due o tre lettere per subito strapparle: la paura, il terrore di essere riconosciuto e scoperto in paese lo faceva desistere.
«Pronta granita!» esclamò festoso il cameriere dietro le sue spalle.
Alfonsino ebbe un sussulto sopra la poltrona e chiuse di colpo la rivista.
Prese col cucchiaino a farsela scivolare in gola, dolce, gelata, a domare in qualche modo la fame, la sete, il caldo, la tristezza, la noia. Gli passavano davanti belle gambe di donne, svelte, abbronzate; splendidi volti, lunghe capigliature di fieno; braccia, seni, pance, ombelichi: tutti all’aria e al sole. E lui guardava, col suo occhio torbido e perduto, facendosi sempre più cupo, più tetro.
Pagò e si alzò. Si avviò verso il ristorante, al Gambero, quello a palafitte sul mare.
Una brezza fresca di ponente correva sotto l’incannicciata della tettoia e tra le travi di sostegno del ristorante e, sotto le tavole dell’impiantito, si udiva lo sciacquio dell’acqua. Era un locale festoso, allegro, rumoroso. Il juke-box diffondeva senza interruzioni le ultime canzoni del Festival e, ai tavoli pieni di gente, si rideva, si scherzava. Erano tutti in costume da bagno, nudi. Ragazzi e ragazze salivano addirittura dal mare, si arrampicavano su per le travi e si sedevano, ancora grondanti d’acqua, ai tavoli. Alfonsino, in completo blu, si sentì un poco a disagio. E notò – o fu solo sua impressione? – che alcuni lo puntavano e ghignavano. Si sfilò allora la cravatta e la mise in tasca, si tolse la giacca e l’appese alla spalliera della sedia. Si slacciò il colletto e si arrotolò le maniche della camicia.
«Caldo eh?» gli disse il cameriere.
«Ehm» mugugnò Alfonsino.
Ci mise due ore a mangiare. Si abbandonò completamente, cedette passivamente a tutte le proposte imperiose che con tono arrogante il cameriere gli fece. E attaccò con spaghetti alle vongole che sapevano di nafta e finì con un...