Ti parlo da una vita
eBook - ePub

Ti parlo da una vita

Donne che non hanno creduto al silenzio di chi non c'è più

  1. 108 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Ti parlo da una vita

Donne che non hanno creduto al silenzio di chi non c'è più

Informazioni su questo libro

Due amiche, due che si parlano "da una vita". Di tutto, di tutti. Due ragazze-per-sempre, che a cinquant'anni chiacchierano fino a notte in macchina: con i piedi nudi sul cruscotto e la sigaretta in bocca. Quasi due sorelle. Una si ammala, muore. L'altra l'accompagna alla soglia. E resta, di qua dal muro. Ma decide di non smettere di parlare, forse da sola, forse con lei: perché gliel'ha promesso: "Troverò il modo", le ha detto prima di lasciarla andare. Questa è la storia di chi scrive. Cucita, con il dolore della prima persona, ad altre storie. Quelle di donne - forti, lucide, disperatamente tenaci - che cercano, seguono, evocano le tracce di chi non c'è più. Osano avvicinarsi al limite che separa i vivi dai morti, per trovare il luogo di un incontro possibile ("Ho cominciato a credere che potesse esserci una porta fra me e mio figlio" dice una di loro "e che quella porta era stata aperta"). Sono donne, però, che non raccontano la morte, ma la sopravvivenza dell'amore. C'è la storia di Gemma, che ritrova la voce del figlio perduto, dopo mesi passati a gridare il suo nome a un vecchio registratore. E c'è quella di Edda, che nella voce del figlio inciampa, perché è lui a continuare a chiamarla, è lui che vuole dirle dov'è. C'è Carla, che ha perso una figlia nel terremoto dell'Aquila, e che afferma di credere nell'incredibile per non perdere il contatto con la realtà. C'è Marta, che riceve ogni anno una rosa dal figlio che non c'è più ma che non ha mai smesso di sentire accanto a sé ("Una madre sa sempre dov'è suo figlio. E lui è qui"), e che le racconta, a suo modo, l'esistenza di un aldilà così umano da sembrare terreno, e dunque comprensibile, vicino e bellissimo. C'è Maria Letizia, che ha chiesto alla figlia le prove della sua esistenza (là dove è ora) per non morire con lei. C'è la donna che un figlio, quel figlio, non ha voluto metterlo al mondo, ma non ha mai smesso di cercarlo, e lo ritrova in un piccolo paradiso, o forse soltanto dentro di sé. C'è Monica, che ha imparato dal figlio di 4 anni a piegare la testa, a inginocchiarsi davanti alla morte. L'ha aspettata, in silenzio, poi le ha chiesto, in cambio, parole, segni, simboli. Qualunque cosa: pur di rimanere insieme al suo bambino. E c'è Annamaria, che dal figlio perduto ha avuto la notizia del figlio in arrivo. E che oggi è una mamma felice, ma non dimentica il bambino che ha perso. Quel bambino che, per certi medici, era "soltanto una bambola di pezza".
Un libro di grande impatto emotivo, sull'amore che non sa e non vuole arrendersi. Le nove storie - più una, quella di chi scrive - raccontano di donne che hanno imparato che può essere la morte a consolare la vita. In comune non c'è il dolore, ma il bisogno di metabolizzarlo in parole. Per continuare a dire a chi non c'è più: io ti parlo da una vita. Da sempre, da qui.

Domande frequenti

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2012
Print ISBN
9788804616894
eBook ISBN
9788852024924

Monica che si dice felice

«Sono una madre felice. Di Leonardo e di Giacomo. Giacomo è morto quattro anni fa. Quattro, come gli anni che aveva. Voglio parlare di lui. Desidero farlo. Lo dico sempre a tutti: alle amiche, alle colleghe. Soprattutto a chi evita l’argomento per paura di ferirmi. Dico: per favore chiedetemi di lui. Non toglietemi la gioia delle parole.
A tre anni, Giacomo era un bambino schivo, parlava pochissimo. E dormiva con difficoltà: quasi sempre stretto a me, nel lettone. Io osservavo il suo silenzio e mi dicevo che dovevo avere pazienza, lasciargli il tempo.
Poi, un giorno, l’ho trovato completamente catatonico. Immobile, gli occhi sbarrati.
Tutto è cominciato così: il pronto soccorso, i medici, le visite. E la diagnosi: il bambino è in perfetta salute, può tornare a casa.
Io sapevo che non era vero. Giacomo si era ripreso, ma rispondeva poco agli stimoli, era sempre più solo, sempre più lontano. Ho rifiutato le dimissioni. Quella notte, in ospedale, Giacomo ha avuto una crisi epilettica ed è entrato in coma.
Per la prima volta, da quando mio figlio era nato, stavo vivendo la cosa più atroce: l’impotenza, la paralisi del mio amore per lui. Giacomo era a un passo da me, dietro a un vetro, e io non potevo nemmeno dargli una carezza. Stava dormendo senza il mio bacio. Erano in tanti, intorno a lui: medici, rianimatori. E un’infermiera: ho visto le sue mani affannarsi attorno al mio bambino. Ho visto il suo collo chiazzarsi di rosso. Ho visto il suo petto sollevarsi in un respiro sempre più corto. Giacomo stava morendo.
Sono riusciti a salvarlo. A regalargli un po’ di vita e una diagnosi: tumore cerebrale. Operabile, ma inguaribile. Speranze: nessuna.
«L’operazione mi ha restituito un altro bambino, un figlio non mio. Il tumore aveva tenuto fino ad allora compresso il centro del linguaggio: toglierlo aveva significato dare a Giacomo fiumi di parole, e di sorrisi, e di allegria. Lo guardavo e pensavo: chi sei? Dov’è mio figlio?
Non lo riconoscevo, non lo volevo. Non volevo questo bambino che, presto, avrei perso di nuovo e per sempre.
Passavo le notti a piangere. E i giorni a guidare la mia assenza: facevo tutto, non c’ero mai. Poi, poco alla volta, sono tornata a essere la nuova mamma di questo nuovo, scatenato, adorabile Giacomo.
«La recidiva è arrivata, prestissimo. Nessuna speranza, nessuna. Poco tempo, forse un mese. Abbiamo portato Giacomo all’ospedale di Udine, dove lavora un neurochirurgo a cui devo tutto. Perché mi ha regalato l’ultimo anno del mio bambino: niente speranze, ma mesi sì. E che mesi.
Non potevo garantire la vita al mio bambino, quindi gli ho dato tutto il resto. Giacomo ha potuto nuotare in piscina (contro il parere dei medici), fare il saggio all’asilo (“Ma come? Lo fate stare in mezzo alla gente?”), giocare con la sabbia (“E il catetere?”). È stato sulle montagne russe, ha visto Firenze, ha ballato, cantato, giocato, si è innamorato di Giorgia e ha fatto un giro in bici con lei.
Avevo poco tempo e volevo fargli assaggiare il mondo. Avevo poco tempo e restavo sveglia la notte, a guardarlo dormire: non volevo perdermi neanche un minuto di lui.
Gli accarezzavo le mani: sapevo che presto non avrei più potuto farlo. Parlavo con la morte, già prima che arrivasse a portarmelo via.
«Con Giacomo siamo riusciti a guardare oltre il buio, lui ha voluto giocare sino alla fine. Diceva: “Portami un gioco bello, ma veloce”. Siamo passati per cento ospedali. In tutti sono stata tenace, prepotente. Ho preso i medici per il bavero: ho preteso che venissero a salutarlo ogni volta che staccavano, prima di andare a casa. Hanno cominciato a farlo: la sera dicevano ciao a lui e poi, uno alla volta, a tutti i bambini.
Giacomo aveva paura. Giocava, ma aveva paura. Un giorno, gridando, mi ha detto che non voleva morire, perché la morte è entrare nel buio. L’ho preso in braccio e gli ho detto: “Se un giorno dovessi trovarti nel buio, sappi che dietro di te ci sono io, vai avanti tranquillo. Non mi vedrai, ma riuscirai a sentirmi, perché starò sempre, sempre, dietro di te”.
Ho inventato questa certezza, per lui, per aiutarlo ad andare. E adesso, queste parole le ripeto a me stessa: io so che mio figlio è accanto a me. Non lo vedo, ma lo sento. Lui c’è sempre. Non è un ricordo: è una presenza.
«L’ho portato a morire a casa. Nei suoi ultimi giorni di vita Giacomo ci ha insegnato ad avere rispetto della morte. Ci ha obbligato ad accoglierla in silenzio. Lui, che amava i balli scatenati, mi ha detto: “Adesso voglio solo musica dolce”. E poi: “Non fare entrare più nessuno, abbassa la luce. E la voce”. Stava chinando il capo, in ossequioso rispetto verso quello che gli stava succedendo. E così ho fatto anch’io. Ogni tanto perdevo le forze, lui mi guardava serio e diceva: “Se devi piangere, esci”. Aveva quattro anni, era un uomo.
Non vedeva più, aveva dolori dappertutto. Se ne è andato all’alba, piano. Quando ho capito che era quasi in fondo alla strada, gli ho messo una mano sul cuore. L’ho ascoltato battere: un colpo, un altro. E poi l’ultimo, fortissimo. Lo sento ancora, lo sento sempre.
So di averlo accompagnato fino in fondo. Fino a quando gli ho tolto tubi e cannule, l’ho preso in braccio e gli ho cantato la ninnananna, l’ultima. L’ho scaldato con il mio corpo perché non si ghiacciasse. Poi l’ho messo nelle braccia di mio marito: dovevo andare ad accompagnare Leonardo, suo fratello, a scuola, gliel’avevo promesso la sera prima, quando era andato a dormire dalla nonna.
«Il giorno dei funerali non ho domandato a Dio: “Perché?”. Gli ho chiesto, e non ho più smesso di farlo: “Dov’è mio figlio?”. Tutto qui. Non gli rimproveravo il mio, il suo, il nostro devastante dolore. Volevo soltanto sapere dove lo teneva, e come, e con chi.
Era gennaio, abbiamo chiuso casa e siamo partiti per un piccolo viaggio in Svizzera. A marzo mi sono decisa a contattare una sensitiva, una signora di Roma che, ovviamente, non sapeva nulla di noi. Sono andata a trovarla insieme a mio marito, che mi ha accompagnato perché era seriamente preoccupato per me. Era convinto che fossi impazzita. Non lo ero. Ero lucida, determinata a far rispettare il mio dolore. Ma cercavo una strada che mi indicasse dov’era il mio bambino. Volevo sapere se aveva dovuto davvero attraversare quel buio di cui aveva tanta paura. Volevo essere sicura che qualcuno l’avesse preso per mano.
Quella donna, quella sconosciuta, mi ha detto che ad accoglierlo c’era stato il nonno, quello di cui lui portava il nome (mio marito aveva perso il padre qualche anno prima, ma lei come poteva saperlo?). Poi, attraverso la scrittura automatica, la donna mi ha detto che Giacomo aveva visto la Svizzera insieme a noi (di nuovo: che ne sapeva lei del nostro viaggio?) e tanti altri dettagli sulla nostra vita insieme, sui suoi ultimi giorni, sul suo dolore e sul mio.
Ero attonita, ero scettica: le frasi scritte sul foglio da quella signora mi parevano incomprensibili. E io volevo certezze. Ma qualcosa, una specie di possibilità, cominciava a illuminarsi dentro di me.
Mio marito era perplesso. Mia sorella, molto credente, era addirittura furiosa. Mi urlava che i morti sono morti e che io dovevo lasciarli in pace.
Poi è successo: una sera, eravamo tutti a casa, il corridoio si è riempito di fasci di luce che andavano velocemente dall’alto verso il basso, un’esplosione meravigliosa e inspiegabile. Leonardo, mio figlio, è corso da me gridando: “Mamma hai visto un bimbo?”. (Mesi dopo mi ha spiegato che il suo videogioco continuava a spegnersi e a riaccendersi. E ogni volta appariva il volto sorridente di suo fratello.) Anche la luce di una lampada, quella sera, si è messa a giocare: spenta, riaccesa, spenta… così per venti minuti. Allora ho detto: “Giacomo, sei tu?”. La luce si è spenta e riaccesa due volte di seguito, velocemente. E poi più nulla: è rimasta illuminata. Quel giorno, era la Festa della mamma.
«Se c’è una cosa più insostenibile della morte di un figlio è il dolore del figlio che rimane. Quando Giacomo se ne è andato, Leonardo aveva sei anni. Quel giorno l’ho accompagnato a scuola senza dirgli niente: ero troppo addolorata per trovare le parole giuste, avevo bisogno di tempo, fosse solo un pugno di ore. E invece Leonardo ha saputo tutto dai compagni di scuola (una mamma aveva avuto l’imprudenza di dirlo a suo figlio) e ha, ovviamente, avuto una crisi d’angoscia. Sono andata immediatamente a riprenderlo. L’ho trovato abbarbicato al cancello della scuola come un animale ferito: urlava, piangeva. Si sentiva tradito.
Per un anno intero aveva vissuto all’ombra della malattia di suo fratello. C’è stato un giorno in cui Giacomo è tornato dall’ospedale particolarmente provato, il viso e il corpo trasformati dalla sofferenza e dalla fatica. Leonardo l’ha visto e si è piegato in due: per il dolore, per lo spavento. Giacomo si è messo a piangere: “Sono brutto, sono troppo brutto, lui non mi vuole vedere più”.
«Dopo che se n’è andato, il mio bambino ha continuato a visitare suo fratello. “Mamma, c’era Giacomo” mi ha detto un giorno, a pochi mesi dalla morte. Io ho minimizzato, rispondendo: “Ah sì? E che ti ha detto?”. Non volevo negare, ma temevo di spaventarlo prendendolo troppo sul serio. “Stavo disegnando quando l’ho visto, proprio davanti a me. Mi ha detto di non avere paura, mi ha sorriso e mi ha accarezzato il braccio. Lui è trasparente come l’acqua e luccicante come il mare.”
Anch’io vedo Giacomo, da qualche tempo. Ogni tanto la mattina viene a trovarmi mettendosi alla destra del mio letto. Mi parla, mi consola. È cresciuto, ha le gambe lunghe, adesso.
Ogni tanto io mi perdo nella nostalgia di lui. Piango perché ho bisogno di stringerlo. Poi, in un giorno peggiore degli altri, mi sono sentita soffocata dalla corda del dolore. E ho pensato che forse, questa stessa corda, stava straziando anche lui, lo stava tenendo legato a una sofferenza che non gli appartiene più. Così ho deciso: ho preso una sua fotografia e ho cominciato a parlargli come si fa con un figlio in partenza. Gli ho detto: “Non ti voltare, vai per la tua strada. Abbi pietà per le mie lacrime, ma non averne paura. Io sosterrò il tuo percorso, ovunque tu vada. Perché sono tua madre”.
Mio fratello continua a non credere alla possibilità di comunicare con chi non c’è più. Mia sorella, invece, proprio lei l’integerrima catechista, adesso dice di ricevere messaggi da Giacomo e di considerarli come dolcissime carezze. Io ascolto spesso la sua voce che mi chiama. In questo momento, mentre racconto di lui, sento che mi sta toccando una ciocca di capelli. Sono spettatrice del mio dolore. E ho tante cose da fare: ho la sofferenza della mia famiglia, da curare. Devo far vivere e crescere un’associazione che si occupa dell’assistenza ai bambini terminali (l’abbiamo fondata in ricordo di Giacomo). Ho la mia vita.
Ero atea. Adesso credo. So che è difficile pensare a una serenità possibile, per me. Ma è così. Nessuno, se non l’ha provato, può capire il dolore di una madre che vede morire il suo bambino. Nessuno, se non l’ha provato, può immaginare che cosa voglia dire ritrovarlo e sentirlo. Io adesso so.»

Sei seduta due file avanti a me. Non sei tu, ovviamente: tu sei andata via da più di tre anni. Sono qui per questo: arrivata dall’altra parte del mio mondo, a un convegno in cui scienziati e fisici quantistici spiegano che il tempo è un’opinione e lo spazio pure. Che «tutto è uno» e che tu sei qui.
Sei seduta due file avanti a me. Non sei tu, ma hai le tue stesse spalle e i capelli dritti e biondi. Vedo un pezzo di faccia: la frangia, uno zigomo, alto. Hai lo stesso modo di chiudere le braccia al petto e di guardare avanti, senza alzare il mento, senza abbassare lo sguardo: dritto.
Non sei tu, sei un’illusione di te. Ma, per la prima volta dopo tre anni, ho un grande bisogno di abbracciarti. È un desiderio senza speranza che non mi sono concessa mai, prima di oggi. Ho pensato di parlarti, di rivederti persino. Ma di abbracciarti mai.
Vorrei alzarmi, raggiungere la donna che non sei tu, e dirle adagio: «Scusi, signora, posso appoggiarle... posso affondare la fronte nei suoi capelli?». Non mi alzo, perché è bellissimo pensare di poterlo fare, da un momento all’altro. No, non è vero: non mi alzo perché sta succedendo qualcosa. Non ero mai riuscita a sentire così forte la mancanza di te.
Vedo una mano, due file avanti a me. Ha le unghie laccate di grigio: no, non va bene, tu non l’avresti fatto mai. «Scusi signora, potrebbe rimettere le braccia conserte? Ecco, così. Perfetto.» Sei di nuovo tu.
Potrei alzarmi, avvicinarmi a quest’idea di te. Non lo faccio. Non troverei il tuo profumo ad abbracciarmi.
Sto ferma e penso al tuo profumo che non mi è piaciuto mai: ma eri tu, dentro a una nuvola necessaria per portarti in giro. L’ultima volta che l’ho sentito è stata l’anno scorso. Ero sola, in un angolo di un aeroporto non italiano. Accanto a me un cappotto di astrakan, comprato d’impulso, fuori luogo e fuori stagione. Strano acquisto, e ingombrante: impossibi...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Ti parlo da una vita
  3. Gemma che ha piegato il dolore in speranza
  4. Edda che vuole cullare il suo lutto da sola
  5. La donna senza nome e il suo dolore più muto degli altri
  6. Carla che riesce a vedere soltanto il suo buio
  7. Maria Letizia che non ha bisogno di segni
  8. Annamaria e l’albero di Natale
  9. Marta e il paradiso dove ci si può abbracciare
  10. Margherita nuda di ricordi
  11. Monica che si dice felice
  12. Copyright