La lunga oscura pausa caffè dell'anima
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La lunga oscura pausa caffè dell'anima

  1. 280 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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La lunga oscura pausa caffè dell'anima

Informazioni su questo libro

Dirk Gently, "detective olistico", si trova invischiato in un pericoloso intrigo internazionale. Tutto inizia all'aeroporto londinese di Heathrow con un misterioso personaggio che tenta di imbarcarsi sul volo delle 15.37 per Oslo. Chi è? E cos'ha a che fare con la strana morte dell'ultimo, bizzarro cliente di Gently, trovato cadavere proprio quella mattina, la testa spiccata dal corpo? Stretto tra le attenzioni poco amichevoli di un'aquila smarrita e il problema di un frigorifero molto, molto sporco, Dirk Gently riuscirà ancora una volta a venire a capo di uno dei grandi misteri dell'Universo. Con La lunga oscura pausa caffè dell'anima l'effervescente fantasia di Adams trascina il lettore in un fantasmagorico viaggio tra le antiche divinità nordiche, svelando i difficili legami familiari tra Odino e Thor, il patto diabolico stretto con due ricchi signori inglesi, e quanto sia difficile essere immortale e non avere più nessuno che ti adori...

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2012
Print ISBN
9788804611813
eBook ISBN
9788852031250

DOUGLAS ADAMS

LA LUNGA OSCURA
PAUSA CAFFÈ
DELL’ANIMA

Traduzione di Marco e Dida Paggi

Mondadori

La lunga oscura pausa caffè dell’anima

A Jane

1

Non può essere un caso che in nessuna lingua terrestre esista l’espressione “Bello come un aeroporto”.
Gli aeroporti sono brutti. Alcuni sono molto brutti. Certi raggiungono un livello di bruttezza che può solo essere il risultato di uno sforzo consapevole. La bruttezza degli aeroporti dipende dal fatto che sono pieni di gente stanca e di pessimo umore che ha appena scoperto che i propri bagagli sono sbarcati a Murmansk (l’aeroporto di Murmansk è l’unico che fa eccezione a questa regola altrimenti infallibile), e gli architetti per lo più si sono sforzati di riflettere questo stato d’animo nelle loro creazioni.
Hanno cercato di dare rilievo al filo conduttore della stanchezza e del pessimo umore della gente ricorrendo a forme brutali e a colori snervanti; di agevolare al massimo la separazione perpetua del passeggero dai suoi bagagli o dai suoi cari; di confondere il viaggiatore con frecce che indicano finestre, lontani espositori carichi di cravatte, o la posizione dell’Orsa Minore nel cielo; di lasciare in vista il più possibile tubi e condutture sulla base del fatto che sono utili, e di nascondere la sala partenze, presumibilmente in base alla considerazione che non lo è.
Colta in mezzo a un mare di luce indefinita e a un mare di rumori ugualmente indefiniti, Kate Schechter si fermò e fu presa dal dubbio.
Il dubbio l’aveva tormentata durante tutto il tragitto da Londra a Heathrow. Non era un tipo superstizioso, e nemmeno religioso: era solo una persona non troppo sicura di voler andare in Norvegia. Però si scopriva sempre più portata a credere che Dio, se c’era un Dio e ammesso che fosse remotamente possibile che un’eventuale divinità capace di disporre le particelle nel momento della creazione dell’universo provasse interesse a dirigere il traffico lungo la M4, questo Dio non volesse nemmeno lui che lei prendesse l’aereo per la Norvegia. Tutto il casino con i biglietti, e trovare un vicino che si occupasse della gatta, e poi trovare la gatta perché il vicino se ne potesse occupare, il tetto che a un tratto si era messo a perdere, il portafogli che non si trovava più, il brutto tempo, la morte improvvisa della vicina, la gatta che era incinta – tutto pareva proprio far parte di un’apposita strategia ostruzionistica che aveva cominciato ad assumere proporzioni divine.
Persino il tassista – quando alla fine era riuscita a trovare un tassì – aveva detto: «In Norvegia? Ma cosa ci va a fare in Norvegia?». E quando lei non aveva prontamente risposto «L’aurora boreale!» o «I fiordi!» ma aveva fatto una faccia perplessa e si era morsa le labbra, il tassista aveva aggiunto: «Ho capito, è per via di un uomo. Le do un consiglio, gli dica di andare a quel paese e se ne vada a Tenerife».
Be’, era un’idea.
Tenerife.
Oppure, osò pensare per un istante, a casa.
Aveva guardato fuori dal finestrino il viluppo rabbioso del traffico, e aveva pensato che per quanto il tempo lì fosse orribile, non era nulla rispetto a quello che avrebbe trovato in Norvegia.
O, anche, rispetto a quello di casa. New York in quella stagione era stretta tra i ghiacci come la Norvegia. Stretta tra i ghiacci, con qua e là geyser che sprizzavano vapore nell’aria gelida, e infine si perdevano tra le rupi ghiacciate dei palazzoni della Sesta Avenue.
Sarebbe bastato un rapido sguardo al percorso che Kate aveva fatto durante i suoi trent’anni di vita per rivelare la sua indubbia origine newyorkese. Infatti, malgrado avesse abitato a New York per pochissimo tempo, aveva trascorso gran parte della sua vita tenendosene accuratamente lontana. Los Angeles, San Francisco, l’Europa, e poi un periodo di confusi vagabondaggi per il Sudamerica cinque anni prima, subito dopo il breve matrimonio con Luke, morto in un incidente mentre cercava di fermare un tassì a New York.
Le piaceva pensare a New York come alla sua città, e credere di sentirne la mancanza, ma in realtà l’unica cosa di cui sentisse la mancanza era la pizza. E non di una pizza qualsiasi, ma di quella che tu telefoni, la ordini e te la portano a domicilio. Quella era la vera pizza. La pizza per cui bisognava uscire e sedersi a un tavolo e fissare il tovagliolo di carta rossa non era la vera pizza, malgrado tutte le acciughe e la salsiccia in più che ci mettevano sopra.
Londra era la città dove preferiva abitare – a parte naturalmente il problema della pizza, che la faceva impazzire. Perché non c’era un servizio di pizza a domicilio? Perché nessuno si rendeva conto che è una caratteristica intrinseca della pizza quella di arrivare alla porta di casa tua dentro una scatola calda di cartone? E poi tirarla fuori dalla carta oleata, piegare le fette in due e mangiarla davanti alla TV? Che difetto di fabbricazione avevano quegli stupidi, presuntuosi e indolenti degli inglesi, per non riuscire a capire un principio così fondamentale? Chissà per quale motivo era questa l’unica frustrazione con cui non riusciva assolutamente a convivere, per cui più o meno una volta al mese telefonava a una pizzeria, ordinava la pizza più grande e sontuosa che riusciva ad immaginare – in pratica, una pizza con un’altra pizza sopra – e poi, dolcemente, chiedeva che gliela recapitassero a domicilio.
«Che cosa?»
«La consegna. Le do il mio indirizzo...»
«Non capisco. Viene lei a prenderla?»
«No. Non fate consegna a domicilio? Il mio indirizzo è...»
«Ehm... questo non lo facciamo, signorina.»
«Non fate cosa?»
«Ehm... non recapitiamo a domicilio...»
«Non recapitate a domicilio? Ho capito bene?»
La conversazione degenerò rapidamente in una spiacevole gara di parolacce che la lasciò esausta e tremante; la mattina dopo, però, si sentiva molto, molto meglio. Sotto tutti gli altri punti di vista, Kate era una delle persone più dolci che si possa sperare di incontrare.
Ma ora la giornata la stava davvero mettendo alla prova.
Sull’autostrada c’era un ingorgo spaventoso, e quando un lontano lampeggiare di luci blu aveva chiarito che la causa era un incidente avvenuto da qualche parte più avanti, Kate si era fatta ancora più tesa e aveva continuato a guardare fuori dall’altro finestrino fin quando non avevano superato a passo d’uomo il luogo dell’incidente.
Il tassista si era arrabbiato quando alla fine l’aveva lasciata all’aeroporto, perché lei non aveva i soldi precisi, e ne era seguito un gran frugarsi controvoglia nelle tasche dei pantaloni stretti prima che le desse il resto. Ora, in un’atmosfera opprimente e minacciosa, Kate se ne stava impalata nel bel mezzo della hall del Terminal numero due dell’aeroporto di Heathrow, e non riusciva a trovare il banco del check-in per il volo diretto a Oslo.
Per un istante rimase ferma immobile, facendo grossi e lenti respiri e cercando di non pensare a Jean-Philippe.
Jean-Philippe era, come il tassista aveva correttamente dedotto, il motivo per cui Kate stava andando in Norvegia, ma allo stesso tempo era anche il motivo per cui era convinta che la Norvegia non fosse affatto un buon posto in cui andare. Pensare a lui la faceva continuamente tentennare, così le sembrava che la cosa migliore fosse smettere di pensarci e andarsene semplicemente in Norvegia come se stesse passando per caso da quelle parti. A questo punto sarebbe stata incredibilmente sorpresa di incontrarlo in quell’albergo il cui nome e indirizzo erano riportati sulla cartolina che teneva nella tasca della borsetta.
In effetti sarebbe stata molto sorpresa di trovarlo davvero in quell’albergo. Con ogni probabilità avrebbe trovato non lui, ma un suo messaggio in cui le diceva che la sua presenza era purtroppo urgentemente richiesta in Guatemala, o a Seul o a Tenerife, e che le avrebbe telefonato da laggiù. Jean-Philippe era la persona più continuativamente assente che avesse mai conosciuto. Ed era solo il culmine di una serie. Da quando aveva perso Luke sotto quella grossa Chevrolet gialla, Kate si era scoperta stranamente dipendente dalle emozioni, in verità piuttosto vacue, che le provocava il succedersi di uomini egocentrici e presi di sé.
Cercò di chiudere questi pensieri fuori dalla sua mente, e anche di chiudere gli occhi per un secondo. Avrebbe voluto, riaprendoli, trovarsi davanti un cartello con scritto “Norvegia: da questa parte”, e una freccia da poter seguire senza il bisogno di pensare alla direzione o a qualsiasi altra cosa. Probabilmente è questo, pensò, continuando le riflessioni precedenti, il modo in cui nascono tutte le religioni, e il motivo per cui tutte queste sette si radunano negli aeroporti per fare adepti. Sanno che qui la gente è più vulnerabile e confusa, e pronta ad accettare qualcuno che li guidi, chiunque esso sia.
Kate riaprì gli occhi per trovare, com’era ovvio, le sue aspettative deluse. Ma un attimo dopo una lunga fila ondeggiante di tedeschi scocciati, tutti inspiegabilmente in maglietta gialla, si aprì per un attimo, e in quel varco lei ebbe modo di intravedere il check-in per Oslo. Si mise in spalla la tracolla del borsone e si avviò da quella parte.
Al banco c’era solo una persona prima di lei, un uomo che, a quanto pareva, aveva dei problemi, o forse li stava dando lui stesso.
Era un omone grosso e ben piazzato – ben progettato, per così dire – ma aveva qualcosa di strano che la inquietava. Kate non riusciva nemmeno a definire con esattezza che cosa ci fosse di strano in lui; ma al momento non era propensa a far rientrare quell’uomo nel novero delle cose a cui doveva pensare. Le tornò alla mente un articolo in cui si diceva che l’unità centrale di elaborazione del cervello umano dispone soltanto di sette registri di memoria, per cui se si hanno in mente sette cose contemporaneamente e si pensa a un’altra ancora, una delle sette precedenti viene subito eliminata.
In rapida successione pensò alle probabilità di riuscire a imbarcarsi, alla possibilità che fosse la sua immaginazione a farle apparire la giornata tanto brutta, agli impiegati della compagnia aerea dal sorriso accattivante e dai modi indicibilmente sgarbati, ai negozi duty-free degli aeroporti che potrebbero fare prezzi molto più bassi dei negozi normali ma che – mistero – non lo fanno, alla possibilità che stesse maturando dentro di lei un articolo sugli aeroporti da vendere a qualche rivista per ripagarsi almeno in parte il viaggio, alla possibilità che la tracolla della borsa le facesse meno male passandola sull’altra spalla e infine, malgrado tutte le sue buone intenzioni, a Jean-Philippe, che da solo apriva un ventaglio di altri sette pensieri subordinati.
L’uomo davanti a lei che discuteva con l’impiegata al check-in fu subito cancellato dalla sua mente.
Solo l’ultimo annuncio del volo per Oslo la costrinse a riprendere coscienza della situazione.
L’omone protestava perché non gli avevano dato un posto in prima classe. Era appena stato chiarito che la ragione del disguido risiedeva nel fatto che l’uomo non aveva un biglietto di prima classe.
A Kate il morale scese giù fino in fondo all’anima, e lì giunto prese ad aggirarsi ringhiando sommesso.
Venne poi accertato che l’uomo davanti a lei non aveva proprio nessun biglietto, né di prima classe né di seconda, e la discussione si trasformò in una rassegna libera e rabbiosa di vari argomenti quali, l’aspetto della donna, le sue qualità umane, diverse teorie riguardo la sua ascendenza, alcune ipotesi su quello che il futuro avrebbe potuto riservare a lei e alla compagnia aerea per cui lavorava, per concludersi casualmente sull’allegra questione della carta di credito.
Risultò che l’uomo non ce l’aveva.
Ne seguì un’ulteriore discussione sugli assegni e sul motivo per cui la compagnia non li accettava.
Kate gettò un lungo e lento sguardo omicida al proprio orologio.
«Mi scusi» disse, interrompendo la transazione. «Ne avete ancora per molto? Devo prendere il volo per Oslo.»
«Ora mi sto occupando di questo signore» rispose l’addetta al check-in. «Solo un secondo e sono da lei.»
Kate annuì, e cortesemente attese che passasse un secondo.
«È che l’aereo sta per decollare» replicò. «Ho solo un bagaglio, ho il biglietto e ho la prenotazione. Ci vorranno trenta secondi. Mi dispiace interrompervi, ma mi dispiacerebbe ancora di più perdere il volo per trenta secondi. E si tratta di trenta secondi veri, e non di trenta “solo un secondo” che potrebbero tenerci qui per tutta la notte.»
La donna le puntò contro tutto lo splendore del suo rossetto, ma prima che facesse in tempo ad aprir bocca l’omone biondo si voltò, e la sua faccia le fece un effetto sconcertante.
«Anch’io» disse con un lento e iroso accento nordico «vorrei prendere l’aereo per Oslo.»
Kate lo guardò. Sembrava del tutto fuori posto in un aeroporto – o, meglio, l’aeroporto era del tutto fuori posto rispetto a lui.
«Bene,» disse «a giudicare da come si sono messe le cose, direi che non lo prenderemo né lei né io. Vediamo se si può fare qualcosa. Qual è il problema?»
L’impiegata sorrise con quel suo accattivante e freddo sorriso e spiegò: «Non si accettano assegni, è contro il regolamento».
«D’accordo» rispose Kate buttando la sua carta di credito sul banco. «Addebitate a me il costo del biglietto di questo signore, e lui mi pagherà con un assegno.»
«Va bene?» aggiunse rivolta all’omone, che la stava fissando con lenta sorpresa. Aveva occhi grandi e azzurri che davano l’impressione di aver guardato a suo tempo un gran numero di ghiacciai. Erano straordinariamente arroganti, e anche un po’ intontiti.
«Va bene?» ripeté‚ con forza. «Mi chiamo Kate Schechter. Con due “c”, due “h”, due “e” e anche una “t”, una “r” e una “s”. Ce le metta tutte, mi raccomando, e in banca non faranno difficoltà sull’ordine in cui le ha messe. Neanche loro sanno qual è quello giusto.»
L’uomo chinò lentamente la testa verso di...

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