Sono nata in… Cariola
Perché la chiamassero “Cariola”, non lo so. Ufficialmente si chiamava via Giordano Bruno, e così si chiama tutt’oggi. Nacqui lì al numero 9, in quella strada pisana che unisce via Regina Margherita, oggi Curtatone e Montanara, a piazza San Martino, in una famiglia numerosa e rumorosa. Mio nonno Secondo, alto e distinto, era il patriarca. Nonna Vittoria, piccola, dolcissima, con tanti capelli bianchi sempre ordinatamente pettinati, era il punto di riferimento di tutta la famiglia. Avevano cinque figli maschi e due femmine. Mi ricordo che nonno, seduto a capotavola, con la sua autorità paterna imponeva a tutta la grande famiglia che gli avanzi del pane del pranzo fossero avvolti nel tovagliolo e consumati a cena. Per farci comprendere questo insegnamento, a me e a mia sorella Maria, allora piccole bambine, diceva: “Quando sarete in cielo vi daranno un panierino sfondato e voi raccoglierete il pane che avete sprecato a pranzo, quello che avete lasciato a merenda e tutte le briciole che avete sparpagliato sui tappeti di nonna; dovrete raccoglierle per l’eternità, perché il vostro panierino è sfondato”. Ho sempre avuto polli, galline e colombelle bianche: pane, in casa mia, non se n’è mai sprecato.
Nonno Secondo iniziò la sua carriera in ferrovia da giovanissimo, poi fu mandato a Nus, un paesino della Val d’Aosta. Mi raccontava mia mamma, che allora era piccola, che i nonni accompagnavano lei e la sorella all’asilo del piccolo paesino con i sabot, gli zoccoli di legno valdostani. “Com’era bello il batter dei piedi sulla neve fradicia per vederla schizzare da tutte le parti” ricordava. Era il loro unico divertimento, ma le due sorelline maggiori, Elettra e Palmira, non poterono goderne. Furono contagiate dalla poliomielite, che allora imperversava nella valle, e morirono, piccolissime.
Mio nonno concluse la sua carriera a Roma, come ispettore generale delle ferrovie. Dopo la moglie e i figli, la ferrovia era stata la sua grande passione.
Molti anni più tardi, quando ormai ero sposata e mio marito andava a caccia al gallo forcello a Planaval, nei grandi altopiani sopra la collina della Salle, in Val d’Aosta, volevo sempre fermarmi nel cimiterino di Nus. Ogni volta cercavo inutilmente di rintracciare le tombe delle mie piccole zie morte e sotterrate lì. Era solo un mio desiderio, ma chissà dove erano finite, dopo tutto quel tempo.
Stupida! Avrei dovuto guardare in cielo, e nell’azzurro, tra i monti innevati della Val d’Aosta, avrei visto due angioletti svolazzanti: le mie zie bambine.
Erano già tanti in casa, e mia madre Augusta, sposandosi, rimase dai genitori nella grande famiglia Simoni, e Manlio Marcacci, mio padre, aumentò con la sua presenza il numero dei componenti la famiglia.
Il 7 aprile 1921 nacqui io, e fu un avvenimento per tutta la strada. Ma sbaglio a dire “strada”… quella era una famiglia allargata che viveva sì, in case separate, ma all’unisono: che tempi!
Erano proprio altri tempi…
Crescendo, il furore fascista dei miei zii e quello fanatico di mia madre presero a darmi istintivamente noia. Era tutto un gran parlare di gerarchi, fascio littorio, marcia su Roma e via di seguito, con mia madre segretaria politica dei gruppi femminili. Istintivamente ero dalla parte di nonno e del babbo, contrarissimi al fascismo; piccolissima, correvo in giardino dalla nonna: “O nonna, o nonna, ditela ancora, ditela ancora a questo uomo savio la novella…”. Carducci diceva così di Nonna Lucia, quando, ormai famoso, si ricordava di lei. E io, donna non famosa, ricordo ancora la bella favola di mia nonna Vittoria, in quel giardino pieno di fiori.
Poi cominciarono anche le dolenti note coniugali dei miei genitori, perché mio padre non voleva sentir parlare di fascismo e di fascisti e non condivideva la posizione politica di mia madre. Come si fa a comprendere lo sconquasso di quei giorni senza sapere ciò che stava accadendo in Italia?
E mia nonna, sempre lei, in giardino, il suo grande amore, piangeva, e io non capivo perché: “Nonna, perché piangi?”. Povera nonna… Quante lacrime avresti poi dovuto versare per quello che sarebbe capitato ai tuoi figli.
Nel 1923 nacque Maria, mia sorella. “Lei sì che è bella” dissero a mia madre gli altri abitanti della via di Cariola. “Lei sì che è bella!” ripeterono quando fecero visita alla puerpera. Mamma mi raccontò poi che mi strinse tra le braccia, mi vide bellissima e mi baciò: quello fu l’unico bacio che ebbi da mia madre.
Non ho conosciuto i nonni paterni. Mio nonno Fortunato Marcacci morì giovanissimo e lasciò la moglie Angelina con tre figli maschi e una femmina. La nonna morì, ho sempre sentito dire “di crepacuore”, durante la grande guerra del ’15-18: non riuscì a vincere la disperazione di sapere i suoi tre figli in trincea. Mio padre era tenente dei bersaglieri: ferito sul Carso, ebbe il privilegio, di cui si vantava continuamente, di sbarcare sul molo Audace di Trieste, tra i primi italiani, per fare “Trieste libera e italiana”.
L’11 novembre 1918, con la resa dell’Impero tedesco, la guerra finì.
Trieste, per me e mia sorella, è stata meta di una sorta di “pellegrinaggio” che babbo ci faceva fare spessissimo. Povero babbo! Come poteva dimenticare i quattro anni di guerra in trincea e il trionfo di sfilate per le vie di Trieste con le “mule”, le belle ragazze triestine, desiderose di abbracciare questi bersaglieri che, non ancora stanchi, correvano per le strade della città con le piume al vento! Ancora oggi, quando sfilano i bersaglieri a passo di corsa, con la fanfara in testa, il mio cuore è tutto in tumulto.
Guerre… Di confine, di liberazione, di interessi, guerre, guerre, guerre. Volete sapere cos’è rimasto a mio padre e quindi a noi figlie di quegli anni drammatici che non abbiamo vissuto, ma che abbiamo sofferto attraverso i ricordi dei nostri cari? Due croci di guerra, una medaglia per ferite riportate in combattimento, una medaglia al valor militare e, non so perché, una medaglia per i cinquant’anni dalla fine del conflitto.
Mio nonno Secondo, durante tutta la guerra, fu titolare della stazione ferroviaria di Santa Lucia a Venezia, allora importante centro di smistamento per le truppe al fronte. Mio padre, i suoi due fratelli e alcuni miei zii materni, quando avevano brevi licenze dal fronte, si ritrovavano nell’abitazione del nonno a Santa Lucia. Fu proprio lì che nacque l’amore tra mio padre Manlio e mia madre Augusta e tra lo zio Gino e la zia Giannina, che era veneziana.
La vita dei miei genitori dopo la guerra riprese a Pisa, molto lentamente, nella grande, indimenticabile famiglia dei miei nonni. A primavera, come un rito, mio nonno appoggiava la lunga scala al tronco della “gaggìa”, una pianta che appartiene alla famiglia delle mimose, e saliva, con una scatola da scarpe che riempiva di questi piccoli “pompon gialli” come di mimosa, ma grandi come una biglia, sorretti da un piccolo gambo di appena due centimetri. Poi, con la sua scatola piena di questi piccoli fiori e di tanto profumo, scendeva e confezionava degli incantevoli bouquet. Come? Intorno a uno stecco legava con un filo i piccoli pompon in modo da formare una pallina profumatissima. Il primo omaggio era per la zia Ida, che in realtà non era mia zia, ma una bellissima vicina di casa; il secondo, per la signora Amina, la “forse segreta passione” di nonno. È come se fosse ancora qui, davanti ai miei occhi: aveva capelli biondicci e veniva a casa nostra a suonare il pianoforte e a cantare con una discreta voce. Quando la signora Amina cantava scendeva il silenzio, e io ero ammessa tra i grandi solo se fossi stata zitta ad ascoltare. “Vorrei baciare i tuoi capelli neri”, cantava, e poi: “… Come pioveva, come pioveva”.
“Grazie, signor Secondo, di questo gentile omaggio profumato” e col suo piccolo bouquet in mano Amina se ne andava felice tra gli applausi.
Ma io, invece, me lo ricordo bene, dicevo fra me e me: “Che noia! Che uggia, che noia, la signora Amina!”.
Meno male che davanti alla nostra casa, al secondo piano di un palazzo antico, abitavano la zia Ida e suo marito, nonno Beppe, che erano molto amici di un famoso musicista livornese e abituali frequentatori di casa nostra.
Né la guerra né il regime fascista riuscirono mai ad alterare i rapporti di questa comunità della Cariola, dove tutti si amavano ed erano solidali gli uni con gli altri in ogni occasione, lieta o triste che fosse. Non esistevano differenze fra ceti sociali, ma un afflato di grande amore fra tutti. Io ero la coccola di tutti, e in particolare della Tita e di Arturo, che avevano un negozietto di articoli casalinghi in piazza delle Vettovaglie e in estate, con il barroccio carico di ogni bendidio, andavano a Marina di Pisa a vendere la loro mercanzia. Li conoscevano tutti. La Tita era la mia tata, una grande, enorme grassona, sempre sudata. Quanti “ciottolini” mi regalava… Ricordo che nella loro modestissima casa avevano una scala di legno molto ripida: per salire al piano superiore usavano un corrimano che era una semplice corda, ma talmente unta dalle mani sudate della Tita che a me faceva un “po’ schifo”. Ricordo benissimo anche il “sederone” della Tita che ondeggiava lentamente mentre camminava. È incredibile come certi piccoli particolari insignificanti possano colpire i bambini molto più delle cose importanti. Io stessa mi meraviglio, mentre scrivo, che i miei ricordi siano così vivi, dopo tanti anni.
Un giorno, e non era disdicevole in quel quartiere, la zia Ida dalla finestra chiamò mamma e la pregò di portarmi su, nel loro appartamento.
Non era una novità, perché passavo ore sul terrazzo della loro cucina, e ricordo ancora come fosse oggi che tenevo la testa tra le sbarre della ringhiera, incantata e affascinata dalle esercitazioni che venivano effettuate nella sottostante “piazza d’Armi” dai soldati di non so quale reggimento.
Risento nelle orecchie il lamento della tromba quando suonava il “silenzio”. Non avevo bisogno di inviti per andare dai Giacomelli, che mi adoravano e io adoravo loro, e la terrazza della loro cucina. Si ascoltava musica operistica, ed è lì che è nata la mia passione per la lirica. Altro che le canzoni della signora Amina!
Quell’invito del pomeriggio, però, era inconsueto. La porta del salotto “buono”, dove non avevo mai libero accesso, nonostante lo desiderassi da sempre, era stranamente aperta. Lì, in quella casa, in una grande teca di vetro a forma di cubo, me la rivedo ancora, c’era la gallina imbalsamata tanto amata da tutti noi. Pensavo: “Quante uova ho mangiato grazie a te, povera gallina, e guarda dove sei finita!”. La zia la teneva in salotto.
Ma quel giorno la gallina non attirò la mia attenzione! Due persone che non avevo mai visto in casa Giacomelli troneggiavano sul divano di velluto rosso. Lui alto, con tanti capelli arruffati. Lei pure alta, con un enorme cappello a larga tesa letteralmente “carico” di fiori, frutta e, mi pare, anche di un uccello. Ne rimasi incantata! Non molti anni fa, a Casciana Terme, fui invitata alla festa dei fiori e, memore del cappello della signora Lina, me ne feci uno simile di paglia nera e lo adornai di tantissimi fiori. Mi parve anche più bello.
“Questa è la bimba di Augusta” disse la zia Ida. “Anna, vieni, Anna! Saluta la signora Lina.” Forse da me si aspettavano un inchino. Figurarsi un po’. No davvero! Era roba da mia sorella. Maria sì che sapeva intrattenere e deliziare gli ospiti in visita con poesie e balletti. Era un’attrattiva della famiglia, la chiamavano “pezzettino” e io ero invidiosa di quel vezzeggiativo. Io sono sempre stata Anna. Anna e basta. Non era giusto!
Nonno Beppe era il segretario generale del comune di Pisa, ma soprattutto era un melomane appassionato: mi faceva cantare tutte le opere di un suo amico, musicista molto famoso, che io ero troppo piccola per poter apprezzare. Ho sempre avuto un’innata passione per la musica e mi aiutava un formidabile “orecchio” nel ricantare brani di opera e canzoni anche appena ascoltate. Qualità che mantengo ancor oggi, grazie a Dio.
Ma io, la bimba di Augusta, continuavo a non capire cosa ci stessi a fare nel salotto buono dei Giacomelli con quelle persone. Quel signore alto con i capelli arruffati si mise al pianoforte e, con impeto, attaccò “Inneggiamo, il Signore è risorto…” dalla Cavalleria rusticana. Dallo sbalordimento passai all’incanto. Il maestro mi mise sulle sue ginocchia e, cambiando repertorio, suonò una dolcissima nenia che cantò con una dolcezza inaspettata. “Ora la cantiamo insieme” tuonò con la sua voce. La cantai, mentre nonno Beppe mi suggeriva: “Serenata delle fate, in onor di Lodolettaaaa… questa notte per le strade, tutte bianche dalla luna… passeranno tante fate… la la la la… la la” e così via. Compresi che quel signore grande, grosso e sconosciuto doveva essere proprio il maestro Mascagni, l’amico di nonno Beppe. Era lui, proprio lui. Ero stata sulle ginocchia di Mascagni!
Mascagni, l’ho saputo tanto tempo dopo, era indeciso se inserire questa serenata nell’opera che stava componendo: Lodoletta. Tuonò: “Brava! Brava bimba! Beppino” disse “ti ringrazio, sarà cantata da un coro di bambini!”. Non ricordo minimamente come finì quel pomeriggio. Ma fu una gran giornata.
L’episodio Mascagni scosse il tran tran di “via Cariola”, e meno male, perché la vita mia e di mia sorella Maria seguiva un iter sempre uguale, tutti i giorni. Io, la più grande, dovevo accompagnare la zia Daria e nonna nella grande chiesa di San Martino per la preghiera dei vespri. La zia Daria era sorella di mia nonna. Zitella, piuttosto bruttina. Ho sempre sentito dire che da giovane aveva avuto una morte apparente. Era già sul catafalco con tanto di fiori e ceri accesi ma, a un certo punto, improvvisamente, si ridestò fra lo stupore e lo spavento dei presenti. Un caso di catalessi? Probabile. Quelle due creature, zia Daria e la nonna, erano certamente due angeli, ma, se non avessero avuto la mania di portarmi tutte le sere ai vespri in San Martino, le avrei considerate due angeli di prima grandezza. San Martino… Che uggia, che noia… e che strano odore! Anzi, che puzza. Solo dopo tanto tempo mi sono resa conto che le donne di allora portavano i vestiti lunghi ma non si lavavano abbastanza.
Tra nonne e principesse
Una volta la settimana, nonna Vittoria si metteva uno dei suoi cappellini su quei bei capelli bianchi e, prendendomi per mano, portava me con il mio abitino buono al Portone, un rione pisano in San Bernardino, a riverire nonna Palmira, mamma di nonna e mia bisnonna.
In una grande sala quadrata, seduta su una poltrona, a ridosso della parete di fronte, affrescata con una grande immagine della Madonna di Montenero, patrona della Toscana, sedeva la bisnonna Palmira. Sempre vestita di nero, con in testa un velo dello stesso colore legato sotto il mento e dei guantini a mezzo dito, ovviamente neri. Allargava le braccia, festosa nel vedermi e, lo ricordo come fosse ora, mi diceva: “Prima saluta Nostra Signora, poi vieni a riverire la sua umile serva”.
Quell’ambiente un po’ cupo mi dà, ancora oggi, se ci ripenso, un senso di reverente disagio: non vedevo l’ora di andarmene. Arrivati a casa, nonna si toglieva il cappellino e ci precipitavamo in giardino. Il giardino di nonna Vittoria era amato e curato in modo meraviglioso: vi crescevano piante di ogni specie, e le fioriture a scalare erano pensate per avere fiori in tutte le stagioni. È da nonna Vittoria che io e Maria abbiamo ereditato la passione per piante e fiori.
Ma prima di lasciare i ricordi di questi primissimi anni di vita, devo fare un salto in avanti nel tempo, per raccontare un’ultima storia legata alla Pisa degli anni Venti. Quando, dopo aver vissuto per molto tempo in Piemonte, nei primi anni Settanta tornai a Pisa, andai ad abitare sul viale delle Piagge, ma la mancanza di un giardino mi faceva sentire come in gabbia, e così ci trasferimmo sul viale delle Cascine, davanti alla clinica di San Rossore. Affiancata alla clinica, c’era una stradina sterrata con un cartello: VIA PRINCIPESSA MAFALDA.
Questa stradina ha una storia che comincia nei primi anni Venti nella zona del Paduletto, a Marina di Pisa, dove in una grande casa viveva, da solo, un misterioso signor Danilo, costretto su una sedia a rotelle. Si diceva fosse un parente montenegrino della regina Elena, grande benefattrice e moglie di Vittorio Emanuele III.
La principessa Mafalda, seconda delle quattro figlie della regina Elena, veniva tutte le settimane a trovare questo misterioso signore, che, vivendo in solitudine, aveva fatto sapere che avrebbe dato volentieri lezioni di francese.
Io non ci andai mai, mentre mia sorella Maria passava tutti i giorni dal signor Danilo e lì, di tanto in tanto, incontrava una persona meravigliosa, la principessa Mafalda.
A volte, con la mia bicicletta arrugginita, andavo a prendere Maria, ed ebbi occasione di imbattermi in questa principessa piccola, fragile, minuta, amorosissima nel parlare.
Ci accarezzava e ringraziava sempre per la graditissima compagnia che mia sorella faceva al signor Danilo.
Ma chi era Mafalda? Si era sposata col principe tedesco Filippo d’Assia, dal quale aveva avuto quattro figli. Era la secondogenita del re d’Italia Vittorio Emanuele III e della regina Elena del Montenegro e sorella di Umberto II.
Nonostante fosse figlia del re d’Italia e sposata con un principe tedesco, ufficiale delle SS, la crudeltà della guerra non risparmiò nemmeno lei. Per salvare i quattro figli li consegnò nelle mani di colui che sarebbe poi diventato il futuro papa Paolo VI. Finì in un campo di concentramento in Germania. Ma questa terribile, avventurosa storia ve la racconterò un po’ più in là.
Voglio invece spendere due parole sulla regina Elena, la madre, da cui Mafalda aveva ereditato il carattere d...