
eBook - ePub
Il Tempo ritrovato
- 3,572 pagine
- Italian
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Il Tempo ritrovato
Informazioni su questo libro
Capitolo conclusivo della Recherche du temps perdu, Il Tempo ritrovato (1927) getta sull'intera opera una luce retrospettiva che dà senso e valore a tutti gli episodi narrati, anche a quelli che potrebbero sembrare "tempo sprecato". In una Parigi e in una Combray che non sfuggono alla distruzione bellica, il Narratore compie le esperienze decisive, fino a scoprire, grazie a una semplice pietra sconnessa, il ruolo fondamentale delle memorie involontarie e, con esso, la propria vocazione letteraria: la narrazione torna così a chiudersi sul proprio inizio, celebrando la vittoria dell'arte sul Tempo e sulla morte.
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Informazioni
Argomento
LetteraturaCategoria
ClassiciIL TEMPO RITROVATO
La traduzione di Giovanni Raboni segue il testo francese pubblicato in quattro volumi sotto la direzione di Jean-Yves Tadié (M. Proust, À la recherche du temps perdu, vol. IV, «Bibliothèque de la Pléiade», Gallimard, Paris 1987). Per Le Temps retrouvé Tadié si è valso della collaborazione di Pierre-Louis Rey, Pierre-Edmond Robert, e Brian Rogers.

Durante quelle passeggiate, Gilberte mi parlava di Robert come se stesse allontanandosi da lei, ma per correre dietro ad altre donne. Ed è vero che la sua vita ne era piena, come di certe compagnie maschili la vita degli uomini a cui piacciono le donne, con quel carattere di difesa vana e di posto inutilmente usurpato che hanno, nella maggior parte delle case, gli oggetti che non servono a niente. A Tansonville venne, mentre ero là, parecchie volte. Era molto diverso da come l’avevo conosciuto. La sua vita non l’aveva ingrossato, rallentato come il signor di Charlus, ma al contrario, operando in lui un mutamento inverso, gli aveva dato l’aspetto disinvolto d’un ufficiale di cavalleria (sebbene, al momento di sposarsi, si fosse messo in congedo) come mai l’aveva avuto. A mano a mano che Charlus s’appesantiva, Robert (che era, certo, infinitamente più giovane – ma si sentiva che con l’età non avrebbe fatto che avvicinarsi ulteriormente a quell’ideale, come certe donne che sacrificano risolutamente il viso alla figura e da un certo punto in poi non si muovono più da Marienbad, pensando che, se non è possibile conservare più giovinezze insieme, quella della linea sarà comunque la più adatta a rappresentare le altre) s’era fatto più slanciato, più rapido, effetto opposto d’un medesimo vizio. Questa velocità aveva, del resto, varie ragioni psicologiche, il timore d’esser visto, il desiderio di non lasciar trasparire tale timore, l’agitazione febbrile che nasce dalla scontentezza di sé e dalla noia. Aveva l’abitudine d’andare in certi postacci nei quali, poiché preferiva che non lo si vedesse né entrare né uscire, si precipitava, non diversamente da come ci si lancia all’attacco, per offrire la minor superficie possibile agli sguardi malevoli di ipotetici passanti. E quell’andatura da colpo di vento gli era rimasta. Essa, forse, schematizzava anche l’apparente intrepidezza di chi vuol mostrare che non ha paura e non vuol concedersi il tempo di riflettere. Bisognerebbe, per completezza, prendere in considerazione il desiderio, via via che invecchiava, di apparire giovane, e anche l’impazienza di quelle creature sempre annoiate, sempre disincantate, che sono le persone troppo intelligenti per la vita relativamente oziosa che conducono, nella quale le loro facoltà restano irrealizzate. È probabile che l’ozio stesso possa manifestarsi, in costoro, come disinvoltura. Ma, soprattutto da quando gli esercizi fisici godono di tanto favore, l’ozio ha preso, anche al di fuori delle ore di sport, una forma sportiva, che si traduce non più in indifferenza, ma in una vivacità febbrile che crede di non lasciare alla noia né il tempo né lo spazio per svilupparsi.
La mia memoria – persino la memoria involontaria – aveva perduto l’amore di Albertine. Ma sembra che vi sia, pallida e sterile imitazione dell’altra, una memoria involontaria delle membra, la quale vive più a lungo, come certi animali o vegetali privi di intelligenza vivono più a lungo dell’uomo. Le gambe, le braccia sono piene di ricordi in letargo. Una volta che m’ero congedato da Gilberte piuttosto presto, mi svegliai in piena notte nella camera di Tansonville e, ancora mezzo addormentato, chiamai: «Albertine». Non che avessi pensato a lei, né sognato di lei, né che la scambiassi con Gilberte: una reminiscenza sbocciata nel mio braccio m’aveva fatto cercare il campanello dietro di me come nella mia camera di Parigi. E non trovandolo avevo chiamato: «Albertine», credendo che la mia amica defunta si fosse messa a letto accanto a me, come faceva spesso la sera, e ci fossimo addormentati insieme, contando al risveglio sul tempo che Françoise ci avrebbe messo ad arrivare perché Albertine potesse senza imprudenza tirare il campanello che io non riuscivo a trovare.
Diventato – almeno durante questa fase incresciosa – molto più brusco, Robert non dava quasi più prova di sensibilità nei confronti degli amici, per esempio nei miei. In compenso, aveva con Gilberte delle affettazioni di sensibilismo, spinte fino alla commedia, che indisponevano. Non che Gilberte, in realtà, gli fosse indifferente. Anzi, la amava. Ma le mentiva di continuo; la sua doppiezza, se non il fondo delle sue menzogne, era perennemente allo scoperto. E gli sembrava dunque di non potersela cavare se non esagerando in proporzioni ridicole la reale tristezza che gli veniva dal far soffrire Gilberte. Arrivava a Tansonville costretto, diceva, a ripartire la mattina dopo per un certo affare con un signore del paese che, secondo lui, lo aspettava a Parigi, e che, incontrato per l’appunto in serata vicino a Combray, rivelava senza volerlo la menzogna, di cui Robert non s’era curato di metterlo al corrente, dichiarando d’essere venuto lì a riposarsi e di non voler tornare a Parigi prima d’un mese. Robert arrossiva, vedeva il sorriso malinconico e fiero di Gilberte, si sbarazzava del gaffeur insultandolo, tornava a casa prima della moglie, le faceva avere un biglietto in cui diceva d’aver mentito per non darle un dispiacere, perché lei, vedendolo ripartire per una ragione che non poteva dirle, non credesse che non l’amava (e tutto ciò, sebbene lo scrivesse come una menzogna, era in fin dei conti vero), dopodiché le faceva chiedere se poteva andare in camera da lei e là – un po’ tristezza vera, un po’ snervamento di quella vita, un po’ simulazione ogni giorno più audace – scoppiava in singhiozzi, si inondava d’acqua fredda, parlava della propria morte vicina, a volte crollava sul pavimento come in preda a un malore. Gilberte non sapeva fino a che punto dovesse credergli, supponeva che Robert mentisse in ogni caso particolare ma che, in linea generale, la amasse, e si preoccupava, pensando che fosse effetto di una malattia che lei ignorava, di quel presentimento d’una morte vicina, e così non osava contrariarlo chiedendogli di rinunciare ai suoi viaggi.
Tanto meno, del resto, capivo perché ne facesse, visto che Morel era ricevuto, assieme a Bergotte, come uno di famiglia ovunque fossero i Saint-Loup, a Parigi come a Tansonville. Morel imitava Bergotte a meraviglia. In breve tempo, non ci fu più nemmeno bisogno di chiedergli che lo imitasse. Come gli isterici che non occorre più addormentare perché si trasformino in questa o quella persona, entrava nel personaggio da solo e in un sol colpo.
Françoise, che dopo aver visto tutto ciò che il signor di Charlus aveva fatto per Jupien vedeva tutto ciò che Robert de Saint-Loup faceva per Morel, non ne concludeva che fosse una caratteristica ricorrente nei Guermantes a distanza di generazioni, ma – visto che anche Legrandin aiutava molto Théodore – aveva finito col credere, lei persona tanto morale e con tanti pregiudizi, che si trattasse di un’usanza resa rispettabile dalla sua universalità. D’un giovane, si trattasse di Morel o di Théodore, diceva sempre: «Ha trovato un signore che si è sempre interessato a lui e lo ha tanto aiutato». E siccome in tali casi i protettori sono quelli che amano, che soffrono, che perdonano, Françoise non esitava, fra loro e i minorenni che sviavano, a dare a loro il ruolo più nobile, a trovare che avevano «tanto cuore». Biasimava senza esitazioni Théodore, che ne aveva fatte di tutti i colori a Legrandin; eppure mostrava d’avere ben pochi dubbi sui loro rapporti, dal momento che aggiungeva: «Allora il ragazzo ha capito che doveva pur metterci qualcosa di suo e gli ha detto: “Prendetemi con voi, vi vorrò bene, vi coccolerò”, e il signore, parola mia, ha così tanto cuore che di sicuro Théodore è sicuro di trovare vicino a lui forse più di quel che merita, perché è una testa matta, quello lì, ma il signore è così buono che io glielo dico sempre a Jeannette (la fidanzata di Théodore): “Ragazza mia, se mai vi trovate nei guai, andate da quel signore. Si metterebbe a dormire per terra, piuttosto, e vi darebbe il suo letto. Gli ha voluto troppo bene al ragazzo (Théodore) per cacciarlo fuori. C’è da scommettere che non lo abbandonerà mai”».
Per cortesia, chiesi a sua sorella quale fosse il cognome di Théodore, che adesso viveva nel Mezzogiorno. «Ma è stato lui a scrivermi per il mio articolo sul “Figaro!”» esclamai quando seppi che si chiamava Sautton.
Analogamente, Françoise stimava Saint-Loup più di Morel, e riteneva che malgrado tutti i tiri che il ragazzo (Morel) gli aveva giocato, il marchese non lo avrebbe mai lasciato nei guai, perché era un uomo che aveva troppo cuore, a meno che non si fosse trovato lui stesso in chissà quali difficoltà.
Robert insisteva perché io rimanessi a Tansonville, e una volta, sebbene non cercasse visibilmente più di farmi piacere, si lasciò sfuggire che la mia venuta era stata per sua moglie una gioia tale che era rimasta, a quanto gli aveva detto, ebbra di gioia per tutta una sera, una sera in cui si era sentita tanto triste che io, arrivando all’improvviso, l’avevo miracolosamente salvata dalla disperazione, «forse», aggiunse Robert, «da qualcosa di peggio». Mi chiedeva che tentassi di persuaderla del suo amore, dicendomi che la donna che pure amava l’amava meno di lei, e presto l’avrebbe lasciata. «Eppure», aggiungeva, con una tale fatuità e un tale bisogno di confidenza da farmi credere, a tratti, che il nome di Charlie sarebbe “uscito” suo malgrado come il numero d’una lotteria, «avevo di che essere orgoglioso. Questa donna che mi dà tante prove di tenerezza, e che sto per sacrificare a Gilberte, non s’era mai interessata a un uomo, si credeva incapace di innamorarsi. Io sono il primo. Si era rifiutata a tutti, e io lo sapevo, al punto che quando ho ricevuto la lettera adorabile in cui mi diceva di non poter essere felice se non con me, non riuscivo a crederci. Ci sarebbe, è chiaro, di che perdere la testa, se il pensiero di vedere in lacrime quella povera, cara Gilberte non mi fosse intollerabile. Non trovi che abbia qualcosa di Rachel?» mi chiedeva. E, in effetti, ero rimasto colpito da una vaga somiglianza che era adesso possibile, a rigore, scorgere fra le due donne. Forse dipendeva da una reale affinità di alcuni tratti (dovuti per esempio all’origine ebraica, per altro così poco marcata in Gilberte), affinità per la quale Robert, quando la sua famiglia aveva voluto che si sposasse, si era sentito maggiormente attratto, a parità di patrimoni, verso Gilberte. Ma anche dal fatto che Gilberte, avendo trovato delle fotografie di Rachel di cui aveva ignorato persino il nome, cercava di imitare, per piacere a Robert, certe abitudini care all’attrice, per esempio quella d’avere sempre dei nastri rossi fra i capelli e uno di velluto nero al braccio, e si tingeva i capelli per sembrare bruna. Rendendosi conto, poi, che i dispiaceri le davano una brutta cera, cercava di porvi rimedio. A volte lo faceva senza misura. Un giorno che Robert doveva venire a Tansonville per passarvi ventiquattro ore, rimasi stupefatto vedendola arrivare a tavola così stranamente diversa non solo da come era stata un tempo, ma da com’era di solito, che ne fui stupefatto come se avessi avuto di fronte a me un’attrice, una specie di Teodora. Mi accorgevo di guardarla, mio malgrado, troppo fissamente, curioso di sapere cosa vi fosse in lei di tanto mutato. La mia curiosità, d’altronde, fu presto soddisfatta quando Gilberte si soffiò il naso, e nonostante tutte le precauzioni con cui lo fece. Da tutti i colori che rimasero sul fazzoletto, facendone una ricca tavolozza, vidi che era completamente dipinta. Per questo aveva quella bocca insanguinata che si sforzava di rendere sorridente e che credeva le stesse bene, mentre l’avvicinarsi dell’ora del treno senza che Gilberte sapesse se il marito sarebbe davvero arrivato o avrebbe invece mandato uno di quei telegrammi di cui il signor di Guermantes aveva spiritosamente fissato il modello – “impossibile venire, segue bugia” – faceva impallidire le sue guance sotto il sudore viola del trucco e le cerchiava gli occhi.
«Ah!», mi diceva Robert con un tono volutamente tenero che tanto contrastava con la tenerezza spontanea d’una volta, una voce da alcolizzato e modulazioni da attore, «la felicità di Gilberte, non c’è niente, vedi, che non le sacrificherei! Lei ha fatto tanto per me. Non puoi sapere.» E la cosa più spiacevole, in tutto questo, era ancora l’amor proprio, perché essere amato da Gilberte lo lusingava, e non osando dire che era Charlie che amava, dava tuttavia, dell’amore che attribuiva al violinista nei suoi confronti, certi dettagli che lui stesso sapeva esagerati se non inventati di sana pianta, lui al quale Charlie chiedeva ogni giorno sempre più denaro. Ed era affidandomi Gilberte che ripartiva per Parigi.
Per anticipare un po’, visto che sono ancora a Tansonville, ebbi del resto l’occasione di vederlo una volta, e da lontano, in società, dove la sua conversazione malgrado tutto viva e affascinante mi permetteva di ritrovare il passato; fui colpito da quanto cambiasse. Somigliava sempre di più a sua madre, il tratto di sveltezza altera che aveva preso da lei, e che in lei era perfetto, in lui, grazie alla più raffinata delle educazioni, diventava eccessivo, si irrigidiva; l’acutezza penetrante dello sguardo, tipica dei Guermantes, gli dava l’aria di ispezionare tutti i luoghi per cui passava, ma in modo quasi inconscio, come per un’abitudine o una particolarità animale. Anche immobile, il colore che apparteneva a lui più che a qualsiasi altro Guermantes gli conferiva, per non esser che l’oro d’una giornata di sole appena solidificato, una sorta di così strano piumaggio, faceva di lui una specie così rara, così preziosa, che si sarebbe voluto possederlo per una collezione ornitologica; ma quando, in più, questa luce mutata in uccello si metteva in movimento, in azione, e vedevo per esempio Robert de Saint-Loup arrivare a un ricevimento dove già mi trovavo, aveva un modo di rialzare la testa così setosamente e fieramente di razza sotto il pennacchio d’oro dei capelli un po’ spiumati, movimenti del collo talmente più sciolti, più fieri e più civettuoli di quelli propri agli umani, che davanti alla curiosità e all’ammirazione per metà mondana, per metà zoologica ch’egli ispirava, c’era da chiedersi se ci si trovasse nel faubourg Saint-Germain o al Jardin des Plantes, e se si stesse guardando un gran signore attraversare un salotto o un uccello passeggiare nella sua gabbia. D’altra parte, tutto quel ritorno all’eleganza volatile dei Guermantes dal becco aguzzo, dagli occhi affilati, era utilizzato adesso dal suo nuovo vizio, che se ne serviva per darsi un contegno. Più se ne serviva, più sembrava ciò che Balzac chiama “una zia”. Bastava un po’ d’immaginazione perché il suo modo di cinguettare si prestasse a questa interpretazione non meno delle sue piume. Si metteva a dire frasi che credeva grand siècle, imitando in questo i modi dei Guermantes. Ma un indefinibile nonnulla faceva sì che diventassero, al tempo stesso, i modi del signor di Charlus. «Ti lascio un istante», mi disse quella sera, mentre Madame de Marsantes era poco lontana da noi. «Vado a fare un filo di corte a mia madre.»
L’amore di cui mi parlava di continuo non era soltanto, del resto, quello per Charlie, sebbene fosse l’unico che contava per lui. Qualunque sia il genere d’amori che un uomo coltiva, ci si sbaglia sempre sul numero delle sue relazioni, perché si interpretano erroneamente come relazioni delle amicizie, il che costituisce un errore per addizione, ma anche perché si crede che una relazione conosciuta ne escluda un’altra, il che costituisce un errore d’altro genere. Due persone possono dire: «Sì, l’amante di X..., la conosco», pronunciare due nomi diversi e non sbagliarsi né l’una né l’altra. È raro che una donna che amiamo soddisfi tutti i nostri bisogni, e la inganniamo con una che non amiamo. Quanto al genere d’amori che Saint-Loup aveva ereditato da Charlus, un marito che vi sia incline fa di solito la felicità di sua moglie. È una regola generale rispetto alla quale i Guermantes trovavano il modo di fare eccezione, perché quelli fra loro che avevano questo gusto volevano far credere d’avere, al contrario, quello delle donne. Si mettevano pubblicamente con questa o con quella, e facevano disperare le loro mogli. I Courvoisier si comportavano con più giudizio. Il giovane visconte di Courvoisier si credeva l’unico sulla terra fin dall’origine del mondo ad essere tentato da qualcuno del suo sesso. Pensando che quell’inclinazione gli venisse dal diavolo, lottò per contrastarla. Sposò una donna incantevole, le fece fare dei bambini. Poi un cugino gli insegnò che era un’inclinazione piuttosto diffusa, e spinse la sua bontà fino a condurlo in luoghi dove poteva soddisfarla. Il signor di Courvoisier amò tanto di più sua moglie, raddoppiò il proprio zelo prolifico, e i due erano citati come la coppia più felice di Parigi. Non si diceva altrettanto dei Saint-Loup, perché Robert, anziché accontentarsi dell’inversione, faceva morire di gelosia la moglie mantenendo, senza alcun piacere, delle amanti.
Può darsi che Morel, essendo nerissimo, fosse necessario a Saint-Loup come l’ombra al raggio di sole. Si può benissimo immaginare in quella famiglia così antica un gran signore biondo oro, intelligente, dotato d’ogni prestigio, capace di celare nel più profondo un gusto segreto, da tutti ignorato, per i negri.
Robert, d’altronde, non lasciava mai che la conversazione toccasse il genere d’amori ch’era il suo. Se io vi accennavo: «Ah! non saprei», rispondeva, con un distacco così profondo che si lasciava sfuggire il monocolo, «non ho la minima idea di queste cose. Se vuoi informazioni in proposito ti consiglio, mio caro, di rivolgerti altrove. Io sono un soldato, punto e basta. Tanto mi lasciano indifferente queste faccende, altrettanto mi appassiona la guerra balcanica. Una volta ti interessava, l’etimologia delle battaglie. Allora ti dicevo che si sarebbero riviste, sia pure nelle condizioni più diverse, le battaglie tipiche, per esempio il grande saggio di aggiramento sull’ala, la battaglia di Ulm. Ebbene! saranno particolari quanto vuoi, queste guerre balcaniche, ma Luleburgaz è ancora Ulm, l’aggiramento sull’ala. Ecco gli argomenti di cui puoi parlare con me. Del genere di cose a cui alludevi, ne so quanto di sanscrito».
Questi argomenti che Robert disprezzava tanto, Gilberte, una volta che lui era ripartito, li affrontava invece volentieri con me. Non in relazione al marito, visto che ignorava o fingeva di ignorare tutto. Ma vi si soffermava volentieri in quanto concernevano gli altri, sia che vi vedesse una sorta di scusa indiretta per Robert, sia che questi, diviso come suo zio fra un silenzio severo sull’argomento e un bisogno di sfogo e di maldicenza, l’avesse largamente istruita. Fra tutti, Charlus non veniva risparmiato; probabilmente Robert, pur non parlando di Charlie a Gilberte, quand’era con lei non poteva trattenersi dal ripeterle, in una forma o nell’altra, quanto veniva a sapere dal violinista. E costui perseguitava col suo odio l’ex benefattore. Queste conversazioni, che Gilberte prediligeva, mi permisero di chiederle se, in un genere parallelo, Albertine, che avevo sentita nominare per la prima volta proprio da lei, quando erano compagne di scuola, avesse quei gusti. Gilberte non poté darmi l’informazione richiesta. D’altronde, la cosa aveva smesso da tempo di interessarmi. Ma continuavo a occuparmene meccanicamente, come un vecchio che, perduta la memoria, chieda di tanto in tanto notizie del figlio che ha perduto.
La cosa curiosa, e sulla quale non posso dilungarmi, è sino a che punto, più o meno in quel periodo, tutte le persone amate da Albertine, tutte quelle che avrebbero potuto farle fare quel che avessero voluto, abbiano chiesto, implorato, oserei dire mendicato, in mancanza della mia amicizia, qualche rapporto con me. Non ci sarebbe stato più bisogno d’offrire del denaro a Madame Bontemps perché facesse tornare Albertine da me. Questo ripensamento della vita, che si verificava quando non serviva più a niente, mi rattristava profondamente, non a causa di Albertine – che avrei vista tornare senza alcun piacere se me l’avessero riportata non più dalla Touraine, ma dall’altro mondo –, ma a causa di una giovane donna che amavo e che non mi riusciva d’incontrare. Mi dicevo che se fosse morta, o se avessi smesso d’amarla, tutti coloro che avrebbero potuto avvicinarmi a lei sarebbero caduti ai miei piedi. Nell’attesa, cercavo invano di agire su di loro, non guarito dall’esperienza che avrebbe dovuto insegnarmi – ammesso che possa mai insegnare qualcosa – che amare è una malasorte come quelle delle fiabe, contro le quali non c’è niente da fare finché l’incantesimo non sia cessato.
«Il libro che ho qui parla proprio di queste cose», mi disse Gilberte. (Parlai a Robert di quel misterioso: «Ci saremmo capiti, io e lei». Dichiarò di non ricordarsene, e che la cosa non aveva comunque nessun senso particolare.)
«È un vecchio Balzac che mi sto sorbendo per mettermi alla pari con gli zii, La Fille aux yeux d’or. Ma è assurdo, inverosimile, un incubo bello e buono. Del resto, una donna può forse essere sorvegliata così da un’altra donna, mai da un uomo. – Vi sbagliate, ho conosciuto una donna che un uomo innamorato di lei era arrivato a sequestrare nel vero senso della parola; non poteva mai vedere nessuno, e usciva solo con servitori fidati. – Ebbene, dovrebbe farvi orrore, a voi che siete così buono. Dicevamo appunto con Robert che dovreste sposarvi. Vostra moglie vi guarirebbe, e voi la fareste felice. – No, ho troppo cattivo carattere. – Che idea! – Vi assicuro! Del resto sono stato fidanzato, ma non ho mai saputo decidermi a sposarla (e lei stessa vi ha rinunciato, per via del mio carattere indeciso e molesto).» Era infatti in questa forma alquanto semplificata che giudicavo – non vedendola più, ormai, che dal di fuori – la mia avventura con Albertine.
Mentre risalivo in camera mia, mi rattristava il pensiero di non essere stato una sola volta a rivedere la chiesa di Combray, che sembrava as...
Indice dei contenuti
- Copertina
- di Marcel Proust
- Frontespizio
- Nota Introduttiva di Alberto Beretta Anguissola
- Il Tempo ritrovato
- Argomento Del Volume a cura di Giovanni Raboni
- Copyright