Piccoli limoni gialli
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Piccoli limoni gialli

  1. 396 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Piccoli limoni gialli

Informazioni su questo libro

Agnes ha tutto ciò che si può desiderare: un lavoro che adora, un fidanzato bello e innamorato, una famiglia amorevole e sempre pronta a sostenerla. Il capo tenta goffamente di molestarla e, vistosi respinto, la licenzia. Rientrando a casa frustrata e amareggiata viene accolta, anziché dall'abbraccio consolatorio del fidanzato, dalla notizia che lui ha deciso di lasciarla. E un'altra brutta sorpresa è in arrivo dai genitori¿ Ce n'è di che chiudersi in casa a compiangersi. E invece Agnes non vuole darsi per vinta e, superato l'iniziale sconforto, cerca di riprendere in mano la propria vita accettando la proposta di un amico: aprire insieme un piccolo ristorante che diffonda nell'inverno svedese profumi e sapori del Mediterraneo e di quei Piccoli limoni gialli che diventeranno la loro insegna. I due investono tutte le loro energie e i risparmi nella nuova avventura... Ma sarà la scelta giusta? Riuscirà Agnes a riscattarsi e magari a ritrovare l'amore?
Acclamato bestseller in Svezia e nelle decine di Paesi in cui è stato tradotto, Piccoli limoni gialli è una tenera e frizzante commedia degli equivoci degli anni Duemila.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2012
Print ISBN
9788804622222
eBook ISBN
9788852025556

1

Non era la prima volta che qualcuno le toccava il seno. Non era nemmeno la prima volta che un uomo le ansimava nell’orecchio premendole addosso il membro in erezione. Ma era la prima volta che qualcuno faceva tutto questo contro la sua volontà.
Agnes era stretta contro la parete di mattoni umida e fredda della cantina, che le aveva già graffiato una spalla. Udì la voce impastata che le sibilava nell’orecchio: «Salope!». Gérard tolse la mano dal suo seno e cercò di infilargliela in mezzo alle cosce. Agnes era immobile, come se il francese piccolo e cicciottello che ora stava imprecando contro la sua gonna al ginocchio l’avesse paralizzata con le mani appiccicose e quello sguardo da film porno francese.
All’inizio, naturalmente, Agnes aveva protestato, rifiutando gentilmente le sue avance e cercando di usare la solita tattica: sgusciare via, parare i colpi, fare in modo che ci fosse sempre gente nei paraggi. Ma quando si era trovata da sola giù in cantina non era riuscita a sfuggire. Gérard Cabrol era il suo capo ed evidentemente pensava di avere il diritto di prendersi certe libertà con il personale. Alle palpate sul sedere si era abituata già da tempo, e si limitava a rispondere ai commenti sessisti sul suo aspetto alzando stancamente un sopracciglio. Doveva accettarlo, pensava Agnes, faceva semplicemente parte del suo lavoro. Ma la situazione in cui si trovava adesso era diversa, parecchio diversa. Questo Agnes l’aveva capito al volo.
Gérard le aveva infilato la mano sotto la gonna e ansimava eccitato. Sapeva di essere ormai vicino alla meta e, certo della vittoria, diminuì leggermente il ritmo. La chiamò “ma chérie” e “mademoiselle Edin” e si prese il tempo di massaggiarle con forza l’interno delle cosce prima di coronare il suo “corteggiamento” tirando fuori il suo attrezzo e soddisfare Agnes proprio lì, contro il muro di mattoni.
La giovane donna non avrebbe saputo dire da dove le venisse quella reazione, ma all’improvviso si sentì inferocita. Non pronta a protestare a bassa voce o a opporre un timido rifiuto, ma proprio incazzata. Le venne fuori tutto quello che aveva dovuto mandare giù durante quei mesi di palpatine e commenti offensivi sui punti forti e deboli del suo aspetto fisico.
Alzò le mani, che fino a quel momento erano rimaste inerti lungo i fianchi, e colpì con forza Gérard al petto. L’uomo imprecò, poi perse per un attimo l’equilibrio e vacillò, ma recuperò in fretta il baricentro. Si scagliò contro di lei urlando così forte che la saliva gli schizzava dalla bocca. Ma che stava facendo, sgualdrina ingrata?! Questa volta Agnes era pronta, si era messa in posizione da combattimento con tutti i muscoli tesi. Si spostò agilmente di lato e Gérard andò a sbattere contro la parete. Se la situazione non fosse stata così drammatica, si sarebbe messa a ridere quando Gérard picchiò il naso sul muro non intonacato.
Non era più un gioco, nemmeno per lui. Era furioso. Il piccolo corpo pesante era scosso dalla rabbia e il viso era paonazzo, a parte il naso, dove il graffio brillava di un rosso vivo. In realtà Gérard era più basso di lei ma sicuramente più forte, e Agnes continuava a indietreggiare per sfuggire alle sue braccia che si agitavano in aria. La cantina non era grande e non ci vollero molti passi prima che Agnes finisse contro uno scaffale sul quale erano elegantemente allineate alcune bottiglie di vino. Gérard la raggiunse prima che riuscisse a escogitare una via di fuga, poi si avventò su di lei e cominciò a strapparle la camicetta bianca. Alcuni bottoni saltarono via e rotolarono sul pavimento producendo un debole tintinnio. Agnes rimase praticamente in reggiseno, ma Gérard non si accontentò di restare a guardare. Aveva ben chiaro il suo obiettivo, e questa volta gli risultò più semplice sollevarle la gonna. Cominciò ad armeggiare con la cerniera imprecando in francese contro la ragazza, che cercava di liberarsi.
L’aveva bloccata fra due scaffali e sembrava praticamente impossibile sfuggirgli, ma quando Gérard fu costretto a ricorrere anche all’altra mano per aprire la cerniera dei pantaloni, Agnes colse l’occasione al volo, allungò il braccio e afferrò l’unico oggetto che aveva a portata di mano: una bottiglia di vino. La sollevò sopra la testa di Gérard, e stava per colpirlo con forza quando lui se ne accorse. Si bloccò all’istante e si mise a urlare.
«Arrête! Fermati!» le disse con voce quasi supplichevole. All’improvviso sembrava terrorizzato e cercò di afferrare la bottiglia, ma non riuscì ad arrivare alla mano di Agnes. Agitava inutilmente le braccia, facendo tintinnare il Rolex che portava al polso destro contro il gemello. «Se la rompi ti ammazzo!»
«Lasciami!» gridò Agnes. Nel corso di quella lotta impari contro la parete di mattoni non aveva fiatato e la sua voce adesso sembrava stranamente roca. Gérard fece rapidamente un passo indietro e la ragazza, senza abbassare il braccio con cui teneva sollevata la bottiglia, constatò che l’uomo era riuscito ad abbassarsi la cerniera dei pantaloni. Era sorpresa dall’effetto che quell’arma improvvisata aveva sortito: sembrava che avesse tirato fuori una pistola dal reggiseno minacciando Gérard di farlo a pezzetti.
L’uomo fece un altro passo indietro e parlò con una voce che sembrava un tuono minaccioso. «Rimettila a posto, subito! Hai sentito? Questo è il mio ristorante, e tu fai quello che ti dico! Sale putain, merde!» Con la mano libera Agnes si sistemò la gonna e cercò di riabbottonarsi la camicetta. Solo una minuscola parte di lei si sentiva ancora la maître che, dieci minuti prima, era scesa in cantina per andare a prendere una bottiglia di Chablis e due di Châteauneuf-du-Pape.
All’improvviso si udirono dei passi sulla scala: probabilmente era Philippe, venuto a controllare dove fosse finito il vino che Agnes doveva portare in sala. I clienti dovevano essersi lamentati: avevano tutta l’aria di essere tipi esigenti, ragazzi in giacca e cravatta che volevano fare colpo sui loro ospiti più maturi. In quel momento Agnes sentì un profondo senso di gratitudine nei loro confronti. Gérard sussultò. Si aggiustò in fretta la giacca, risistemò un lembo della camicia che era sfuggito dai pantaloni, e poi cercò di tirarli un po’ su, nonostante la pancia.
Quando Philippe entrò nella piccola stanza adibita a cantina, rimase fermo per un attimo e fissò prima Agnes, che stringeva fra le braccia una bottiglia di vino, poi Gérard, che aveva ancora il viso acceso, sebbene il rossore si fosse un po’ attenuato.
«Cosa succede?» chiese. «Perché ci metti così tanto? I clienti si stanno lamentando.» In quel momento Philippe scorse la bottiglia che Agnes teneva stretta a sé come se fosse una granata a cui aveva tolto la sicura. Philippe emise un fischio. «Château Pétrus 1990... Cazzo, l’ha ordinato qualcuno?»
Gérard si schiarì la gola. «No, le ho solo mostrato la bottiglia di vino per spiegarle quanto vale. Vero, Agnes?» Gérard la fissava intensamente. La ragazza deglutì, non sapendo cosa dire. Non aveva idea del valore della bottiglia che aveva afferrato: quella che teneva in mano per lei era un’arma, non qualcosa che si accompagnava bene al fegato di vitello o al brasato. Con cautela abbassò lo sguardo sulla bottiglia impolverata che stringeva al petto e lesse l’etichetta. C’era scritto “Château Pétrus” con caratteri rossi e arzigogolati. L’annata – 1990 – era stampata in nero appena sopra. Aveva un’aria antica: avrebbe potuto essere del 1890. L’aveva notato un’altra volta, quando aveva fatto un giro del ristorante prima di cominciare a lavorarci. Non ricordava quanto costasse, ma era una cifra a tre zeri, nell’ordine di grandezza di un televisore al plasma o di una buona macchina usata. Gérard l’aveva comprata a un’asta a Londra un paio di anni prima e adesso era lì, in attesa che arrivasse un intenditore di vini sufficientemente ricco da sborsare una cifra del genere per degustare quel succo d’uva paradisiaco.
Improvvisamente Agnes cominciò a tremare, non solo perché aveva appena realizzato il valore dell’oggetto con cui aveva cercato di colpire Gérard, ma soprattutto perché la rabbia e la paura lentamente stavano diminuendo. Cominciarono a tremarle le ginocchia. Strano, pensava che capitasse solo nei cartoni animati. Aveva le mani sudate e quando cercò di rispondere a Philippe farfugliò parole senza senso: «Cioè... io... cioè, la rimetto a posto... eh... cioè, prendere il vino... sì».
Allentò la presa sulla bottiglia, poi allungò lentamente un braccio verso lo scaffale dal quale l’aveva presa. Gérard e Philippe la seguivano con lo sguardo. Nessuno diceva nulla. Nello stesso istante, Agnes si accorse di avere la camicetta semiaperta. Più allungava il braccio e più le si vedeva il reggiseno. Che cosa avrebbe pensato Philippe? Che era stata lei a offrirsi a Gérard? Sollevò rapidamente una mano per tenere chiusa la camicetta, ma mentre compiva quel movimento la bottiglia scivolò dall’altra mano sudata, schiantandosi sul pavimento e finendo in mille pezzi.
Sentì che Philippe tratteneva il respiro. Il viso di Gérard, che fino a quel momento era rimasto paonazzo, si fece pallidissimo in un centesimo di secondo; solo il naso dell’uomo brillava ancora di un rosso intenso. Agnes non avrebbe saputo dire per quanto tempo rimasero in silenzio, giù nella piccola cantina, ma quando alla fine lei si decise a parlare, le sembrò che fosse passata un’eternità.
«Ehm...» disse lentamente guardando Gérard senza fare una piega «ti sei dimenticato la cerniera aperta.»

2

Agnes si buttò sul letto. Non aveva avuto nemmeno la forza di togliersi il giaccone. Si era sfilata gli stivaletti con un calcio ed era andata direttamente in camera. Sdraiata sulla schiena, con il montgomery grigio ancora indosso e le mani unite sulla pancia, guardava il soffitto. Notò che la lampada era sporca: sulla superficie verde pallido si vedevano dei piccoli puntini neri, probabilmente si trattava di mosche che erano finite nella coppa di vetro e non erano più riuscite a uscire. Era un pensiero abbastanza triste. E schifoso.
Erano solo le nove e mezzo. Non era abituata a essere a casa a quell’ora. Ecco l’eterno problema del personale dei ristoranti: gli orari. Mai una sera a casa in santa pace, sempre in servizio quando le altre persone si divertivano. Da parecchio non seguiva un telefilm; adesso però ne avrebbe avuto il tempo, pensò facendo un lungo sospiro.
Non era stato un addio doloroso quello al Bateau bleu. Quando Gérard, alla fine, aveva recuperato l’uso della parola, le aveva chiesto sibilando a denti stretti di lasciare immediatamente il ristorante, Tout de suite!”. Non voleva rivederla mai più in quel posto, anzi: non voleva rivederla mai più in vita sua. Con o senza vestiti. Agnes, con l’aiuto di tre anni di francese imparato a scuola e un po’ di fantasia, aveva interpretato quelle ultime parole come un “frigida che non sei altro!”. Il commento non la feriva in maniera particolare: le era toccato sopportare ingiurie peggiori durante i sei mesi passati in quel ristorante. Non era certo per questo che adesso stava sdraiata sul letto a fissare mosche morte pensando che non avrebbe mai avuto la forza di rialzarsi. Era la sua carriera la cosa che rimpiangeva.
Era stata così felice per quel lavoro. Il suo primo impiego come maître. E poi proprio in quel ristorante! Era stata l’occasione per lasciarsi alle spalle tutti i lavori sottopagati da cameriera: il migliore ristorante francese di Stoccolma, anzi, di tutta la Scandinavia. Solo il fatto di essere arrivata ad avere un colloquio l’aveva resa felice. Aveva mandato anche una fotografia, proprio come richiedeva l’annuncio sul «Dagens Nyheter», insieme all’elenco di tutti i suoi impieghi precedenti: dalla Cucina della zia Gullan, dove aveva cominciato a fare qualche turno quando aveva sedici anni, passando per le pizzerie, i bar e i ristoranti che servivano pasti ai lavoratori in pausa pranzo, fino ad arrivare, negli ultimi anni, a locali piuttosto rinomati, dove si servivano merluzzo del Mare del Nord con radici glassate e pollo con pesto di salvia e pomodori secchi. Se si contava anche la Cucina della zia Gullan, si poteva dire che Agnes avesse lavorato quasi metà della sua vita come cameriera. Credeva quindi di essersi meritata la possibilità di diventare maître, sebbene fosse ben oltre le sue più rosee aspettative avere un lavoro simile al Bateau bleu.
All’inizio Gérard si era mostrato simpatico e corretto, anche se un po’ troppo ammiccante, come i gentleman di un tempo sapevano essere. Certo, il suo accento francese le sembrava affascinante, ma non le era mai passato per la testa che tra loro ci potesse essere qualcosa di più: era quasi coetaneo di suo padre.
Si trovava bene al lavoro, sebbene molte donne dello staff spettegolassero alla sue spalle. Naturalmente erano gelose perché le era stata data quell’opportunità. Agnes sapeva che queste cose danno fastidio alla gente. Per questo era ancora più importante che facesse bene il suo lavoro: non voleva dare loro il pretesto per mettere in discussione le sue competenze. Gérard solitamente era molto incoraggiante nei suoi confronti e Philippe, il cameriere che lavorava lì da più tempo, la aiutava nelle cose pratiche. Agnes aveva fatto del suo meglio, e dopo alcune settimane di assestamento, le sembrava di gestire piuttosto bene le sue mansioni. Con disinvoltura dava il benvenuto ai clienti, li accompagnava ai tavoli e suggeriva di bere qualcosa prima del pasto. Serviva martini dry e prendeva le prenotazioni per telefono. Sapeva quali erano i clienti che dovevano avere sempre un tavolo riservato, indipendentemente dal fatto che telefonassero cinque minuti prima di arrivare. Il segreto del suo lavoro era avere sempre un asso nella manica. Dopo un incidente iniziale con un noto pezzo grosso dell’industria, che aveva voluto un tavolo per dodici un venerdì sera con mezz’ora di anticipo, Agnes aveva imparato come riorganizzare le prenotazioni e massimizzare il numero dei clienti.
Adorava il grande locale arioso con il soffitto affrescato, i sontuosi lampadari di cristallo e i pannelli di legno scuro che davano al ristorante un aspetto distinto. Nonostante l’imponenza degli arredi, era comunque un posto accogliente. I tappeti orientali consunti ingentilivano l’ambiente e attutivano i rumori, e le tende bianche di pizzo, che erano sempre abbassate e lasciavano filtrare tiepidi raggi di luce, ricordavano ad Agnes quei bei ristoranti di una volta che aveva visto a Praga. Dal soffitto pendeva anche una nave: la nave blu, che dava il nome al ristorante. Secondo la leggenda, era appartenuta a una vedova che aveva fatto costruire il modellino dell’imbarcazione su cui era morto suo marito durante una tempesta. Agnes non sapeva se fosse vero, ma Philippe le aveva detto una volta che Gérard aveva comprato il modellino a Parigi in una pizzeria che aveva chiuso i battenti. Una cosa non escludeva necessariamente l’altra.
Al Bateau bleu avevano mangiato tutti, da Olof Palme a Robbie Williams. Era, senza esagerazione, il ristorante più famoso della città ed era sempre pieno di gente. Agnes sapeva bene perché. Anche lei era stata una cliente del ristorante una volta, quando aveva appena incontrato Tobias. Non si ricordava cosa volesse festeggiare il suo fidanzato, forse un nuovo lavoro, sta di fatto che l’aveva invitata fuori. Si ricordava ancora quello che aveva mangiato. Steak frites. Pensava che Tobias la stesse prendendo in giro quando aveva insistito perché ordinasse proprio quel piatto. Carne con patatine fritte?... Veramente una cosa simile l’aveva già mangiata e, per quanto buona potesse essere, c’era comunque un limite. Tobias non si era arreso e lei ne era rimasta soddisfatta. Era in assoluto uno dei piatti migliori che avesse mangiato in vita sua. Inoltre il servizio era impeccabile e per alcune ore si era sentita una principessa. Una principessa amata.
E pensare che era stata assunta proprio in quel ristorante. E che poi l’avevano licenziata.
Doveva essersi assopita, perché era quasi mezzanotte e mezzo quando lo squillo del telefono la svegliò. Era sudata e un po’ stordita. Cercò a tastoni il telefono accanto al letto. Riuscì ad afferrare la cornetta proprio un attimo prima che partisse la segreteria telefonica. Il suo “pronto” suonò disperato.
«Agnes? Sei già a casa? Speravo... cioè, pensavo che ci fosse la segreteria telefonica.» C’era un baccano terribile in sottofondo, riusciva a malapena a sentire la voce di Tobias in mezzo a quel frastuono.
«Perché non sei al lavoro?» Agnes cercò di ricomporsi. «Ho cercato di chiamarti un sacco di volte.»
«Davvero? È che non avevo il cellulare acceso, abbiamo picchiato duro.» “Picchiato duro.” Tobias si esprimeva ancora come se fosse stato sul palco con il gruppo dei tempi in cui suonava in un garage, sebbene fosse in tour da quasi un anno con lo spettacolo di Christer Hammond. «Volevi dirmi qualcosa?»
«Sì.» Agnes non sapeva da dove cominciare. Aveva cercato di raggiungere Tobias diverse volte mentre stava tornando a casa e prima di addormentarsi. Avrebbe voluto che fosse lì con lei. Adesso. Che la tenesse stretta, la consolasse, le dicesse che tutto si sarebbe sistemato e che gli stava bene, a quel pezzo di merda, se aveva rotto la bottiglia, peccato che non gliel’avesse spaccata in testa. Aveva bisogno di lui, era l’unico che potesse tirarla su di morale in quel momento. Sapeva che quel senso di nausea sarebbe scomparso se solo Tobias l’avesse stretta fra le sue braccia. Le sue parole di conforto le avrebbero fatto capire che non sarebbe necessariamente finita a cuocere gli hamburger da McDonald’s per il resto dei suoi giorni. «Vorrei che tu fossi qui» pigolò, mentre le lacrime cominciavano a scorrerle lungo le guance.
«Cosa?» urlò Tobias. «Parla più forte! Qui stanno facendo una festa.»
«Quando ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. di Kajsa Ingemarsson
  3. Piccoli limoni gialli
  4. 1
  5. 2
  6. 3
  7. 4
  8. 5
  9. 6
  10. 7
  11. 8
  12. 9
  13. 10
  14. 11
  15. 12
  16. 13
  17. 14
  18. 15
  19. 16
  20. 17
  21. 18
  22. 19
  23. 20
  24. 21
  25. 22
  26. 23
  27. 24
  28. 25
  29. 26
  30. 27
  31. 28
  32. 29
  33. 30
  34. 31
  35. 32
  36. 33
  37. 34
  38. 35
  39. 36
  40. 37
  41. 38
  42. 39
  43. 40
  44. 41
  45. 42
  46. 43
  47. 44
  48. 45
  49. 46
  50. Un sacco di ringraziamenti
  51. Copyright