
- 294 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Collezione di sabbia
Informazioni su questo libro
Libri, oggetti antichi, luoghi lontani... Cose osservate e immaginate, pensieri e riflessioni, viaggi e contatti con altre civiltà, spiragli d'altre dimensioni della mente in un'affascinante raccolta di articoli di Calvino.
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Informazioni
Print ISBN
9788804382577eBook ISBN
9788852035128I
ESPOSIZIONI · ESPLORAZIONI
Collezione di sabbia
C’è una persona che fa collezione di sabbia. Viaggia per il mondo, e quando arriva a una spiaggia marina, alle rive d’un fiume o d’un lago, a un deserto, a una landa, raccoglie una manciata d’arena e se la porta con sé. Al ritorno, l’attendono allineati in lunghi scaffali centinaia di flaconi di vetro entro i quali la fine sabbia grigia del Balaton, quella bianchissima del Golfo del Siam, quella rossa che il corso del Gambia deposita giù per il Senegal, dispiegano la loro non vasta gamma di colori sfumati, rivelano un’uniformità da superficie lunare, pur attraverso le differenze di granulosità e consistenza, dal ghiaìno bianco e nero del Caspio che sembra ancora inzuppato d’acqua salata, ai minutissimi sassolini di Maratea, bianchi e neri anch’essi, alla sottile farina bianca punteggiata di chiocciole viola di Turtle Bay, vicino a Malindi nel Kenia.
In un’esposizione di collezioni strane che c’è stata di recente a Parigi – collezioni di campani da mucche, di giochi di tombola, di capsule di bottiglie, di fischietti di terracotta, di biglietti ferroviari, di trottole, d’involucri di rotoli di carta igienica, di distintivi collaborazionisti dell’occupazione, di rane imbalsamate –, la vetrina della collezione di sabbia era la meno appariscente ma pure la più misteriosa, quella che sembrava aver più cose da dire, pur attraverso l’opaco silenzio imprigionato nel vetro delle ampolle.
Passando in rivista questo florilegio di sabbie, l’occhio dapprima coglie soltanto i campioni che fanno più spicco, il color ruggine d’un letto secco di fiume del Marocco, il bianco e nero carbonifero delle isole Aran, o una mescolanza cangiante di rosso bianco nero grigio che sull’etichetta porta un nome ancor più policromo: Isola dei Pappagalli, Messico. Poi le differenze minime tra sabbia e sabbia obbligano a un’attenzione sempre più assorta, e così a poco a poco s’entra in un’altra dimensione, in un mondo che non ha altri orizzonti che queste dune in miniatura, dove una spiaggia di sassolini rosa non è mai uguale a un’altra spiaggia di sassolini rosa (mescolati coi bianchi in Sardegna e nelle isole Grenadine dei Caraibi; mescolati coi grigi a Solenzara in Corsica), e una distesa di minuscola ghiaia nera a Port Antonio in Giamaica non è uguale a una dell’isola Lanzarote nelle Canarie, né a un’altra che viene dall’Algeria, forse in mezzo al deserto.
Si ha l’impressione che questo campionario della Waste Land universale stia per rivelarci qualcosa d’importante: una descrizione del mondo? un diario segreto del collezionista? o un responso su di me che sto scrutando in queste clessidre immobili l’ora a cui sono giunto? Tutto questo insieme, forse. Del mondo, la raccolta di sabbie scelte registra un residuo di lunghe erosioni che è insieme la sostanza ultima e la negazione della sua lussureggiante e multiforme parvenza: tutti gli scenari della vita del collezionista appaiono più viventi che in una serie di diapositive a colori (una vita – si direbbe – d’eterno turismo –, come d’altronde appare la vita nelle diapositive, e tale la ricostruirebbero i posteri se solo esse restassero a documentare il nostro tempo –, un crogiolarsi su spiagge esotiche alternato ad esplorazioni più impervie, in un’inquietudine geografica che tradisce un’incertezza, un affanno), evocati e nello stesso tempo cancellati dal gesto ormai compulsivo di chinarsi a raccogliere un po’ d’arena e riempirne un sacchetto (o un contenitore di plastica? o una bottiglia di cocacola?) e poi voltarsi e andar via.
Ecco che come ogni collezione anche questa è un diario: diario di viaggi, certo, ma pure diario di sentimenti, di stati d’animo, di umori; anche se non possiamo essere sicuri che davvero esista una corrispondenza tra la fredda sabbia color terra di Leningrado, o la finissima sabbia color sabbia di Copacabana, e i sentimenti che esse evocano a vederle qui imbottigliate ed etichettate. O forse diario soltanto di quell’oscura smania che spinge tanto a mettere insieme una collezione quanto a tenere un diario, cioè il bisogno di trasformare lo scorrere della propria esistenza in una serie d’oggetti salvati dalla dispersione, o in una serie di righe scritte, cristallizzate fuori dal flusso continuo dei pensieri.
Il fascino d’una collezione sta in quel tanto che rivela e in quel tanto che nasconde della spinta segreta che ha portato a crearla. Tra le collezioni strane dell’esposizione, una delle più impressionanti era certo quella delle maschere antigas: una vetrina da cui guardavano facce verdi o grigiastre di tela o di gomma dai ciechi occhi tondi e sporgenti, dal naso-grugno a barattolo o a tubo snodato. Quale spirito avrà guidato il collezionista? Un sentimento – credo – insieme ironico e spaventato verso un’umanità che era ben stata pronta a uniformarsi a quelle sembianze tra animalesche e meccaniche; o forse anche una fiducia nelle risorse dell’antropomorfismo che inventa nuove forme a immagine e somiglianza del volto umano per adattarsi a respirare fosgene o iprite, non senza una punta di caricaturale gaiezza. E certo anche una vendetta contro la guerra, a fissarne in quelle maschere l’aspetto rapidamente obsoleto e che quindi appare ora più ridicolo che terribile; ma anche il senso che in quella crudeltà attonita e stolta si riconosca ancora la nostra vera immagine.
Certo, se la raccolta di maschere antigas poteva pur trasmettere un umore in qualche modo ilare e corroborante, poco più in là un effetto agghiacciante e angoscioso era prodotto da un collezionista di Mickey Mouse. Un tale ha raccolto, certo lungo tutta la sua vita, bambolotti, giocattoli, scatole di prodotti, berretti, maschere, magliette, mobilio, bavaglini, che riproducono le stereotipe fattezze del Topolino disneyano. Dalla vetrina gremita centinaia di nere orecchie tonde, di bianchi musi col pallino nero del naso, di guantoni bianchi e nere braccia filiformi concentrano la loro euforia zuccherina in una visione da incubo, rivelano una fissazione infantile su quell’unica immagine rassicurante in mezzo a un mondo spaventevole, cosicché la sensazione di terrore finisce per tingere di sé quell’unico talismano nelle sue innumerevoli apparizioni in serie.
Ma dove l’ossessione collezionistica si ripiega su se stessa rivelando il proprio fondo d’egotismo, è in una bacheca piena di disadorne copertine di cartone legate da nastri, su ognuna delle quali una mano femminile ha scritto titoli come: Gli uomini che mi piacciono; Gli uomini che non mi piacciono; Le donne che ammiro; Le mie gelosie; Le mie spese quotidiane; La mia moda; I miei disegni infantili; I miei castelli; e perfino: Le carte che involgevano gli aranci che ho mangiato.
Che cosa contengano quei dossiers non è un mistero, perché non si tratta d’una espositrice occasionale ma d’una artista di professione (Annette Messager, collezionista: così si firma), che ha fatto delle sue serie di ritagli di giornali, foglietti d’appunti e schizzi varie mostre personali a Parigi e a Milano. Ma quel che ci interessa ora è proprio questa distesa di copertine chiuse ed etichettate, e il procedimento mentale che implicano. L’autrice stessa l’ha definito chiaramente: «Cerco di possedere e d’appropriarmi della vita e degli avvenimenti di cui vengo a conoscenza. Per tutta la giornata io sfoglio, raccolgo, metto in ordine, classifico, setaccio, e riduco il tutto nella forma di tanti album da collezione. Queste collezioni diventano allora la mia stessa vita illustrata».
Le proprie giornate, minuto per minuto, pensiero per pensiero, ridotte a collezione: la vita triturata in un pulviscolo di granelli: la sabbia, ancora.
Ritorno sui miei passi, verso la vetrina della collezione di sabbia. Il vero diario segreto da decifrare è qui, tra questi prelievi di spiagge e di deserti sottovetro. Anche qui il collezionista è una donna (leggo nel catalogo dell’esposizione). Ma per ora non m’interessa darle un volto, una figura; la vedo come una persona astratta, un io che potrei anche essere io, un meccanismo mentale che cerco d’immaginarmi al lavoro.
Ecco che è di ritorno da un viaggio, aggiunge nuovi flaconi agli altri in fila, e a un tratto s’accorge che senza l’indaco del mare il brillìo di quella spiaggia di conchiglie frantumate s’è perso, che del calore umido dell’uadi nulla è rimasto nella rena rappresa, che, lontana dal Messico, la sabbia mista a lava del vulcano Paricutin è una polvere nera che pare spazzata giù dalla gola d’un camino. Cerca di riportare alla memoria le sensazioni di quella spiaggia, quell’odore di foresta, quell’arsura, ma è come scuotere quel po’ di sabbia in fondo alla caraffa etichettata.
A questo punto non resterebbe che arrendersi, staccarsi dalla vetrina, da questo cimitero di paesaggi ridotti a deserto, di deserti su cui non soffia più il vento. Eppure, chi ha avuto la costanza di portare avanti per anni questa raccolta sapeva quel che faceva, sapeva dove voleva arrivare: forse proprio ad allontanare da sé il frastuono delle sensazioni deformanti e aggressive, il vento confuso del vissuto, ed avere finalmente per sé la sostanza sabbiosa di tutte le cose, toccare la struttura silicea dell’esistenza. Per questo non distoglie gli occhi da quelle sabbie, entra con lo sguardo in una delle fiale, ci scava la sua tana, s’immedesima, estrae le miriadi di notizie stipate in un mucchietto d’arena. Ogni grigio una volta scomposto in granelli chiari e scuri, luccicanti e opachi, sferici, poliedrici, piatti, non si vede più come grigio o comincia solo allora a farti comprendere il significato del grigio.
Così decifrando il diario della melanconica (o felice?) collezionista di sabbia, sono arrivato a interrogarmi su cosa c’è scritto in quella sabbia di parole scritte che ho messo in fila nella mia vita, quella sabbia che adesso mi appare tanto lontana dalle spiagge e dai deserti del vivere. Forse fissando la sabbia come sabbia, le parole come parole, potremo avvicinarci a capire come e in che misura il mondo triturato ed eroso possa ancora trovarvi fondamento e modello.
[1974]
Com’era nuovo il Nuovo Mondo
Scoprire il Nuovo Mondo era un’impresa ben difficile, come tutti abbiamo imparato. Ma ancora più difficile, una volta scoperto il Nuovo Mondo, era vederlo, capire che era nuovo, tutto nuovo, diverso da tutto ciò che ci s’era sempre aspettati di trovare come nuovo. E la domanda che viene naturale di farsi è: se un Nuovo Mondo venisse scoperto ora, lo sapremmo vedere? Sapremmo scartare dalla nostra mente tutte le immagini che siamo abituati ad associare all’aspettativa d’un mondo diverso (quelle della fantascienza, per esempio) per cogliere la diversità vera che si presenterebbe ai nostri occhi?
Subito possiamo rispondere che qualcosa è cambiato, dai tempi di Colombo: negli ultimi secoli gli uomini hanno sviluppato una capacità d’osservazione obiettiva, uno scrupolo di precisione nello stabilire analogie e differenze, una curiosità per tutto ciò che è insolito e imprevisto, qualità tutte che i nostri predecessori dell’antichità e del Medioevo sembra non possedessero. È proprio dalla scoperta dell’America, possiamo dire, che il rapporto col nuovo cambia nella coscienza umana. E proprio per questo si suol dire che l’era moderna comincia allora.
Ma sarà davvero così? Come i primi esploratori dell’America non sapevano in che punto si sarebbe manifestata una smentita alle loro aspettative o una conferma di somiglianze risapute, così anche noi potremmo passare accanto a fenomeni mai visti senza rendercene conto, perché i nostri occhi e le nostre menti sono abituati a scegliere e a catalogare solo ciò che entra nelle classificazioni collaudate. Forse un Nuovo Mondo ci si apre tutti i giorni, e noi non lo vediamo.
Queste riflessioni mi venivano alla mente visitando l’esposizione L’America vista dall’Europa che riunisce più di 350 quadri, stampe, oggetti al Grand Palais di Parigi, tutti riguardanti l’immagine che gli Europei si facevano del Nuovo Mondo, dalle prime notizie dopo il viaggio delle Caravelle alla acquisizione graduale delle esplorazioni e descrizioni del Continente.
Queste sono le rive della Spagna dalle quali Re Ferdinando di Castiglia dà ordine alle Caravelle di salpare. E questo braccio di mare è l’Oceano Atlantico che Cristoforo Colombo attraversa raggiungendo le favolose isole delle Indie. Colombo si sporge dalla prua della sua nave e cosa vede? Un corteo d’uomini e donne nudi che escono dalle loro capanne. Era passato appena un anno dal primo viaggio di Colombo, e così un incisore fiorentino rappresenta la scoperta di quella che ancora non si sapeva sarebbe stata l’America. Nessuno sospettava ancora che si fosse aperta una nuova era nella storia del mondo, ma l’emozione suscitata dall’avvenimento s’era diffusa in tutta Europa. La relazione di Colombo ispira immediatamente un poema in ottave del fiorentino Giuliano Dati, nello stile d’un cantare cavalleresco, e questa incisione è appunto un’illustrazione del libro.
La caratteristica degli abitanti delle nuove terre che più colpisce Colombo e tutti i primi viaggiatori è la nudità, ed è questo il primo dato che mette in moto la fantasia degli illustratori. Gli uomini sono rappresentati ancora con la barba; la notizia che gli Indios avessero facce glabre non sembra essersi ancora divulgata. Col secondo viaggio di Colombo e soprattutto con le più dettagliate e colorite relazioni di Amerigo Vespucci, alla nudità s’aggiunge un’altra caratteristica che riempie l’Europa d’emozione: il cannibalismo.
Vedendo un gruppo di donne indiane sulla riva, – racconta Vespucci, – i Portoghesi fecero sbarcare un loro marinaio famoso per la sua bellezza, a parlamentare con le indiane. Le donne lo circondarono prodigandogli carezze ed espressioni d’ammirazione, ma intanto una di loro si nascose alle sue spalle e gli vibrò una mazzata in testa, stordendolo. Il malcapitato fu trascinato via, tagliato a pezzi, arrostito e mangiato.
La prima domanda che l’Europa si pone sugli abitanti delle nuove terre è: appartengono davvero al genere umano? La tradizione classica e medievale raccontava di remote contrade popolate di mostri. Ma queste leggende vengono presto sfatate: gli Indiani non solo sono esseri umani ma esemplari d’una bellezza classica. Nasce il mito d’una vita felice, che non conosce la proprietà né la fatica, come nell’età dell’oro o nel Paradiso terrestre.
Dalle rozze incisioni in legno, la raffigurazione degli Indios passa alla pittura. Il primo americano che vediamo rappresentato nella storia della pittura europea è uno dei Re Magi, in un quadro portoghese databile verso il 1505, cioè appena una dozzina d’anni dopo il primo viaggio di Colombo, e ancor meno dall’approdo dei Portoghesi in Brasile. Ancora si crede che le nuove terre facciano parte dell’Estremo Oriente asiatico. La tradizione vuole che nei quadri della natività di Cristo i Re Magi siano rappresentati in abiti e acconciature orientali. Ora che le relazioni dei viaggiatori forniscono una testimonianza diretta di come sono questi leggendari abitanti delle Indie, i pittori s’aggiornano. Il Re Mago indiano porta in testa una corona di penne a raggiera, come in certe tribù brasiliane, e tiene in mano una freccia Tupinamba. Trattandosi d’un quadro di chiesa il personaggio non può presentarsi nudo: gli vengono prestati un farsetto e un paio di calzoni occidentali.
Nel 1537 Papa Paolo III dichiara: «Gli Indiani sono veramente degli uomini… non solo capaci di comprendere la fede cattolica, ma estremamente desiderosi di riceverla».
Acconciature di penne, armi, frutti, animali del Nuovo Mondo cominciano ad arrivare in Europa. Siamo nel 1517 e un incisore tedesco, disegnando un corteo di abitanti di Calcutta, mescola elementi asiatici, come l’elefante e il suo cornac, i buoi inghirlandati, gli arieti dalla grossa coda, con particolari che provengono dalle nuove scoperte: le penne sul capo (e addirittura dei vestiti di penne del tutto immaginari), un pappagallo ara del Brasile, e anche due pannocchie di mais, il cereale destinato ad avere tanta importanza nell’agricoltura e nell’alimentazione dell’Italia settentrionale, e la cui origine americana verrà presto dimenticata, tanto che sarà chiamato granturco.
È attraverso l’opera dei grandi cartografi del Cinquecento che noi vediamo non soltanto i nuovi territori prendere una forma, ma anche la fauna, la flora e i costumi delle popolazioni darci le prime immagini veritiere. Lavorando a stretto contatto con gli esploratori, i cartografi disponevano d’informazioni di prima mano. I contorni delle coste atlantiche sono già in larga parte noti mentre ancora le nuove terre vengono considerate come un’appendice dell’Asia. Così in un mappamondo d’argento del 1530, in cui il golfo del Messico è denominato «Mare del Catai» e l’America del Sud «Terra Cannibale».
È in una carta tedesca che per la prima volta compare il nome America, ossia Terra d’Amerigo, perché era stato soprattutto attraverso le relazioni di viaggio di Vespucci che l’Europa aveva preso coscienza dell’importanza geografica delle scoperte. Solo dopo le lettere del mercante fiorentino l’Europa si rende conto che quello che le si sta aprendo è davvero un Nuovo Mondo, d’enorme estensione e con caratteristiche sue proprie.
Ed ecco che nelle carte l’America si stacca dall’Asia. Dell’America del Nord (qui detta «Terra di Cuba») non si conosce che una sottile fetta costiera e si crede che sia a poca distanza dal Giappone (detto Zipangri). Il nome America spetta solo all’America del Sud, detta anche «Terranova» e abitata dai soliti cannibali. Il continente ha acquistato un contorno autonomo, ma è ancora visto – anche nella sua forma – soprattutto come un ostacolo, una barriera che separa dalla Cina e dall’India.
Nei planisferi di Mercator, inventore d’un nuovo metodo di proiezione cartografica, il nome America s’estende anche all’emisfero settentrionale, e fiancheggia quello di Terra dei Baccalà, attribuito al Labrador.
L’idea che ci si fa dell’Indiano rimane a lungo divisa tra due miti contrastanti: quello della felicità naturale d’una vita innocente come nell’Eden, e quello della ferocia spietata: gli scotennamenti, le torture. Ma comincia anche lo sdegno per la crudeltà degli Spagnoli, gli eccidi e i saccheggi dei Conquistadores.
È solo verso la fine del Cinquecento che possiamo veramente vedere in faccia gli Indiani. E questo ancora grazie a un cartografo e disegnatore, l’inglese John White, che nel 1585 seguì la spedizione di sir ...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Presentazione
- Cronologia
- Bibliografia essenziale
- COLLEZIONE DI SABBIA
- I. ESPOSIZIONI · ESPLORAZIONI
- II. IL RAGGIO DELLO SGUARDO
- III. RESOCONTI DEL FANTASTICO
- IV. LA FORMA DEL TEMPO
- Nota
- Postfazione. di Pier Vincenzo Mengaldo
- Copyright