Fatherland
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Fatherland

  1. 378 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro

Nel 1964 Berlino è la capitale di un impero che si estende dal Reno agli Urali. Il presidente degli Stati Uniti decide di recarsi in Germania per trattare con Hitler, ormai settantacinquenne e sempre al comando. Ma alla vigilia dell'incontro un gerarca nazista muore misteriosamente. Dalle indagini sul caso affidate a Xavier March, brillante investigatore berlinese, emerge il vivido ritratto di una società corrotta e scontenta, di un potere ancora forte, ma totalmente destinato alla disgregazione. Un thriller fantapolitico raggelante e grandioso. Un romanzo eccitante nato da un'ipotesi storica che fu sul punto di avverarsi e di cambiare il destino del mondo.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2013
Print ISBN
9788804374640
eBook ISBN
9788852032103

GIOVEDÌ 16 APRILE

Quando il nazionalsocialismo avrà dominato abbastanza a lungo, non sarà più possibile immaginare un modo di vivere diverso dal nostro.
ADOLF HITLER, 11 luglio 1941

1

La BMW grigia era diretta a sud lungo Saarland Strasse, fra gli alberghi addormentati e i negozi deserti del centro di Berlino. Quando arrivò alla scura mole del Museum für Völkerkunde svoltò a sinistra in Prinz-Albrecht Strasse, verso la sede centrale della Gestapo.
Come per tutto il resto, anche per le automobili c’era una gerarchia. L’Orpo doveva accontentarsi delle fragili Opel. La Kripo aveva le Volkswagen, versioni a quattro porte del KdF-wagen originale, il maggiolino per i lavoratori che era stato sfornato in milioni di esemplari nello stabilimento di Fallersleben. Ma quelli della Gestapo erano più raffinati: viaggiavano con le BMW 1800… scatoloni sinistri dai rombanti motori potenziati e le carrozzerie grigie.
March, sul sedile posteriore accanto a Max Jaeger, teneva gli occhi fissi sull’uomo che li aveva arrestati, il comandante dell’irruzione nell’appartamento di Stuckart. Quando li avevano condotti dalla cantina all’atrio aveva rivolto loro un impeccabile saluto nazista. «Sturmbannführer Karl Krebs, Gestapo!» Per March, questo non aveva significato nulla. Soltanto adesso, a bordo della BMW, lo riconosceva guardandone il profilo. Krebs era uno dei due ufficiali delle SS che avevano accompagnato Globus nella villa di Buhler.
Era sulla trentina e aveva una faccia spigolosa e intelligente. Senza l’uniforme avrebbe potuto essere qualunque cosa… un avvocato, un banchiere, un eugenista, un carnefice. Gli uomini della sua età erano tutti così. Uscivano dalla catena di montaggio del Pimpf, della Gioventù Hitleriana, del Servizio Nazionale e di Forza-nella-Gioia. Avevano ascoltato gli stessi discorsi, letto gli stessi slogan, consumato gli stessi pasti in aiuto del Soccorso Invernale. Erano i cavalli da tiro del regime, non avevano mai conosciuto nessuna autorità al di fuori del Partito, ed erano comuni e affidabili come le Volkswagen della Kripo.
La macchina si fermò, Krebs scese e aprì la portiera. «Da questa parte, signori. Prego.»
March scese e guardò la strada. Krebs era compito come un caposcout ma dieci metri più indietro le portiere di una seconda BMW si stavano aprendo prima ancora che la macchina si fosse fermata, e ne uscivano uomini armati in borghese. Era sempre stato così, da quando li avevano scoperti in Fritz-Todt Platz. Nessun gesto di violenza, niente imprecazioni e niente manette. Soltanto una telefonata al comando centrale, e poi l’invito a «discutere ulteriormente la questione». Krebs gli aveva chiesto di consegnare le armi. Cortese, ma di una cortesia che celava sempre la minaccia.
La sede centrale della Gestapo era in una grandiosa costruzione guglielmina a cinque piani esposta a nord e che non vedeva mai il sole. Molti anni prima, ai tempi della Repubblica di Weimar, l’edificio simile a un museo aveva ospitato la Scuola delle Arti. Quando la polizia lo aveva occupato, gli studenti erano stati costretti a bruciare nel cortile i loro quadri modernisti. Quella sera le finestre erano protette da tende spesse, una precauzione contro gli attacchi dei terroristi. Dietro le tende, i lampadari brillavano come avvolti nella nebbia.
March aveva adottato la tattica di non mettere piede là dentro, e c’era sempre riuscito fino a quella notte. Tre gradini di pietra conducevano all’atrio. Altri gradini, poi un ampio vestibolo a volta; una passatoia rossa sul pavimento di pietra, la risonanza cavernosa di una cattedrale. C’era un grande movimento. Le prime ore del mattino erano sempre molto attive per la Gestapo. Dall’interno della costruzione giungeva un’eco smorzata di campanelli, passi, un fischio, un grido. Un uomo grasso con l’uniforme dell’Obersturmführer si pulì il naso e li guardò con indifferenza.
Proseguirono in un corridoio fiancheggiato da svastiche e dai busti marmorei dei dirigenti del Partito – Göring, Goebbels, Bormann, Frank, Ley e gli altri – raffigurati come senatori dell’antica Roma. March sentiva i passi delle guardie in borghese che li seguivano. Lanciò un’occhiata a Jaeger, ma Max teneva lo sguardo fisso davanti a sé e stringeva i denti.
Altre scale, un altro corridoio. La passatoia aveva lasciato il posto al linoleum. Le pareti erano sporche. March intuì che dovevano essere vicini alla parte posteriore dell’edificio, al secondo piano.
«Se volete attendere qui» disse Krebs. Aprì una robusta porta di legno. Una luce al neon si accese crepitando. Lui si tirò da parte per lasciarli passare. «Caffè?»
«Grazie.»
Krebs se ne andò. Mentre la porta si chiudeva, March vide una delle guardie piazzarsi a braccia conserte nel corridoio. Quasi si aspettava di sentir girare una chiave nella serratura: ma non vi fu il minimo rumore.
Erano in una specie di camera per gli interrogatori. Un rozzo tavolo di legno al centro, una sedia per lato, alcune altre accostate al muro. C’era una finestrella, e di fronte una riproduzione del ritratto di Reinhard Heydrich dipinto da Josef Vietze in una modesta cornice di plastica. Sul pavimento c’erano macchioline scure che sembravano di sangue secco.
Prinz-Albrecht Strasse era il cuore nero della Germania, famoso come il Viale della Vittoria e il Palazzo del Reich, ma senza i pullman dei turisti. Al numero otto, la Gestapo. Al numero nove, il quartier generale personale di Heydrich. Girato l’angolo c’era il palazzo Prinz-Albrecht, quartier generale dell’SD, il servizio di spionaggio del Partito. Un complesso di passaggi sotterranei collegava le tre costruzioni.
Jaeger mormorò qualcosa e si lasciò cadere su una sedia. March non sapeva cosa dire, e perciò guardava dalla finestra, affacciata sui giardini del palazzo dietro la sede della Gestapo… le masse scure dei cespugli, il prato color inchiostro, i rami scheletriti dei tigli protesi ad artigliare il cielo. Lontano, sulla destra, illuminato attraverso gli alberi spogli, c’era il cubo di vetro e cemento dell’Europa-Haus, opera dell’architetto ebreo Mendelsohn. Il Partito aveva permesso che restasse, come monumento alla sua “immaginazione da pigmeo”, abbandonato come un giocattolo fra i monoliti di granito ideati da Speer. March ricordava una domenica pomeriggio, quando era andato con Pili a prendere il tè nel ristorante sul tetto. Bibita allo zenzero e torta con panna, l’orchestrina che suonava ovviamente brani della Vedova allegra, le signore anziane con i cappellini tutti fronzoli, le dita sottili strette sulle tazze di porcellana.
Quasi tutte evitavano di guardare le costruzioni nere al di là degli alberi. Per altre, la vicinanza di Prinz-Albrecht Strasse sembrava offrire un brivido di eccitazione, come un picnic nei pressi di un carcere. Nei sotterranei, la Gestapo era autorizzata a procedere a quelli che il ministero della Giustizia chiamava “interrogatori stringenti”. Le regole erano state stilate da uomini perbene in uffici riscaldati, alla presenza di un medico. Poche settimane prima se ne era parlato in Werderscher Markt. Qualcuno aveva saputo dell’ultimo trucco dei torturatori: inserivano un sottile catetere di vetro nel pene dell’individuo sospetto, e lo spezzavano.
Suona il violino,
Senti che dice?
“Io ti amo…”
March scosse la testa, si pizzicò l’attaccatura del naso e cercò di schiarirsi la mente.
Rifletti.
Aveva lasciato una scia di indizi, ognuno dei quali sarebbe stato sufficiente per condurre la Gestapo all’appartamento di Stuckart. Aveva chiesto il dossier di Stuckart. Aveva discusso il caso con Fiebes. Aveva telefonato a casa di Luther. Era andato in cerca di Charlotte Maguire.
Era preoccupato per l’americana. Anche se era riuscita ad allontanarsi da Fritz-Todt Platz, la Gestapo avrebbe potuto fermarla l’indomani. “Qualche domanda di routine, Fräulein… Cosa c’è in questa busta, prego…? Come l’ha avuta…? Descriva l’uomo che ha aperto la cassaforte…” Lei era un tipo duro e aveva la sicurezza di un’attrice, ma nelle mani della Gestapo non avrebbe resistito cinque minuti.
March appoggiò la fronte al vetro freddo. La finestra era chiusa, e sotto c’era un salto di quindici metri.
Dietro di lui la porta si aprì. Un uomo dalla faccia olivastra, puzzolente di sudore e in maniche di camicia, entrò e mise sul tavolo due tazze di caffè.
Jaeger, che stava seduto con le braccia incrociate e si guardava gli stivali, chiese: «Dobbiamo stare qui ancora per molto?».
L’uomo alzò le spalle (un’ora, una notte, una settimana?) e uscì. Jaeger assaggiò il caffè e fece una smorfia. «Piscio di porco.» Accese un sigaro, rigirò il fumo in bocca e lo buttò fuori.
Poi lui e March si guardarono. Dopo un po’, Max disse: «Sai, potevi andartene».
«E lasciarti solo? Non era giusto.» March bevve un sorso di caffè. Era tiepido. La lampada al neon palpitava e frigolava e gli faceva martellare la testa. Era il loro modo di agire. Ti lasciavano fino alle due o alle tre del mattino, fino a quando ti sentivi più debole e vulnerabile. Anche lui conosceva bene quella parte del gioco.
Trangugiò il caffè schifoso e accese una sigaretta. Qualunque cosa pur di stare sveglio. Il rimorso per la donna, il rimorso per l’amico.
«Sono uno stupido. Non avrei dovuto coinvolgerti. Scusami.»
«Non ci pensare.» Jaeger disperse il fumo con la mano. Si sporse in avanti e parlò a voce bassa. «Devi lasciare che mi addossi la mia parte di responsabilità, Zavi. Il buon camerata Jaeger. Camicia bruna. Camicia nera. Camicie di tutti i colori. Vent’anni dedicati alla sacra causa di tenermi pulito il didietro.» Strinse il ginocchio di March. «Molti mi devono favori. Posso approfittarne.»
Aveva la testa bassa e bisbigliava. «Ti hanno segnato, amico mio. Un solitario. Divorziato. Ti spelleranno vivo. Io, invece? Jaeger, il grande conformista. Sposato con una donna decorata della Croce della maternità germanica, classe di bronzo. Forse non sono molto abile nel mio lavoro…»
«Questo non è vero.»
«… ma sono un tipo fidato. Supponiamo che ieri mattina non ti abbia detto che la Gestapo aveva preso in mano il caso Buhler. Poi, quando sei tornato, ho proposto io di controllare il caso Stuckart. Loro guardano il mio fascicolo personale, e può darsi che la bevano, dato che si tratta di me.»
«Sei molto generoso.»
«Cristo… lascia perdere.»
«Ma sarà inutile.»
«Perché?»
«Perché questo va oltre i lavori e i precedenti irreprensibili, non capisci? E Buhler e Stuckart? Erano nel Partito prima che noi nascessimo. E nessuno gli ha ricambiato i favori quando ne hanno avuto bisogno.»
«Credi davvero che sia stata la Gestapo a ucciderli?» Jaeger sembrava spaventato.
March si portò le dita alle labbra e indicò il ritratto. «Non dirmi niente che non diresti a Heydrich» mormorò.
La notte si trascinò nel silenzio. Verso le tre, Jaeger accostò alcune sedie, si sdraiò alla meno peggio e chiuse gli occhi. Pochi minuti più tardi russava. March tornò accanto alla finestra.
Sentiva gli occhi di Heydrich che gli trapassavano la schiena. Si sforzò di non farci caso, non riuscì e si voltò a guardare il ritratto. Un’uniforme nera, un viso bianco e scarno, capelli argentei… non era un volto umano ma il negativo fotografico di un teschio, una radiografia. L’unica nota di colore era al...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Fatherland
  4. MARTEDÌ 14 APRILE 1964
  5. MERCOLEDÌ 15 APRILE
  6. GIOVEDÌ 16 APRILE
  7. VENERDÌ 17 APRILE
  8. SABATO 18 APRILE
  9. DOMENICA 19 APRILE
  10. FÜHRERTAG
  11. Nota dell’autore
  12. Copyright