Esiste un prima e un dopo nella vita di un omosessuale. All’inizio giochi a nascondino con te stesso e con gli altri. Ma non è un gioco piacevole: la penitenza è la pubblica gogna, o almeno questo è quello che ti fanno credere. Poi cambi pelle. È il momento della rivelazione. Dichiari pubblicamente di essere gay e ti senti come un genitore che aspetta con ansia di vedere se il figlio, una volta diventato grande, riesce a stare al mondo. Insomma, sei lì che attendi e cerchi di capire se il coming out ti porterà finalmente la serenità, se sarai in grado di andare avanti ora che hai smesso di tirare la corda e l’hai tagliata. Questa seconda parte del libro è il racconto della Paola che emerge alla luce del sole, dopo essersi riconciliata con se stessa.
Solo che il «dopo» non è come te lo aspetti. Non va tutto liscio. Il nostro continua a essere un Paese che fa fatica ad accettare l’omosessualità, ti trovi di fronte a resistenze e ostacoli che mettono alla prova la tua identità. Però non è come prima perché, ora che hai tolto la maschera, puoi ingaggiare la tua battaglia con forza e consapevolezza. Sarà dura, sarà lunga, ma sai che ormai non ti tirerai più indietro: nessuna diserzione, perché l’obiettivo è riscattare la tua esistenza faticosa e far sì che siano sempre meno i giovani omosessuali abbandonati a se stessi, alle loro paure, a famiglie che non li capiscono e a una società che li emargina.
Dunque, dopo il coming out, dopo la conversazione con mio padre, le spiegazioni con gli amici e i fratelli, la mia vita si libera dall’inquietudine che l’ha pervasa e invasa sino a quel momento. E la politica diventa sempre più importante per me. Nel partito chiedo di occuparmi delle tematiche dell’omosessualità e dei diritti civili. Lavoro insieme a un altro gay, Andrea Benedino: siamo la coppia anomala del Pd, ma quanto siamo affiatati. E risoluti. Ora posso fare politica senza infingimenti, posso ingaggiare le mie battaglie a viso aperto. Posso palesarmi subito per quella gran rompiscatole che sono. Qualcuno mi definirebbe tenace, qualche altro determinata, ma devo ammettere che «rompiscatole» è più azzeccato. Come sa bene il «povero» Piero, succeduto a Walter alla guida dei Ds. Con lui instauro un rapporto conflittuale, non gliene faccio passare una: un’abruzzese e un piemontese, bella gara. Alla fine, ma solo apparentemente, la spuntiamo Andrea, io e gli altri omosessuali del partito, perché riusciamo a far passare i Pacs (ovvero la normativa sulle coppie di fatto) nel programma del partito. In Parlamento è Franco Grillini, presidente onorario dell’Arcigay, a presentare una proposta di legge sui Pacs. Tampina tutti i nostri parlamentari, che a uno a uno capitolano. I primi firmatari di quell’iniziativa sono Luciano Violante, Franco Grillini, Barbara Pollastrini. «Ce l’abbiamo fatta» pensiamo noi. I Pacs in Francia ci sono da una vita: due persone dello stesso sesso sottoscrivono un rapporto di mutua assistenza, che, poi – al di là delle romanticherie, dei regali e del vestito da sposa – è l’essenza del matrimonio. E non sembri troppo prosaico. È così.
Con Fassino, segretario negli anni che vanno dal 2002 al 2005, riusciamo a mettere al centro del dibattito politico della sinistra il tema delle unioni civili degli omosessuali. Coinvolgiamo anche i movimenti gay, solitamente molto diffidenti nei confronti dei partiti. Benedino, Grillini e io sentiamo che qualcosa sta per cambiare. Pensiamo che a furia di convegni, riunioni, proposte, iniziative e dibattiti si sia imboccata una strada da cui la sinistra non potrà più tornare indietro. Poveri ingenui. Le elezioni sono previste per il 2006, Berlusconi è in fase calante, e il centrosinistra pensa di farcela mettendo insieme tutte le forze di quell’area, per quanto siano diversissime tra loro. Nasce l’Unione. E, scusate la rima, arriva anche la prima delusione. Si prepara un programma di governo lungo come una quaresima, da presentare in campagna elettorale. Ma per accontentare Rutelli e non fare arrabbiare i cattolici le unioni civili, così come le proponevano i Ds e i radicali, scompaiono. Restano cinque righe ambigue che ognuno interpreta come vuole: «L’Unione proporrà il riconoscimento giuridico di diritti, prerogative e facoltà alle persone che fanno parte delle unioni di fatto». Una formula da azzeccagarbugli che vuol dire tutto o niente. Emma Bonino, a nome dei radicali, abbandona per protesta il tavolo delle trattative.
Nel 2006 vinciamo le elezioni: si insedia il secondo governo Prodi. E comincia un incubo. Con Rosy Bindi, ministro della Famiglia, e Barbara Pollastrini, che guida il dicastero delle Pari opportunità. Quello che io ora chiamo, con un eufemismo, un incubo è un’impressionante farsa della politica, dove le due ministre incaricate di risolvere un problema che nessuno, in quella compagine, vuole risolvere inventano formule, aggiungono righe, sottraggono aggettivi per partorire un provvedimento-topolino. Ossia i Dico. Una brutta, bruttissima copia dei Pacs. Il «Patto civile di solidarietà» che vige in Francia è un contratto tra due persone, di sesso diverso o no, che scelgono di dare un valore legale alla propria unione. C’è un riconoscimento giuridico di quel rapporto e, quindi, anche dei diritti e doveri che comporta. Per farla breve, è come un matrimonio senza sindaco o prete a celebrarlo. I Dico, invece, insistono più sul capitolo «doveri» che su quello «diritti». E, di fatto, non rappresentano un riconoscimento giuridico vero e proprio di quell’unione. Per accontentare Rutelli e la Chiesa si è inventato un escamotage a dir poco ridicolo: i due conviventi che vogliono registrare il loro rapporto non possono presentarsi insieme all’anagrafe. Prima ci va uno e poi l’altro. Oppure basta che ci vada anche soltanto un membro della coppia, che comunicherà per iscritto all’altro l’avvenuta unione. Tutto purché non assomigli nemmeno lontanamente a un matrimonio. Ma l’Italia è quello che è, penso io quando vedo il testo, e i Dico sono sempre meglio del niente assoluto. Almeno gli omosessuali potranno assistere i loro compagni e le loro compagne in ospedale, subentrare in un contratto d’affitto: non saranno più un popolo di invisibili senza diritti.
Però nemmeno quell’imitazione scadente dei Pacs, la cui elaborazione è seguita passo passo da monsignor Ruini, che viene approvata dal Consiglio dei ministri l’8 febbraio 2007, riuscirà a vedere la luce del giorno. Il governo non è in grado di reggere all’offensiva della Chiesa. Prodi è sottoposto a pressioni fortissime. Rosy Bindi pure. Non dimentichiamo che in quell’anno è stata eletta al Parlamento Paola Binetti, che porta avanti una battaglia feroce contro qualsiasi diritto che non abbia la denominazione di origine controllata imposta da Santa Madre Chiesa. Perciò Barbara Pollastrini è sola contro tutti. E in quelle condizioni dove mai potrebbe andare? Da nessuna parte, ovviamente.
Il resto è italica politica spicciola. Il provvedimento viene mandato al Senato, dove c’è Binetti, e non alla Camera, dove c’è Grillini, che avrebbe potuto mobilitarsi per farlo passare. A palazzo Madama l’esponente dei Ds che se ne deve occupare è l’allora presidente della commissione Giustizia Cesare Salvi, che, nella migliore tradizione comunista, usa i Dico a mo’ di clava nella battaglia interna al partito. Decide di cambiare il testo, di elaborarne uno in proprio e così allunga i tempi. È una prova di forza dentro i Ds, vuole dimostrare di avere ascendente e potere. I diritti civili vengono utilizzati come strumenti di lotta politica. Non è che a qualcuno – salvo lodevoli e isolate eccezioni – importi granché dell’oggetto del contendere, è la contesa che interessa. E infatti non c’è nessuno che, quando i Dico si perdono nei meandri del Senato per non ricomparire mai più, si alzi e dica «allora non ci stiamo». Nessuno, né nei radicali, né in Rifondazione comunista. Né Paolo Ferrero, né Emma Bonino, entrambi ministri all’epoca, hanno detto: «Noi usciamo dal governo se non c’è la legge sulle coppie di fatto». Credo che questo vada ricordato, anche perché sennò non si capisce per quale ragione in Italia ogni battaglia sui diritti finisca sempre malamente. Perché c’è la Chiesa, è vero, che come prima osteggiava l’aborto ora osteggia le unioni civili tra persone dello stesso sesso. Ma c’è anche la politica, che, quando la lotta si fa dura, volta sempre le spalle. Pensate a quello che sarebbe successo se Bonino o Ferrero, o tutti e due insieme, si fossero dimessi da quel governo che aveva una maggioranza parlamentare così risicata. Sarebbe stato il finimondo, anzi il fine-Prodi. Avevano nelle loro mani un potere enorme: se avessero voluto, avrebbero potuto usarlo per imporre i Dico. Non lo hanno fatto. Quanto ero arrabbiata in quei giorni. E com’ero intrattabile. Per fortuna, come sempre per me, c’era la politica, ma c’era anche la vita.
Continuo ad amare e a frequentare i campi da tennis: non ho abbandonato lo sport, è troppo importante per me. Il tennis mi permette di esprimermi, mi dà gioia, mi fa sentire vitale. Mi sento bene con me stessa, con il mio corpo. Amo il movimento e l’agonismo. Lo sport è stato lo strumento della mia formazione umana e non potrei mai rinunciarvi. E così, dopo il rovinoso insuccesso dei Dico, con la racchetta in mano caccio le frustrazioni e sono finalmente felice. Dura poco, però, perché dopo qualche mese la vita mi gioca un brutto scherzo. Devo partecipare alla finale dei campionati italiani di tennis a squadre femminili a Bari e mi serve un certificato medico agonistico. La dottoressa che mi visita non me lo rilascia: ho una frequenza cardiaca eccessiva. Corro dal mio medico per fare un controllo. Lui mi guarda e senza perdersi in giri di parole mi dice: «Sembri un cadavere». Ero dimagrita otto chili. Ma avevo attribuito quella perdita di peso allo stress, ai pasti, pochi e disordinati, che mi concedevo in quel periodo. Non è una spiegazione sufficiente, però: il medico mi spedisce subito a fare un’ecografia alla tiroide. La diagnosi è quella prevedibile e prevista: tumore. Mi chiamano per dirmi che è maligno in una giornata di giugno del 2007. Io sono in apnea, in una riunione del coordinamento politico dei Ds. Sta per nascere il Pd e noi siamo tutti presi da quell’avventura. Per me è una mazzata: io che amo così tanto la vita sono divorata da un male che anche solo a pronunciarne il nome fa paura.
Dalle finestre della sede del partito filtra un sole senza veli, quasi accecante. Chiudo gli occhi. Ma non è colpa della luce: ho bisogno di restare una manciata di minuti concentrata su me stessa. Peccato che non possa tapparmi le orecchie per non sentire i discorsi che in questo momento non mi interessano più. Non voglio abbandonare la riunione, però. Dovrei dare troppe spiegazioni e non ce la faccio. Riapro gli occhi. Sta parlando Fassino. Nessuno si accorge del mio travaglio, nessuno vede gli occhi arrossati. Meglio così. Reagisco come so: trattengo le lacrime e i brutti pensieri e decido di non perdere nemmeno un minuto, il toro va preso per le corna. C’è la politica, c’è la salute, c’è il partito che sta per vedere la luce, e ci sono le donne, e il tennis e i film, i libri, le chiacchiere con gli amici, e poi chissà che altro c’è e ci sarà, in futuro: non c’è tempo per morire. Meglio operarsi subito, possibilmente l’indomani.
Mi affido al dottore che mi segue da sempre e mi faccio operare a Roma, al Campus biomedico. Avverto solo pochi amici, ma, inaspettata, giunge la visita di una collega del centrosinistra a cui non avevo detto niente. È Paola Binetti, la cattolicissima Paola Binetti. Con lei ho poco o nulla a che spartire. Certamente non la battaglia sui Dico. Né tanto meno quella sull’omofobia. È stato Francesco Rutelli a volere questa campionessa dell’ortodossia cattolica nella Margherita. La signora ci sta un po’ a disagio e quando nasce il Pd comincia proprio a soffrire... e ora che è nell’Udc di Pier Ferdinando Casini, chissà se è tranquilla.
Ma riprendiamo il filo del discorso: Binetti viene a sapere dell’operazione il giorno stesso perché è medico dello stesso ospedale. Si precipita da me senza pensarci nemmeno una frazione di secondo. La vedo arrivare la mattina, mentre mi stanno portando giù, in sala operatoria. Non mi hanno ancora fatto l’anestesia. Poi rimango sotto i ferri per sette ore. Lei è l’ultima persona che vedo quando mi addormento e la prima appena mi sveglio. È rimasta lì tutto il tempo. Straordinaria. Probabilmente i miei amici gay e tanti nel Pd mi disapproveranno perché la definisco così, ma è la verità. Non c’è invece Maria, accanto a me, la donna che sto frequentando in quel periodo: anche lei ha dei problemi di salute e anche lei è ricoverata in un ospedale. L’operazione va bene perché il male è circoscritto, e io mi concedo un periodo di convalescenza. E, appena mi sento un po’ meglio, riprendo a giocare a tennis.
Proprio in quei giorni nasce il Pd. Con Paola Binetti dentro. E con tanti altri cattolici con cui non si è potuta fare prima una discussione seria sui temi etici e sui diritti civili. Perciò rimane anche nel nuovo partito una conflittualità latente su questi argomenti: si è scelto di metterli da parte, invece di prenderli di petto. Così il Pd nasce gravato dall’ipoteca di un’enorme contraddizione. Un grande partito moderno che si dice riformista non può scantonare il tema delle libertà. Che dovrebbe, al contrario, esserne uno dei capisaldi. Il Pd che mi immaginavo e che mi immagino ancora ha a cuore la cittadinanza di tutti. Le battaglie sui diritti dovrebbero essere la sua ragione sociale. Che senso ha nel 2000 una forza politica che non costruisce la propria identità su questi principi e valori? Ancora oggi è, purtroppo, così: il Pd si dilania di fronte alle questioni etiche e si illude di risolvere i problemi con i casi di coscienza. Libertà di voto sulla fecondazione assistita o su Eluana Englaro. Prima o poi, però, ci capiterà di tornare al governo. E allora che faremo? Riscriveremo il farraginoso e ambiguo programma dell’Unione o decideremo che non è una questione di coscienza, ma di civiltà, concedere i diritti ai gay e permettere a ognuno di mettere nero su bianco il proprio testamento biologico?
In quel periodo, a cavallo tra il 2007 e il 2008, nella mia vita accadono tre fatti importanti. C’è l’operazione, di cui ho detto. E c’è la fine di una storia d’amore: una donna, con figli e marito, che non riesce a mollar tutto, benché sia innamoratissima di me. Una storia importantissima e intensa. Ci si chiederà: «Ma com’è possibile che vi siano tante donne etero che intrecciano storie con donne omosessuali?». Può sembrare una bizzarria, non lo è. L’ho detto mille volte e lo ripeto: l’omosessualità non si sceglie, è una condizione umana che si presenta nella nostra esistenza in modo inaspettato. È connessa al desiderio, e non c’è nulla di più profondo e irrazionale del desiderio. Può fare paura, lo capisco, ma è così. È più facile dire: «Tu di qua, io di là», omosessuali ed eterosessuali, per sempre. La vita è più complicata, invece, e questa è la sua bellezza. Con il tempo la sessualità è diventata uno spazio di libertà. Capita ogni giorno, in ogni luogo, che una donna convintamente etero si senta all’improvviso attratta da una persona del suo stesso sesso, può succedere che si innamori all’improvviso, senza un apparente perché, di un’altra donna.
È capitato a Maria. Io e lei ci siamo incontrate ed è scattata la scintilla, inaspettata per entrambe. Io ero single e presa dalla mia attività all’Agensport, l’Agenzia dello sport della Regione Lazio, di cui da qualche tempo ero la presidente. Lei era felicemente sposata con figli. Tra di noi nasce un gioco di seduzione che sembra innocuo, e invece diventa amore. Maria conosce il tormento e i travagli del cuore. Ha vissuto fino ad allora una matrimonio felice, è esattamente dove voleva essere, ed ecco che improvvisamente si innamora di un’altra donna. Si pone subito il problema della grande differenza delle nostre condizioni: io vivo alla luce del sole la mia omosessualità, lei ha per le mani una vera patata bollente, una cosa che le sconvolge la vita e l’idea che ha avuto finora di se stessa. Non sa se ha la forza di reggere l’urto. Non la spaventa essersi innamorata di un’altra donna, benché sia la prima volta: è soprattutto per i figli che si preoccupa. Teme che per loro sia troppo complicato gestire non solo una separazione, ma anche un cambio di prospettiva totale sulla sua affettività. La turba il fatto che debbano entrare per forza di cose nella sfera più intima della sua vita: la sessualità. Io capisco bene che un conto è rivelarsi a venti, trent’anni, e un altro quando si è già delle donne mature. Ma, vivendo ormai la mia omosessualità alla luce del sole e vedendo quante persone hanno deciso di fare coming out, le ripeto spesso che quella di stare con me è una scelta possibile, che i ragazzi e la società sono molto più pronti di quanto si creda ad accettare una realtà come la nostra. Le chiedo di lasciare il marito, di affrontare la vita con me, consapevole di tutte le conseguenze.
Maria non ce la fa, sceglie di rimanere con la famiglia. Avrebbe forse avuto bisogno di più tempo per prendere questa decisione, per abituarsi all’idea, per crescere in un percorso di coming out... chi lo sa. Ma io non trascinerò più la mia vita aspettando qualcosa che forse non verrà mai. Non posso più, dopo il mio coming out, sopportare di fare l’amante, vederla nei ritagli di tempo, di nascosto, soffrendo per una lontananza che addolora entrambe. Non posso e non voglio più sentirmi brutta, sporca e cattiva, non voglio mentire al mondo o accettare che qualcuno lo faccia per stare con me. Gli amori contrastati sono fatti di emozioni intensissime, ma anche di dolore e di ombre. E io voglio solo la luce, ormai, nella mia vita. Dopo anni di clandestinità mi sento definitivamente pronta a concedermi il diritto all’amore omosessuale. Perciò non abbiamo alternative: ci lasciamo. È stata una sofferenza enorme per entrambe. Ma continuiamo ancora oggi a frequentarci e a volerci bene. È la forza di chi sa trasformare i sentimenti. Pare che gli omosessuali siano più capaci degli etero in quest’arte, forse perché, sentendosi respinti dalla società, riescono a costruire legami di solidarietà più forti. Fanno gruppo con gli amici, le fidanzate e i fidanzati: come in una grande famiglia allargata, dove ognuno si sente protetto e al sicuro.
Dunque, dopo la malattia devo certificare la morte di quel rapporto, durato meno di un anno, ma intenso e tormentato come dieci. La notte non dormo e di giorno penso a quella donna a cui non è mancato l’amore bensì il coraggio. Ma, come spesso è accaduto nella mia vita, all’improvviso una buona notizia soppianta quella brutta. È il terzo fatto importante, che imprime una nuova svolta nella mia vita: la candidatura alla Camera dei deputati. Che giunge proprio inaspettata.
Non che non si sapesse che Veltroni, nel frattempo diventato segretario del Pd, avrebbe messo in lista un rappresentante del mondo gay. Era scontato: dopo Grillini, toccava a un altro. Ma il nome era ancora un mistero. E quel giorno l’allora leader del Partito democratico doveva presentare la candidatura di un operaio della Thyssen, l’azienda siderurgica tedesca nella cui sede di Torino, nel dicembre precedente, erano morti sette operai nel rogo scatenato dalla fuoriuscita di olio bollente. L’unico superstite di quel gruppo di operai coinvolti nell’incidente era Antonio Boccuzzi. Walter aveva deciso di candidarlo. Io non ero prevista. Però sul «Corriere della Sera», il 28 febbraio, esce un articolo in cui si racconta come finora Veltroni, pressato dai cattolici, temporeggi sulla candidatura di un omosessuale, e si fa il mio nome, seguito da questa domanda: perché mai, avendo una rappresentante di quel mondo in casa propria, il segretario del Pd esita tanto? Veltroni legge il giornale e si arrabbia. È un vizio dei politici seguire i giornali con un’attenzione eccessiva. Un vizio che, in questo caso, mi ha portato bene. Perciò Walter, dopo quell’articolo, decide di non rinviare oltre la scelta. Di qui l’accelerazione e il cambio di programma. Io non me l’aspetto, non ne so niente. Il 28 febbraio Veltroni annuncia la mia candidatura, me assente. Così quella mattina vengo a sapere che sono in lista. Non me lo dice Walter, che sentirò solo dopo, ma Andrea Benedino, con cui, come ho già raccontato, ho passato anni a cercare di convincere la sinistra che, tra i tanti diritti per cui vale la pena di combattere, quelli civili meritano uno spazio.
Prima di accettare chiedo consiglio a due donne grandiose che nei momenti del bisogno sono sempre al mio fianco. Due persone straordinarie a cui devo molto, diverse per storia e cultura, ma accomunate da una grande libertà di pensiero. Una è Claudia Mancina, filosofa ed ex parlamentare del Pds, la teorica della svolta della Bolognina, quella in cui Achille Occhetto decretò la fine del Pci. L’altra è Miriam Mafai, la più grande giornalista italiana, che è stata compagna di vita e di impegno civile di Giancarlo Pajetta. Miriam l’ho conosciuta negli anni del femminismo. Abbiamo continuato a frequentarci e, nel 1998, insieme a Franca Chiaromonte e ad altre esponenti della sinistra, abbiamo costituito Emily, un’associazione che aveva il compito di promuovere le donne in politica. Claudia la conosco dagli anni Ottanta, da quando stavamo insieme nel Pci. Le vedo periodicamente a cena: sono serate di confronto e di discussioni. Le chiamo ogni volta che ho un dubbio per avere un suggerimento, un punto di vista mai scontato, una parola di incoraggiamento.
E dunque accetto. Io in pista per conto del Pd? Apriti cielo. E il cielo si apre. Nel movimento gay scoppia la polemica. C’è chi me le dà di santa ragione: è un’estranea, un’intrusa, è vero è lesbica, ma non doc perché non viene dal movimento, bensì da un partito. Sembra incredibile: Franco Grillini se n’è andato dal Pd, nelle liste per le elezioni del 2008 non c’è nessuno a rappresentare quel mondo e allora perché vengo crocifissa così? La spiegazione me la fornirà più tardi Aurelio Mancuso, ex presidente dell’Arcigay. I motivi di quella reazione, in realtà, io già li conoscevo, ma mi ostinavo a non crederci fino in fondo: mi sembrava tutto così pazzesco. Le parole di Aurelio sono state queste, né più né meno: «Il dramma è che in Italia c’è una sinistra arretrata, che non è mai riuscita a ottenere niente nel campo dei diritti civili. Di conseguenza, il movimento gay nutre da sempre una grande sfiducia nella politica. Ma questa stessa sfiducia lo ha trasformato in un movimento elitario e chiuso».
Che assurdità la mia condizione. Sono strana ed estranea per gli abruzzesi, per i compagni di partito, e adesso, con quella candidatura, anche per i gay. Quella reazione non mi turba ma mi disturba. Tutti gli omosessuali che sono entrati in Parlamento prima di me venivano dalle organizzazioni degli omosessuali. Io no. Faccio sommessamente notare che nel resto d’Europa i gay eletti in Parlamento sono dirigenti di partito, proprio come me, ma la situazione non cambia. Il fatto che io sia lesbica non mi dà un lasciapassare, anzi, paradossalmente peggiora le cose. È come se avessi tradito, se avessi svenduto il marchio del lesbismo al Pd, e non lo avessi lasciato lì, nella sua teca, al riparo...