I Regni di Nashira - 2. Le spade dei ribelli
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I Regni di Nashira - 2. Le spade dei ribelli

  1. 408 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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I Regni di Nashira - 2. Le spade dei ribelli

Informazioni su questo libro

Nel mondo di Nashira, la razza femtita per secoli è vissuta schiava dei Talariti, ma tutto ora sta cambiando. In ognuno dei quattro Regni è scoppiata la rivolta e l'esercito, guidato dal crudele conte Megassa, non riesce a domarla. A fomentare la sommossa è stata proprio sua figlia Talitha, che, ribellandosi al destino di sacerdotessa, ha dato fuoco al monastero della città di Messe ed è fuggita insieme al suo schiavo Saiph. Ora Talitha ha una missione: salvare Nashira dalla catastrofe che una profezia millenaria dà per imminente. Una catastrofe già accaduta in un lontano passato e a cui solo un essere mitico è sopravvissuto: Verba, l'uomo che non può morire, e che forse sa come fermare l'apocalisse. Verba tuttavia sembra indifferente al destino di Nashira e scappa verso terre sconosciute, mentre Talitha e Saiph combattono a fianco dei ribelli in una guerra che si fa sempre più cruenta. Talitha si troverà di fronte a una difficile scelta: tornare a dare la caccia a Verba o diventare l'arma decisiva dei ribelli contro la tirannia, sfidando la sua razza e il suo passato.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2012
Print ISBN
9788804622109
eBook ISBN
9788852031304

TERZA PARTE

25

Palena era una piccola città ai confini del Regno della Primavera, là dove i Talareth iniziavano a ingiallire e l’aria era più fresca. Da una settimana era diventata un campo di battaglia. La guerra veniva combattuta casa per casa, spietata.
Era iniziata con la ribellione di alcuni schiavi femtiti in una fattoria. Uno di loro, un bambino accusato di furto, era stato ucciso a bastonate. Era solo l’ultima di una lunga serie di vessazioni. Fino a qualche tempo prima, gli schiavi avrebbero chinato il capo davanti all’esecuzione e dopo sarebbero tornati al lavoro, convinti che quella fosse l’immutabile natura delle cose. Ma ora anche a Palena erano arrivati i venti della rivolta. Uno schiavo aveva strappato di mano il Bastone al famiglio e l’aveva colpito sulla testa abbattendolo al suolo.
Dopo un istante di attonito silenzio, i Femtiti avevano urlato a una sola voce impugnando qualsiasi cosa potesse essere usata come arma, e avevano fatto irruzione nella casa padronale. Era iniziata così, e ancora non era finita.
La Guardia era intervenuta quasi subito, ma si trattava di pochi uomini, fiaccati da altre battaglie e dalla fame. Nuove alluvioni, le più violente da che si aveva memoria, avevano distrutto gran parte del raccolto. I Guardiani combattevano per una misera paga e per un rancio che a malapena riusciva a tenerli in piedi; i Femtiti per il diritto a esistere, induriti da anni di privazioni. I soldati erano stati eliminati dal primo all’ultimo.
E così ora i Talariti erano chiusi nelle loro case, nascosti nelle cantine, barricati a doppia mandata nelle stanze più sicure delle loro abitazioni, e intanto i ribelli saccheggiavano, bruciavano, uccidevano, in un’ansia di distruzione che non conosceva limiti, una smania di purificare col fuoco quella città da ogni traccia talarita. E mentre il legittimo desiderio di libertà si trasformava in pura fame di morte, i Femtiti si organizzavano, cercando di creare nuove istituzioni che governassero la città. C’era già un consiglio cittadino, che si riuniva nel palazzo dell’anziano conte, la cui testa era stata appiccata sulle mura il primo giorno di ribellione.
Ora, sua moglie, scampata per miracolo al massacro, era inginocchiata ai piedi di Megassa, scarmigliata e con il volto scavato, l’ombra della donna ricca e altera che era stata un tempo. Era la sorella di un potente conte del Regno dell’Inverno con cui Megassa aveva intrattenuto a lungo rapporti, ma adesso sembrava una miserabile popolana. Abbandonato il contegno che si confaceva al suo rango, implorava la salvezza.
Il conte di Messe era accorso a Palena non appena si era sparsa la voce di quel che era accaduto. Aveva preso i suoi uomini e si era stabilito in una fattoria non lontana dalla città, requisendola al legittimo proprietario.
Ascoltò il triste racconto della donna, uguale a tanti altri che aveva già sentito. Parlava di paura, morte, disperazione. Poi le prese le mani e la fece alzare, il volto atteggiato alla comprensione.
«Farò di tutto per salvare la vostra città, signora. Ogni vita talarita per me si equivale, che si tratti di quella di un grande re, o di quella di una coraggiosa contessa di frontiera.»
Gli occhi della donna si riempirono di lacrime, mentre le labbra finalmente si tendevano in un sorriso faticoso. «Grazie, conte.»
Lo sguardo di Megassa si indurì. «Allo stesso modo, il mio odio per la feccia femtita non conosce confini. Sterminerò gli schiavi fino a quando anche l’ultimo non avrà pagato con la vita la propria impudenza.»
La donna gli strinse le mani con vigore. «Se solo la nostra regina fosse determinata quanto voi…» sospirò.
«Per questo Sua Maestà ha mandato me» sorrise Megassa con falsa umiltà. Poi fece un cenno al suo attendente. «Porfio, accompagna la contessa nel mio alloggio, metti a sua completa disposizione un paio delle mie schiave e assicurati che non le manchi niente.»
Porfio si fece avanti e si inchinò alla donna, che si allontanò guardando Megassa con occhi adoranti. Lui sorrise di nuovo, pregustando la battaglia che si avvicinava.
L’esercito di Megassa si riversò sulla città all’alba, come una bestia selvaggia sulla preda. I soldati della Guardia attaccavano compatti e determinati. Erano forti, addestrati e in perfetta forma. Il conte aveva dirottato sulle sue truppe gran parte delle risorse un tempo destinate al palazzo. Persino sua moglie aveva dovuto rinunciare ai pranzi troppo sontuosi e ai suoi due bagni quotidiani. I Guardiani combattevano contro un esercito di straccioni, certo, ma straccioni che lottavano per la vita e la libertà, infiammati da un odio che Megassa non poteva accettare, ma che non faticava a comprendere. In fin dei conti, era la stessa forza primordiale che muoveva anche lui: il desiderio di riscatto che animava quegli schiavi era pari alla sua smania di potere. Per questo conduceva i suoi uomini nei luoghi in cui i ribelli avevano commesso le violenze più atroci, e non mancava mai di esortarli con parole che mettessero in luce la natura della loro guerra, una guerra benedetta dagli dei per ricostruire l’ordine naturale delle cose e difendere un mondo in cui i Femtiti erano schiavi e i Talariti padroni. E, soprattutto, si comportava come uno di loro. Condivideva il loro rancio, era sempre in prima fila e si spendeva in battaglia al loro fianco. I suoi uomini lo adoravano: era per loro l’esempio del capo perfetto, che impone una rigida disciplina, ma che sa piegarsi alle stesse regole prescritte alla truppa. Non un generale vanaglorioso, chiuso nelle retrovie, a godersi i frutti del suo potere, ma un soldato vero, che metteva in gioco la sua stessa vita.
Così, anche quella mattina Megassa era sul suo drago, in mezzo ai suoi uomini, in prima linea.
Fece dividere le truppe in due gruppi: uno iniziò a seminare il caos in città, attaccando direttamente i ribelli, mentre l’altro passava casa per casa, conducendo fuori gli abitanti e portandoli in salvo. Le operazioni di evacuazione vennero condotte con una rapidità estrema. Gli assediati salutavano i soldati con lacrime di gioia, felici di essere strappati dall’incubo in cui erano precipitati.
Quando anche l’ultimo Talarita venne liberato e messo al sicuro, Megassa alzò la spada. Urlò, e i suoi uomini risposero come fossero un’unica entità. Fu solo allora che la battaglia vera ebbe inizio.
Dal cielo, a cavallo dei loro draghi, le truppe di Megassa inondarono la città di fiamme, costringendo chiunque fosse al coperto a venire fuori. Strada per strada, presero a massacrare tutti i ribelli che scappavano dagli edifici bruciati. Non contava se fossero uomini, donne o bambini, se fossero armati o meno o se opponessero resistenza. Erano Femtiti, e tanto bastava.
Megassa continuò a volare sul campo di battaglia fino a quando il nero della notte fu quasi del tutto rischiarato dal lucore dei fuochi appiccati al suolo. Poi scese a terra, legò il suo drago lontano dalla battaglia e si gettò nella mischia.
Era così che aveva cominciato, molti anni prima, figlio di un generale della Guardia senza una goccia di sangue blu in corpo. Ma erano state la sua determinazione e la sua forza fisica a guadagnargli posti sempre più alti nella Guardia, e in seguito su su fino alla contea, che aveva conquistato letteralmente pugnale alla mano, con una congiura di corte che aveva portato alla morte del precedente conte. Combattere era qualcosa che gli scorreva nelle vene fin da quando era bambino, e suo padre lo addestrava senza pietà nell’arena della Guardia, umiliandolo davanti agli altri allievi, ferendolo come fosse un cadetto qualsiasi, o peggio, uno schiavo della cui vita poteva disporre a piacimento. Ma a lui combattere piaceva, e continuava a piacergli.
L’aria sapeva di carne bruciata e sangue, le urla che risuonavano nelle vie della città erano per lui un canto. Avanzava, spada in pugno, trafiggendo chiunque gli si parasse davanti, quasi senza neppure guardare di chi si trattasse, distinguendo solo gli occhi dorati dei Femtiti da quelli verdi dei suoi simili.
Qualcuno lo ferì di striscio a un fianco: un vecchio Femtita senza denti, armato di una falce per la mietitura. Megassa si volse con un ruggito, traendo da quel dolore nuovo slancio per l’attacco. Gli staccò la testa con un unico movimento della spada, quindi continuò a colpire.
Quella carneficina si arrestò solo al sorgere dei soli. La luce fioca di Miraval e Cetus illuminò, nella piazza principale, un gruppo di Femtiti: c’erano donne, bambini e vecchi, pochi giovani. Era sempre esplicito ordine di Megassa che almeno un centinaio di schiavi venisse risparmiato al massacro.
«Fa’ venire qui la gente che abbiamo salvato stanotte» disse al suo luogotenente.
«Sì, mio signore» rispose quello, ma esitò un istante prima di andare.
«Che c’è?»
«Siete ferito, mio signore…»
Megassa si guardò il fianco. Il taglio provocato dalla falce sanguinava leggermente.
«Non fa niente. Porta qui gli abitanti della città, avanti.»
Meglio, pensò. Il sangue faceva sempre una certa impressione, e l’immagine di un condottiero ferito che nonostante il dolore continuava ad arringare la folla aveva una presa straordinaria sulla gente.
I Talariti giunsero alla spicciolata, per lo più avvolti in ampie coperte fornite dagli uomini di Megassa, gli occhi stravolti dal sonno e dalla paura, ma che si accendevano non appena posavano lo sguardo sui Femtiti prigionieri. Da ultima, arrivò la contessa; rispetto a quando era andata a implorare Megassa, sembrava molto più presente a se stessa, e aveva persino indossato un nuovo abito che lui stesso le aveva fatto trovare nel suo alloggio. Fu a lei che si rivolse, non appena i suoi gli fecero cenno che tutti i sopravvissuti erano stati radunati.
«Vostra Eccellenza, come mi avevate chiesto vengo a riconsegnarvi la vostra città.»
La donna chinò leggermente il capo. «Vi ringrazio infinitamente a nome della mia gente, conte; il nostro debito di gratitudine nei vostri confronti è inestinguibile.»
Megassa indicò i Femtiti prigionieri. «Devo però chiedervi di occuparvi di un’ultima incombenza. Qui davanti a voi avete gli unici sopravvissuti della ribellione: poiché sono vostri schiavi, e non miei, tocca a voi deciderne la sorte.»
«Uccideteli!»
«Bastonateli!»
«A morte!»
Le grida che si levavano dalla folla dei Talariti erano così forti e colme di odio che Megassa fu costretto a richiamare l’ordine.
«Ebbene, mia signora?» disse con un lieve inchino che lo portò a toccarsi platealmente la ferita al fianco, con una sottile smorfia di dolore. Un mormorio significativo percorse la folla.
La contessa rimase immobile, eretta, lo sguardo spietato che correva sui visi dei Femtiti. «Voglio che muoiano tutti» dichiarò, gelida.
«Come desiderate» rispose Megassa.
Quindi fece cenno a una decina dei suoi uomini, che si gettarono sui prigionieri urlanti e cominciarono a trafiggerli con le spade.
Alla fine, un silenzio di tomba avvolse tutto.
«Portate via i cadaveri e bruciateli» ordinò secco Megassa, poi raggiunse il centro della piazza.
Attese qualche secondo prima di pronunciarsi, come se stesse ponderando a fondo le parole.
«So come vi sentite» iniziò rivolto ai Talariti. «Negli occhi avete ancora le immagini dello scempio che avete dovuto subire, vi sentite ancora prigionieri delle vostre case e di un incubo senza fine, e quando vi guardate intorno» fece un ampio gesto con la mano «vedete solo le macerie della vostra splendida città. So che ferite del genere non sono facili da guarire.»
Qualcuno singhiozzò, una bambina si strinse più forte alle gambe di sua madre.
«Ma pensate questo: coloro che vi hanno inflitto una simile sofferenza adesso sono in cielo, dimora dei demoni, in pasto a Cetus, e lì consumeranno un’eternità di dolore. E per quel che riguarda la vostra città, i miei uomini vi aiuteranno a riparare i danni che questa notte di giustizia ha procurato alle vostre case.»
Un mormorio di ammirazione percorse l’uditorio.
«Finirà, questa ribellione» proseguì Megassa a voce più alta «perché noi la faremo finire! Gli dei ci hanno posto al vertice di questo mondo, padroni del cielo e della terra, e nessuno schiavo può arrogarsi il diritto di toglierci quel che è nostro. Ovunque, i ribelli pagheranno come hanno pagato qui, ve lo garantisco sul mio onore!»
Un applauso scrosciante proruppe dalla folla, e i Talariti, che fino a quel momento erano rimasti ad ascoltare in un silenzio estatico, non riuscirono più a trattenersi. Si avvicinarono al conte, lo toccarono, lo abbracciarono. Megassa godette di quel trionfo. Quella gente era ai suoi piedi, e presto tutta Talaria l’avrebbe salutato come un salvatore. Pre...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. PROLOGO
  4. PRIMA PARTE
  5. SECONDA PARTE
  6. TERZA PARTE
  7. EPILOGO
  8. INDICE DEI NOMI
  9. Copyright