Quando si usciva da quella strana casa, ci si sentiva come rinfrancati da un qualcosa di indefinito. Come più leggeri. Forse era il tono della voce del Vecchio, che si emozionava mentre raccontava e aveva una cadenza quasi ipnotica.
Durante il tragitto di ritorno verso il centro del paese, sorridevano tutti. I genitori avanti e i ragazzi che si tenevano volutamente a qualche metro di distanza. Stefano e i gemelli si passavano con i piedi una lattina di Coca-Cola. Diego notò con stupore che Stefano, addirittura, con quella lattina riusciva a palleggiarci.
Nel frattempo Nadia gli si era fatta vicina e aveva camminato al suo fianco per un po’, senza parlare. Neanche lui aveva sentito il bisogno di aprire bocca, anche perché era ancora imbarazzato. Poi Nadia gli chiese: «Mi accompagni?».
Allora lo voleva mettere alla prova! Se si fosse buttato di nuovo, lo avrebbe fatto cadere, comunque era bello che lei gli concedesse una seconda possibilità. Per rimanerle amico, almeno.
Dopo aver salutato gli altri, i due proseguirono sulla salita che portava alla parte vecchia del paese. I genitori avevano accelerato il passo ed erano stati più rapidi nei saluti, a quell’ora erano sicuramente già arrivati a casa.
Diego e Nadia continuavano a camminare vicini. Lei gli sfiorò la mano con la sua. «Scusa» esclamò Diego.
Nadia si mise a ridere. Poi si bloccò. Suo padre, il sindaco, era lì davanti fermo sotto un suppuort e stava parlando con... sua madre? Possibile?
Anche Diego lo aveva notato e si era fermato. Non sapeva se tirare per un braccio Nadia e portarla via o creare un po’ di rumore per farsi notare. Alla fine fece finta di starnutire. Nel silenzio della sera fu come un allarme. Nadia lo fulminò con lo sguardo. Il sindaco si voltò a guardare e così fece la donna che era con lui. Coperta per buona parte da un muro, si intravedevano solo parte della maglietta, un braccio e la mano.
Diego aveva quindi capito subito che si trattava di Germana: era l’unica, quella sera, con indosso una maglietta arancione acido. Nadia, invece, non poté evitare lo shock.
«Ciao ragazzi,» si affrettò a dire il sindaco con un tono che tradiva un certo imbarazzo «Germana mi ha accompagnato verso casa, solo che, vista l’età e le sigarette, non ce la fa già più.»
«Guarda che sei due mesi più vecchio di me» ribatté la donna.
«Ma non fumo e corro, spesso.»
Lei gli diede un pizzicotto sul braccio, un gesto di indubbia e sospetta intimità.
«Andiamo papà» intervenne Nadia, infastidita dalla scena a cui, senza volerlo, aveva appena assistito.
«Ma certo andate, io torno giù con Diego» disse la donna.
«Ciao.»
Nadia fece un cenno con la mano e se ne andò. Diego non fece domande. Germana non diede risposte.
Il giorno seguente pioveva. In tv c’era un torneo amichevole estivo. Ruggero aveva il satellite e così, nel pomeriggio, si ritrovarono a casa sua per vedere Barcellona-Manchester United.
A vedere il Barcellona, più che altro.
Germana non c’era. Il sindaco aveva preferito non invitarla. Nadia gli aveva tenuto il broncio per tutto il giorno e lui si era guardato bene dal chiederle il perché. Il che, secondo la ragazza, equivaleva a un’ammissione di colpa. Se non ci fosse stato nulla di strano, l’avrebbe certamente tranquillizzata. Così dimostrava che, sotto sotto, qualcosa per cui sentirsi in imbarazzo c’era.
Il Barcellona vinse, naturalmente.
«Quando gioca il Barcellona bisognerebbe essere lì. Io l’ho visto dal vivo. È impressionante.» Il sindaco era stato un weekend a Barcellona, una delle pochissime vacanze che si era concesso, solo per vedere Barcellona-Real Madrid.
«Tu c’eri quindi...» fece Cesare. «Ma secondo voi il Vecchio c’era veramente? In tutti quei posti, intendo.»
«Io ci credo,» disse Diego «anche se non so come sia possibile.»
«A voi ha detto che ha iniziato a guardare il calcio nel ’74.»
«Sì, papà, ma già lavorava e viaggiava.»
«Quindi doveva avere almeno diciotto-diciannove anni. Almeno. Adesso dovrebbe essere intorno alla sessantina. Anche qualcosa di più. Li porta bene eh?»
Erano tutti d’accordo, e ancora di più lo sarebbero state le signore.
«A diciotto anni poteva essere uno della squadra Primavera, poi giocatore pieno negli anni Ottanta, poi che ne so... dirigente... allenatore...»
«Vedi un po’ Cesare, controlliamo su Internet, speriamo ci sia abbastanza linea. Digita “giocatore”, “squadra”, “Primavera”, “Lazio”, “Roma”, “Juve”. Ha parlato di queste no? Qualcosa verrà fuori.»
Il computer di casa era lì vicino, sulla scrivania in un angolo del salotto. Pochi secondi dopo giunse il primo, deludente responso.
«Non mi dà niente. Possibile?»
«Cerca allora “Primavera, Lazio, anni Settanta”, vedrai che qualcosa spunta.»
«Eccoci... Lionello Manfredonia...»
«Cavolo! Manfredonia gioca nella Lazio... Juve... Roma. Poi ha fatto pure il procuratore. Si è sentito male in campo una volta, ne ha di storie da raccontare!»
«L’unica cosa... di aspetto lo ricorda, ma non è che ci assomigli molto.»
«Magari si è un po’ ritoccato.»
«Guarda la foto» suggerì Diego.
«Dai, è lui!»
«È lui... sicuro. Stasera gli facciamo la sorpresa. Ma come ho fatto a non pensarci? Perché non l’ho riconosciuto?!»
«È un bel po’ diverso da come ce lo ricordavamo, non trovi?»
«Ehi,» li interruppe Diego «guardate qui. Le date non coincidono: Manfredonia non era nella Roma di Liedholm, arrivò molto dopo, nella Juve del Trap giocò appena un anno... Ma siete sicuri?»
«E sennò chi è?»
«Mah, non lo so. Però potrebbe essere un osservatore, un dirigente, magari faceva solo il poliziotto ed era di scorta alle squadre.»
«E vabbe’» sembrò scusarsi Cesare «da qualche parte, per capire, dobbiamo cominciare: io voto ancora Manfredonia, poi stiamo a vedere.»
Intanto Diego e Nadia erano andati a prendersi una Coca-Cola in frigo, anzi Nadia aveva chiesto a Diego se ne volesse una e se poteva aiutarla a preparare un po’ di patatine per tutti.
I gemelli avevano ridacchiato, prendendola un po’ in giro e lei se l’era cavata con un sorriso. Diego era sempre in imbarazzo e tra l’altro Stefano, fin dalla sera prima, lo guardava di sbieco, quasi senza rivolgergli la parola.
Evidentemente era un po’ geloso. La conferma arrivò solo pochi minuti dopo. Stefano prese Diego per un braccio e lo tirò da parte.
«Te l’ha detto Nadia, vero?»
«Cosa mi doveva dire?»
«Ah no, pensavo che, essendo amici, magari te l’avesse detto.»
«Ma cosa?»
Diego temeva la risposta e aveva un groppo in gola.
«Che... ci siamo baciati.»
Un fulmine, un tuono, il gelo che gli saliva nelle ossa, ma fece in modo di non dare a vedere che quelle parole gli avevano tolto il fiato. E spezzato il cuore.
«No, non me lo ha detto.»
«Ah, pensavo foste già in confidenza, allora fai finta di niente. Sai, magari le dà fastidio che si sappia. È bella vero?»
Non meritava neanche una risposta, Diego si limitò ad assentire accennando con la testa.
«Speriamo non sia una di quelle che si attacca, perché io ho una ragazza a casa e non la lascio certo per lei. Se si vuole divertire bene, sennò ciccia...»
Ecco, questa era la storia: una ragazza – che per lui sarebbe stata una benedizione, una specie di miracolo, una storia che avrebbe cambiato la sua vita –, per uno come Stefano era un passatempo, un’avventura, quasi una scocciatura. O almeno così voleva che sembrasse.
Diego tornò a casa con l’umore fetido, non salutò neanche la madre, si chiuse in camera, si infilò le cuffie e si chiuse in un silenzio pieno di pensieri. Neri.
Sulla sua vita, sulla solitudine, sul fatto che non aveva ancora trovato qualcuno che lo volesse o che, almeno, lo capisse.
E forse non l’avrebbe mai trovato. Con Nadia non c’erano più tattiche, non c’erano più tempi supplementari. Non c’era neanche più una partita da giocare.
Dopocena si trovarono tutti davanti alla porta del Vecchio. Il sindaco e Germana si erano scambiati un abbraccio di saluto un po’ più lungo del solito, un po’ più caloroso. Un po’ più tutto. E Nadia aveva subito messo il broncio.
Quando entrarono, l’ex garage dei pullman era completamente al buio. Dal finestrone in fondo, quello che Diego aveva rotto con la pallonata, si vedeva il bagliore argenteo della luna piena.
Il Vecchio la stava osservando seduto sul divano che, per l’occasione, aveva girato rispetto alla posizione consueta. Si sedettero in silenzio sul tappeto, ma sembrava che lui non avesse voglia di parlare. Non li aveva salutati al loro ingresso, non aveva detto una parola. Forse non si sentiva bene.
«Qualcuno ha una sigaretta?» chiese.
Germana si alzò e gliene porse una, accendendogliela. Lui la annusò e poi la posò su un vecchio barattolo tagliato a metà, che fungeva da posacenere, ma non la portò mai alla bocca.
«C’era la luna piena anche quella sera del 4 luglio 1982. Ci fermammo a guardarla, di sera, nell’atrio dell’albergo che ospitava la nazionale. Ero con Gaetano.»
«Gaetano? E chi è?»
«MA COME CHI È... COME CHI È? MA PROPRIO TU STEFANO, PROPRIO TU CHE SEI JUVENTINO? Gaetano Scirea! Il più grande signore della storia del calcio. Sono le basi. E DAI, SONO LE BASI...»
Fece una pausa.
«Gaetano aveva anche un suo modo di essere divertente, ma aveva come un velo di malinconia quando stava in mezzo agli altri, quasi intuisse il suo destino.»
«Perché, come è morto Scirea?» chiese Tempesta incuriosito.
«Un incidente d’auto in Polonia, faceva l’osservatore per conto della Juve, era andato a vedere i prossimi avversari di coppa, lo fecero viaggiare su una vecchia auto che aveva delle taniche di benzina nel portabagagli. Un tamponamento e poi lo scoppio» ricordò Roberto, un po’ mortificato nel constatare che alcune vicende, inevitabilmente, si affievoliscono nella memoria.
«Io gli ero spesso vicino, mi piaceva stargli accanto, mi faceva sentire migliore» proseguì il Vecchio.
«Non era un filosofo, e neanche un vecchio saggio. Era, soprattutto, una persona perbene. E uno straordinario giocatore. Parlano tutti di Franz Beckenbauer, il tedesco, come del più forte difensore di tutti i tempi, ma in pochi si ricordano di come giocava Gaetano, di come uscisse palla al piede dall’area, di come stringesse la mano all’avversario subito dopo un tackle o uno scontro. Di come rivolgesse con garbo persino le sue proteste all’arbitro.
In pochi sottolineano il fatto che questo vero signore sia stato anche uno dei più forti calciatori di tutti i tempi, quasi che dopo la sua morte l’anima avesse preso il sopravvento sull’uomo. Di molti si rammentano le parole, di lui mi vengono in mente i grandi silenzi con Zoff. I due non avevano neanche bisogno di parlare. In campo e fuori. Bene, quel 4 luglio eravamo lì fuori dall’albergo e guardavamo la luna piena.
“E se fosse un segno?” se ne uscì Gaetano.
Il giorno dopo l’Italia avrebbe incontrato il Brasile. Sembrava spacciata, la nostra nazionale. Era un mese che sembrava spacciata, da ben prima che cominciasse quel mondiale. La nostra squadra era stata ricostruita a fatica negli ultimi cinque anni.
Il 1966, anche se lontano nel tempo, era stato l’anno della tragedia calcistica per antonomasia, la sconfitta patita con la Corea del Nord che convinse tutti, Figc e dirigenti politici che a vario titolo mettevano becco nelle faccende di calcio, a chiudere le porte agli stranieri. Le squadre avrebbero potuto acquistare solo giocatori autoctoni o già presenti nel nostro campionato. Gli autarchici avevano esultato appena due anni dopo, quando l’Italia aveva vinto, un po’ per caso, l’Europeo del 1968.
Nel 1970, in Messico, il ct Ferruccio Valcareggi aveva fatto impazzire tutta l’Italia mettendo in campo una squadra di grande talento e forza fisica, che era riuscita ad arrivare in finale con il Brasile di Pelé.
Solo che dopo la sconfitta per 4-1 l’opinione pubblica si era dimenticata anche della storica semifinale di Italia-Germania 4-3 e aveva accolto la squadra al rientro a suon di pomodori.
Ai mondiali tedeschi del 1974, invece, l’Italia era andata malissimo; Valcareggi non era stato in grado di mettere d’accordo i vari gruppi che spaccavano la squadra. Simbolo di quella sciagurata avventura, che si chiuse dopo il primo girone, resta il gesto di Chinaglia dopo essere stato sostituito nella prima partita contro Haiti. Via negli spogliatoi e un “vaffa” convinto al tecnico. E pensare che quella squadra era considerata una delle favorite. Un’occasione malamente sprecata.
Poi, come tecnico della nazionale, era arrivato Fulvio Bernardini e aveva provato a ricominciare tutto daccapo. Una squadra giovane, fatta di ragazzi e aperta al futuro. Bernardini era uno che non aveva certo paura di innovare. Aveva dominato la scena come calciatore negli anni Venti e Trenta. Un vero genio. Eppure non fu convocato nelle nazionali campioni del mondo del 1934 e del 1938.»
«E perché?» chiese il sindaco.
«La versione ufficiale dell’allenatore di allora, Vittorio Pozzo, fu che era “troppo intelligente”, che in quella nazionale molto fisica non si sarebbe trovato a suo agio, ma la verità era un’altra. Bernardini era un liberale, certo non amava i fascisti, e poi un giorno accadde una cosa che forse condizionò per sempre la sua carriera in maglia azzurra, anche se lui non confermò mai la versione che si è tramandata.»
«Che cosa successe?»
«Io quella volta non c’ero Diego, però pare che tutto nacque da un malinteso. Bernardini a Roma era un idolo, aveva giocato nella Lazio e poi, per moltissimi anni, nella Roma. Era ricco ed era uno dei pochi a possedere l’automobile. Un giorno un’auto gli strombazzò chiedendogli strada, lui accostò e salutò il prepotente che sfrecciava al suo fianco con il classico segno delle corna. Dicono che in quella macchina ci fosse nientemeno che Mussolini.
Il Duce, vendicativo e ...