A differenza delle altre, quella che segue non è una conversazione. È la semplice trascrizione del monologo di Franco Carraro, ormai ex padrone del calcio italiano. Lo incontrai dieci anni fa, tra un consiglio d’amministrazione e un vertice federale, al culmine della sua parabola calcistico-politico-finanziaria. Ero pronto al forcipe per estrarre da una memoria di ferro, ma certamente non incline all’abbandono, capitoli così lontani. Ricordo con intatto stupore che fu lui, invece, a interrompersi di tanto in tanto per consentirmi di non perdere contatto in quella cavalcata fantastica a ritroso. Un Carraro inedito, non soltanto a guardia abbassata: ma sorridente, divertito, a tratti commosso. Anche il paròn di lassù avrà apprezzato questo omaggio come il più inatteso. Da ricambiare con una larga scappellata delle sue.
«Era un uomo di cultura asburgica, dotato quindi di un grande senso della gerarchia. Da questo punto di vista mi portava grande rispetto, da un altro, come dire, anagrafico, mi poteva essere padre. Io mi trovai a diventare presidente del Milan in condizioni molto particolari, essendo morto mio padre all’improvviso. Avevo 28 anni. Mi sembrò giusto, d’istinto, andare avanti e debbo riconoscere che fu la scelta migliore perché quel mio periodo al Milan è legato a ricordi stupendi.
«Mio padre era diventato presidente nell’aprile del ’66. L’allenatore era Liedholm e in squadra c’erano problemi. Pensammo a Rocco per la stagione successiva, ma poi lo scartammo in quanto cavallo di ritorno. Si scelse Silvestri, il vecchio Sandokan, bandiera milanista che aveva portato il Cagliari in serie A e stava conducendo un magnifico girone di ritorno, avendo fatto più punti di tutte le altre squadre. A fine stagione, a Milanello, conoscemmo Rocco. Era un pranzo organizzato per salutare la Nazionale che partiva per i mondiali d’Inghilterra, ed erano stati invitati tutti gli allenatori di serie A. Io sono una persona riservata, un po’ introversa, allora oltretutto ero giovanissimo. Visto da vicino, in un ambiente in cui era già stato per due anni, Rocco mi colpì moltissimo, anche perché si capiva a prima vista che continuava ad avere il Milan nel cuore. Nello stesso tempo mi parve persino troppo estroverso, forse superato per quei tempi in cui il calcio stava cominciando a cambiare.
«Con Silvestri vivemmo un’esperienza difficile. Dal clima tutto sommato complice della provincia, soprattutto nel rapporto con la stampa, Silvestri si trovò sbalzato in un ambiente molto più ostico, spesso ostile. Si aggiunga il raffronto inevitabile con l’altra sponda, cioè con Herrera, e si capirà come un uomo, che era già magro di suo come Silvestri, possa aver perso la bellezza di sette chili in tre mesi. D’altra parte la squadra non era un granché, ricordo una vittoria a Ferrara tra Natale e Capodanno in una partita drammatica che ci allontanò dalla zona retrocessione. Non so che fine avremmo rischiato quell’anno se Rivera non avesse giocato un campionato fantastico, forse il suo migliore in assoluto, interpretato come una rivincita personale al disastro della Corea.
«A primavera comunque fu chiaro che Silvestri non poteva essere confermato. Decisivo nel convincere me e mio padre che era tornato il momento di Rocco fu un altro grande personaggio, il segretario Bruno Passalacqua. Se ne assunse interamente la responsabilità, garantendoci che Rocco moriva dalla voglia di tornare al Milan e che questa era la base di partenza ideale per un rapporto proficuo. Passalacqua era una persona prudente, timida per quanto era capace ed efficiente: se si sbilanciava a tal punto qualcosa doveva pur significare.
«Rocco arrivò e insieme impostammo la campagna trasferimenti: mio padre, io, lui e Passalacqua. Mi ero fatto l’idea, prima del suo arrivo, che per rilanciare il Milan avrebbe fatto chissà quali richieste. Alla fine prendemmo Hamrin, Malatrasi e Cudicini. Il saldo attivo tra acquisti e cessioni fu di 500 milioni. Diciamo 8-10 milioni di euro di oggi. E con quella squadra in due anni vincemmo tutto: campionato, Coppa delle Coppe, Coppa dei Campioni e Intercontinentale. Ne ricordo una di lui, in quel periodo. Una sera incontrai Franco Evangelisti, allora presidente della Roma. Volevamo Zoff dal Mantova, ma il presidente Zenesini tergiversava. Evangelisti mi suggerì di prendere Cudicini: è un grande portiere, mi disse, io ho dovuto darlo al Brescia per far contento Pugliese che non lo vedeva tecnicamente e lo accusava di sindacalismo. Riferii a Rocco. Mi rispose che Cudicini era bravissimo, ma era anche triestino. Io lo vorrei, perché è un grande portiere, ma la responsabilità della scelta se la deve prendere lei. Me la presi. Pagammo Cudicini 30 milioni, l’anno prima Rosato ne era costati 400.
«Cominciò un rapporto straordinario. Il 6 luglio di quel ’67 era morto mio padre. Rocco, Passalacqua e i giocatori avevano portato a spalle la bara, come potevo non sentirmi affezionato a loro? Rocco, l’ho detto all’inizio, mi vedeva da un lato come il presidente, dall’altro come un ragazzo orfano di padre: e riusciva a dosare in modo perfetto il suo rispetto di stampo asburgico per l’autorità costituita con l’affetto anche scanzonato che si doveva a un giovane. Io passavo con loro il sabato e la domenica a Milanello, il martedì lo vedevo in sede, ma al di là di questi appuntamenti quasi istituzionali mi piaceva frequentarlo anche altrove. Il suo calore umano, la sua capacità di gestire gli uomini erano assolutamente fuori dal comune. Parlavamo dei giocatori, dei loro problemi, lui ne conosceva vita, morte e miracoli ma sapeva sempre fermarsi in tempo e usava grande rispetto.
«Guadagnava poco. Gli tiravi giù dalla richiesta iniziale quei 5-10 milioni senza grande fatica. E questo perché secondo la sua cultura si guadagnava risparmiando, non incassando di più. Offrire un caffè, non dico una cena, era una sofferenza; accontentarsi di meno rispetto a quanto aveva pensato di ottenere, no. Ogni tanto veniva e mi diceva: ma è vero che Herrera guadagna tre volte più di me? Sapeva benissimo che era vero, così come sapeva altrettanto bene che io gli avrei risposto di no. Ma a lui bastava sentirsi dire che non era vero, così si metteva a posto con se stesso, o con la siora Maria, o con gli amici che lo punzecchiavano. Tute ciacole, go parlà mi con Carraro. La verità è che il calcio era a tal punto la sua passione che già quel che guadagnava gli sembrava tanto. E certe volte forse anche troppo.
«Aveva un’immagine completamente negativa di Roma. Mi raccontò che anni prima, nel momento del dissidio più acuto con Viani, sarebbe dovuto andare alla Roma. Anzi, avendo dato la sua disponibilità, pensava di aver già concluso. Lo andò a prendere un dirigente in aeroporto e lo accompagnò a casa del presidente dove c’era un sacco di gente e ciascuno diceva la sua, sulla squadra, gli acquisti, le cessioni. Dopo dieci minuti era pentitissimo di aver accettato. Passò una sera d’inferno, dovendo sorridere mentre pensava a quel che gli sarebbe toccato di lì a poco. Sinché, al momento di riaccompagnarlo, il dirigente gli disse: “Signor Rocco, allora ci pensiamo e ci risentiamo tra due giorni”. Fu una liberazione. Capì di poter ancora dire di no e si affrettò a farlo due giorni dopo. Un posto dove tutti dicono la loro non poteva essere per Rocco.
«Nel dopopartita almeno dieci minuti di vantaggio bisognava darglieli. Il tempo minimo per sfogarsi, per prendersela con questo o quel giocatore. Passati i dieci minuti entravo, ma mi mettevo in un angolo, zitto. E se stava ancora urlando con qualcuno me ne andavo per non creare imbarazzi. Io sono un pesce freddo, lui era a sangue caldo. Se proprio ritenevo di dover intervenire gli facevo dir qualcosa da Passalacqua, naturalmente con le dovute cautele e maniere. Una sola volta gli risposi. Avevamo perso, mi vide entrare e mi disse: presidente, ma questi arbitri... Signor Rocco, gli risposi, cominciamo a pensare a come abbiamo giocato noi. Finì lì, e fu l’unico contrasto, se così si può chiamare, in tutti quegli anni. Io con quel Milan mi sono divertito davvero tanto. E sinceramente se mi sono divertito lo devo soprattutto a Rocco.
«Rocco oggi? Certi valori assoluti sono eterni. L’unico che gli si sia realmente avvicinato è stato Bearzot. Più introverso, meno comunicativo, il rapporto con lui è stato certamente più difficile. Ma alla fine era anche lui una magnifica persona, un altro burbero benefico sullo stampo del paròn. Io parto dal presupposto che i sacrifici richiesti a un atleta, oggi come allora, sono talmente tanti e talmente innaturali per un giovane che nessun guadagno, né quelli di adesso né tantomeno quelli di un tempo, sono una molla sufficiente. Certamente non a gioco lungo. Occorre allora qualcuno che li sappia gestire e motivare al meglio nell’ambito di un grande rapporto umano. Era bravo Herrera in questo, ma solo da un punto di vista scientifico. Rocco invece era un empirico, il più grande degli empirici, capace di occuparsi con la stessa passione del campione e del massaggiatore. Era il padre di tutti, e sono certo che troverebbe il modo di esserlo anche nel calcio di oggi. La sua unica, vera incompatibilità sarebbe con i microfoni sparsi a bordo campo: ricordo troppo bene i suoi consigli al guardalinee sul possibile uso della bandierina. Anche le interviste sul campo, un attimo dopo la fine, sarebbero ad alto rischio con lui. Temo che andrebbero vietate ai minori.»
In materia di paròn, parlare con Giovanbattista Monti, medico sociale del Milan per la bellezza di trentatré anni, dal ’65 al ’98, è come consultare la Treccani. Oppure, a piacere, trovarsi davanti a uno sterminato juke-box: tu inserisci un gettone dicendo una parola e lui va avanti con giorno, mese e anno di quell’episodio, di quella gag, con tutte le virgolette al loro posto.
Monti è del ’39, aveva ventisette anni quando nel ’66 a Guayaquil fu presentato per la prima volta a Nereo Rocco. Il bello è che debuttava all’estero come medico del Milan e Rocco allenava ancora il Torino, ma allora erano di gran moda le tournée post campionato in Sudamerica e insomma accadde che le comitive rossonera e granata si incrociassero in quella lontana città. Chi xe quel mona de longo? domandò il paròn a Maldini. Era il dottore, per l’appunto. Si rividero l’anno dopo, sul pullman del Milan alla fine di un Milan-Torino a San Siro. «Una volta su, finse di essersi sbagliato a salire. In realtà l’aveva fatto apposta perché per lui il Toro era un esilio volontario e il Milan, una volta lasciata Padova, la sua seconda casa.»
Per gettonare il juke-box con tutta la calma che occorre abbiamo scelto insieme un tavolo dell’Assassino. Lamberto Gori, figlio di Ottavio, ci ha piazzato in un posto in cui sembra davvero che da quella fotografia sulla parete paròn Nereo e suo padre ci sorveglino. «La sai quella del rebus? No? È dei tempi del Padova. Un giorno s’inventa che bisogna stimolare la fantasia, che è ora di finirla coi gavettoni perché i giochi di società aprono la mente. Fa tutto questo preambolo con i giocatori che lo guardano stupiti, poi annuncia rebus animato, città di sette lettere, e dice ad Azzini di mettersi faccia al muro con la schiena piegata e le mani appoggiate. Una volta in posizione, ordina ai primi tre o quattro che ha a tiro di saltargli sopra, il vecchio gioco del cavalluccio insomma, e agli altri chiede la soluzione del rebus. Quando Azzini crolla, travolto dal peso degli altri manzi, domanda: nisun che indovina? Sul-mona. No iera dificile.»
Dottore, via, se cominciassimo da qualcosa di più serio?
«Hai ragione. Allora senti questa di Bruges. La premessa è che Rocco non voleva mai vedere la squadra né troppo tesa né troppo moscia: quando c’era uno squilibrio, in una direzione o nell’altra, lui interveniva inventandosene una delle sue, che fossimo in ritiro a Milanello o nell’intervallo di una partita. Quella sera a Bruges i giocatori erano troppo tesi e non c’era più molto tempo per intervenire, perché eravamo già in spogliatoio. Lancia un paio di battute delle sue ma i destinatari le lasciano cadere nel vuoto, con lo sguardo perso. Allora impugna la lavagnetta delle formazioni. Vegnì tuti qua. Ti te bechi questo, ti questo, ti questo... Arriva alla fine e ne avanza uno. Allora ricomincia. Ti te bechi questo, ti questo... Ne avanzava sempre uno. Sinché qualcuno dice: ma signor Rocco, quello che avanza è l’arbitro. Ma certo che xe l’arbitro, ma che mona che son. Risata generale, liberatoria, livello di tensione abbassato, obiettivo raggiunto. Poi questa gag è uscita dallo spogliatoio ed è diventata quella volta che Rocco non sapeva più contare fino a undici. Ma io che c’ero e che lo conoscevo bene lo posso garantire: ha scelto di passar da mona piuttosto che lasciar andare in campo la squadra con quell’eccesso di tensione.»
E quand’erano troppo mosci?
«Allora la gag con Bruno Mora. Voleva molto bene a Mora, appena arrivato a Milano era andato a vivere nell’appartamento che fino all’anno prima era occupato da Bruno. E aveva dovuto cambiare numero di telefono, perché arrivavano chiamate femminili a tutte le ore del giorno e della notte: Bruno sei tu? No, mi son quel che te... Mora era lo scapolo d’oro della compagnia, il dandy. Gli altri a tavola in tuta, lui con un completo di Caraceni, bellissimo. Quando Rocco vedeva che l’ambiente era moscio, quando tutti mangiavano con la testa nel piatto, nessuno rideva, insomma quando non era aria, allora il paròn gli faceva un cenno. Oppure gli passava alle spalle e gli sussurrava: ciò Bruno, daghe. Mora arrotondava la sua erre parmigiana e con quell’aria da figurino cominciava a dire che era ben felice di essere scapolo, che in fondo a lui la solitudine non pesava, adesso sono qui e non mi posso muovere, chi mi dice che una moglie non possa riempirsi la serata, poi son donne giovani, belle... Per un po’ lo guardavano storto. Poi partivano gli insulti. Allora, naturalmente, il primo ad alzarsi era il paròn. Ciò Bruno, no te permeto de insinuar. Finiva con una predica a Mora, che fingeva di subirla mogio mogio. Ma la pressione generale era salita, e lo scopo raggiunto.»
Andiamo in ordine sparso. La sera che l’hai trovato a casa.
«Avevamo litigato la mattina, al campo di Linate. Lui voleva che quel tal giocatore ricominciasse ad allenarsi, io dicevo che doveva ancora star fermo. Una parola tira l’altra, lui ne dice una di troppo, io prendo su la borsa e me ne vado. Torno a casa la sera, suono, mia moglie apre e mi dice che c’è di là Rocco. Era arrivato per tempo, già bello piazzato a tavola. La prima cosa che fece fu indicarmi l’azalea con cui si era presentato: guarda là, setemila te me ga costà.»
Dieci anni in panchina col paròn. Da dove cominci?
«Da San Siro, perché questa me l’hanno fatta tornare in mente Mourinho, Mancini e prima ancora Cesare Maldini ai mondiali francesi. C’era uno dietro di lui, aggrappato alla cancellata, con un vocione tremendo. Cambia Lodetti. Cambia Lodetti. Cambia Lodetti con Trapattoni. L’avrà gridato trenta volte. A un certo punto Lodetti fa gol. Il paròn si alza, arriva alla cancellata e declama: adéso andè in mona ti, Lodeti e anca Giovanin Trapatoni.»
Quella del figlio. «Ah sì, splendida. Milan-Padova, amichevole. Prende Trapattoni e gli fa: ciò, te vedi quel numero otto? Il Trap lo mette a fuoco, già pronto a morderlo, a saltargli addosso. Bon, se te lo tochi, te mazzo. Era Bruno, suo figlio.»
Avanti col Trap. «Nel ’75 diventa allenatore, con Rocco direttore tecnico. Passiamo tutta l’estate, io e il Trap, nella sua casa al mare a studiare la preparazione sul campo. Libri, manuali, cosa ne dici di quest’esercizio, quante ripetizioni, venti? Non saranno troppe? Facciamo dieci, poi vediamo. Arriviamo in ritiro, prima seduta, secondo o terzo esercizio. Il Trap in campo, io seduto accanto a Rocco un po’ trepidante, perché mi sentivo compartecipe. Giovanin, il vocione del paròn, ma coss’ te fa? Ma te son diventà sempio?»
Ancora. «Chi, il Trap? Be’, questa è da dividere. Gli ultimi tempi Rocco dalla panchina non vedeva più molto bene, ma piuttosto che mettere gli occhiali in pubblico si sarebbe fatto ammazzare. C’era una cosa che lo faceva imbufalire: i palloni persi banalmente a metà campo che facevano partire il contropiede avversario. Quando non riusciva a distinguere bene il colpevole, urlava al suo secondo: Marino, chi ga perso el balon? Marino era Marino Bergamasco, che aveva un numero imprecisato di diottrie e lenti spesse come bicchieri, e per non sbagliarsi rispondeva invariabilmente “xe sta Giovanin”, perché di Giovanni in squadra ce n’erano tre, Trapattoni, Lodetti e Rivera. Allora Rocco si alzava e urlava: Giovanin, va in mona.»
Infortuni in partita. «Milan-Lewski Sofia cinque a uno, due gol di Anquilletti, roba da almanacco. Malatrasi a terra, sbregato di brutto dai tacchetti, calzettone e parastinco lacerati e, sotto, un taglio profondo. Arriva Rocco, vede la ferita e dice all’arbitro, francese: arbitro, guardi qui, o ci protegge o picchiamo anche noi. Risposta: “Monsieur Rocco, s’il vous plaît”. S’il vous plaît te sarà ti, muso de cul.»
Non era molto portato per le lingue. «No di sicuro. Banchetto ufficiale a Francoforte. Il borgomastro fa un discorso che non finisce più, il calcio che affratella i popoli, con lo spirito sportivo non ci sarebbero guerre, una lagna interminabile. Rocco aveva abbassato il mento, era lì lì per appisolarsi. Il borgomastro termina, applausi, e il traduttore dice: signor Rocco, tocca a lei. Lui si è alzato, ha teso la mano al borgomastro dicendogli: mi no go capì un casso ma son sicuro che te ga rason ti, e ha alzato il calice. Applausi e fine del banchetto.»
Ancora infortuni. «Io correvo in campo e lui spesso mi arrivava dietro. Derby, scontro Santin-Boninsegna, guardo il ginocchio di Santin e capisco che ce ne sarà per un po’. Per la cronaca, sei mesi. Faccio segno a bordo campo che serve la barella e non vedo Rocco. Era dietro di me, aveva già provato a sollevare Santin che era ripiombato a terra urlando dal male. E mi stava dicendo: ciò dotòr, qua servi la barela.»
E la volta di Baveni? «A Liegi, con lo Standard. Fuori Malatrasi per febbre, gioca Baveni; gli lasciano il piede e lo rompono. Io corro, gli guardo la gamba e dico a Rocco di toglierlo. Solita scena: ma te son sic...