Thérèse Raquin
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Thérèse Raquin

  1. 288 pagine
  2. Italian
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Thérèse Raquin

Informazioni su questo libro

Pubblicato nel 1867, Thérèse Raquin narra la vicenda di Thérèse, giovane bella e avida di vita, sposata con il cugino Camille, malaticcio e debole di carattere. La donna si lascia sedurre da Laurent, amico di famiglia dal temperamento rozzo e sanguigno. Trascinati in un vortice di passione sempre più fosca, i due amanti giungono a uccidere Camille simulando un incidente. Ma non troveranno pace neppure dopo essersi sposati e, tormentati tanto dal fantasma di Camille quanto dagli occhi severi della madre di lui, muta e paralizzata ma dall'intelligenza intatta, finiranno per suicidarsi. Definito da Oscar Wilde "il capolavoro dell'orrido", in realtà questo romanzo è quasi un manifesto del naturalismo francese: costruito dall'autore come lo studio di un caso fisiologico e psicologico, analisi delle passioni di un temperamento nervoso e di uno collerico, Thérèse Raquin resta scolpito nella mente del lettore per la sua audacia descrittiva, le sue atmosfere morbose e la precisione assoluta del congegno narrativo.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2013
Print ISBN
9788804592242
eBook ISBN
9788852034466

1

In fondo alla rue Guénégaud, venendo dal lungofiume, si trova il passaggio del Pont-Neuf, una specie di corridoio stretto e cupo che va dalla rue Mazarine alla rue de Seine. Lungo tutt’al più trenta passi e largo due, è lastricato di pietre giallastre, consunte, sconnesse, che trasudano sempre un’acre umidità; la vetrata che lo copre, tagliata ad angolo retto, è nera di sporcizia.
Nelle belle giornate d’estate, quando il sole pesante arroventa le strade, una luce biancastra cade dai vetri sudici e striscia miseramente lungo il passaggio. Nelle brutte giornate invernali, nelle mattine di nebbia, i vetri diffondono sulle pietre vischiose solo il buio della notte, una notte sporca e ignobile.
A sinistra, si affossano delle botteghe buie, basse, schiacciate, che lasciano sfuggire fredde ventate di cantina. Ci sono bouquinistes, venditori di giocattoli, di oggetti di cartone, le cui vetrine grigie di polvere sonnecchiano nell’ombra; i vetri, a piccoli quadretti, danno alle merci strane screziature dai riflessi verdastri; al di là, dietro le vetrine, le botteghe piene di tenebre sono altrettanti buchi lugubri nei quali si agitano forme bizzarre.
A destra, lungo tutto il passaggio, si estende un muro a cui i bottegai dirimpetto hanno addossato stretti armadi; oggetti senza nome, mercanzie dimenticate lì da vent’anni sono esposte su tavole sottili, dipinte di un orribile marroncino. Una venditrice di gioielli falsi si è stabilita in uno degli armadi; vende anelli da quindici soldi, posati delicatamente sopra un letto di velluto blu, sul fondo di una scatola di mogano.
Sopra la vetrata, il muro sale, nero, grossolanamente intonacato, coperto come di lebbra e tutto sfregiato da cicatrici.
Il passaggio del Pont-Neuf non è un luogo da passeggiata. Lo si prende per evitare un giro lungo, per guadagnare qualche minuto. È attraversato da gente indaffarata, la cui unica preoccupazione è di far presto e di tirar dritto. Si vedono apprendisti con il grembiule da lavoro, operaie che riconsegnano il lavoro fatto, uomini e donne con pacchi sotto il braccio; si vedono anche dei vecchi che si trascinano nel tetro crepuscolo che cade dai vetri, e bande di bambini che vengono qui all’uscita dalla scuola per far baccano correndo, battendo con gli zoccoli sul selciato. Tutto il giorno, un rumore secco e frettoloso di passi risuona sulle pietre con una irregolarità irritante; nessuno parla, nessuno si ferma; ciascuno corre alle sue occupazioni, la testa bassa, camminando rapidamente, senza gettare nemmeno un’occhiata alle botteghe. I negozianti guardano con aria inquieta i passanti che, per miracolo, si fermano davanti alle loro vetrine.
Di sera, tre lampioni a gas, racchiusi in pesanti lanterne quadrate, illuminano il passaggio. Questi lampioni, appesi alla vetrata su cui spandono chiazze di luce fulva, lasciano cadere intorno a loro cerchi di un chiarore fioco che vacillano e a momenti sembrano scomparire. Il passaggio assume l’aspetto sinistro di un vero e proprio covo di assassini; grandi ombre si allungano sul selciato, soffi umidi provengono dalla strada; si direbbe una galleria sotterranea appena rischiarata da tre lampade funerarie. I bottegai si accontentano, come unica illuminazione, dei raggi fiochi che i lampioni rifrangono sulle loro vetrine; in bottega, accendono solamente una lampada con un paralume e la posano su un angolo del banco, e così i passanti riescono a distinguere che cosa c’è in fondo a quei buchi dove fa notte anche di giorno. Sulla linea nerastra delle vetrine scintillano i vetri di un cartolaio: due lampade a petrolio squarciano le tenebre con le loro fiamme gialle. E, dall’altra parte, una candela, conficcata in una lampada di vetro, accende stelle di luce nella scatola di gioielli falsi. La venditrice sonnecchia in fondo al suo armadio, con le mani nascoste sotto lo scialle.
Qualche anno fa, di fronte a questa venditrice, c’era una bottega i cui pannelli di legno verde bottiglia trasudavano umidità da ogni fessura. L’insegna, fatta con un asse stretto e lungo, recava, in lettere nere, la scritta MERCERIA, e su uno dei vetri della porta c’era un nome di donna: THÉRÈSE RAQUIN, a caratteri rossi. A destra e a sinistra due vetrine profonde, tappezzate di carta azzurra, affondavano nell’oscurità.
Durante il giorno, lo sguardo riusciva a distinguere solamente le merci della vetrina, immerse in una dolce penombra.
Da un lato, c’era un po’ di biancheria: cuffie di tulle pieghettate da due o tre franchi l’una, polsini e colletti di mussola; poi maglie, calze, calzini, bretelle. Ogni capo, ingiallito e sgualcito, pendeva tristemente da un gancio di fil di ferro. La vetrina era così tutta piena, dall’alto al basso, di cenci biancastri che assumevano un aspetto lugubre in quell’oscurità trasparente. Le cuffie nuove, di un bianco più splendente, macchiavano crudamente la carta azzurra che ricopriva i piani. E appesi a una bacchetta, i calzini colorati introducevano delle note fosche nell’indistinto e scialbo sbiadire della mussola.
Dall’altro lato, in una vetrina più stretta, si ammucchiavano grossi gomitoli di lana verde, bottoni neri cuciti su cartoncini bianchi, scatole di ogni colore e dimensione, reticelle di perline d’acciaio su cerchi di carta azzurrognola, fasci di ferri da calza, modelli di ricami, rocchetti di nastro, un mucchio di oggetti smorti e sbiaditi che probabilmente dormivano lì da cinque o sei anni. In quell’armadio marcito dalla polvere e dall’umidità, tutti i colori tendevano al grigio sporco.
D’estate, verso mezzogiorno, quando il sole bruciava le piazze e le strade con raggi fulvi, si poteva scorgere, dietro le cuffie dell’altra vetrina il profilo pallido e serio di una giovane donna. Quel profilo usciva vagamente dalle tenebre che regnavano nella bottega. Alla fronte bassa e secca si attaccava un naso lungo, stretto, affilato; le labbra erano due tratti sottili di un rosa pallido, e il mento, corto e nervoso, si congiungeva al collo con una linea morbida e grassa. Non si vedeva il corpo, che si perdeva nell’ombra; appariva solo il profilo, di una bianchezza opaca, squarciata da occhi neri spalancati, e come schiacciati da una folta capigliatura scura. Stava lì, per ore, immobile e tranquillo, tra due cuffie su cui le bacchette umide avevano lasciato strisce di ruggine.
Di sera, quando la lampada era accesa, si poteva vedere l’interno della bottega. Era più lunga che profonda; a una delle estremità, si trovava un piccolo banco, all’altra, una scala a chiocciola portava alle stanze del primo piano. Addossati al muro c’erano bacheche, armadi, file di scatole verdi; quattro sedie e un tavolo completavano l’arredamento. La stanza appariva nuda, glaciale, con le merci, imballate, strette negli angoli, non sparse qua e là in un’allegra confusione di colori.
Di solito c’erano due donne sedute dietro il banco: la giovane dal profilo serio e una vecchia signora che sorrideva sonnecchiando. Quest’ultima aveva circa sessant’anni; il suo viso grasso e placido sbiancava sotto il chiarore della lampada. Un grosso gatto tigrato, accovacciato su un angolo del banco, la guardava dormire.
Più giù, seduto su una sedia, un uomo di una trentina d’anni leggeva o chiacchierava a bassa voce con la giovane. Era piccolo, gracile, d’aspetto cagionevole; con i capelli di un biondo scialbo, la barba rada, il volto ricoperto di macchie rosse, assomigliava a un bambino malato e viziato.
Un po’ prima delle dieci, la vecchia signora si svegliava. La bottega veniva chiusa, e tutta la famiglia saliva per andare a dormire. Il gatto tigrato seguiva i suoi padroni facendo le fusa, strofinando la testa contro ogni sbarra della ringhiera.
Al piano di sopra, l’alloggio era composto da tre stanze. La scala portava a una sala da pranzo che serviva anche da salotto. A sinistra, in una nicchia, c’era una stufa di maiolica; di fronte c’era una credenza; lungo i muri erano allineate delle sedie e un ampio tavolo rotondo occupava il centro della stanza. In fondo, dietro un tramezzo a vetri, c’era una cucina buia. A ciascun lato della camera da pranzo, c’era una camera da letto.
La vecchia signora, dopo aver abbracciato il figlio e la nuora, si ritirava in camera sua. Il gatto si addormentava su una sedia della cucina. Gli sposi entravano nella loro stanza. Questa camera aveva una seconda porta che dava su una scala che sbucava nel passaggio attraverso un corridoio buio e stretto.
Il marito, che tremava sempre di febbre, si metteva a letto; nel frattempo, la giovane apriva la finestra per chiudere le persiane. Rimaneva lì qualche minuto, davanti al grande muro nero, rozzamente intonacato, che sale e si allarga sopra la galleria. Lasciava vagare su quel muro uno sguardo distratto, poi, in silenzio, andava anche lei a letto con sdegnosa indifferenza.

2

Madame Raquin era una vecchia merciaia di Vernon. Per circa venticinque anni aveva vissuto in una piccola bottega di quella città. Qualche anno dopo la morte di suo marito, vinta dalla stanchezza, vendette il negozio. I suoi risparmi, uniti alla somma ricavata dalla vendita, le misero in mano un capitale di quarantamila franchi che, investito, le fruttò duemila franchi di rendita. Quella somma sarebbe stata più che sufficiente. Conduceva una vita da reclusa, ignorando le gioie e le pene strazianti di questo mondo; si era costruita un’esistenza di pace e di tranquilla felicità.
Per quattrocento franchi, prese in affitto una casetta con un giardino che scendeva fino in riva alla Senna. Era una casa isolata e sobria che sapeva un po’ di chiostro; uno stretto sentiero conduceva a questo ritiro situato in mezzo a vasti prati; le finestre dell’abitazione davano sul fiume e sui colli disabitati dell’altra sponda. La buona donna, che aveva passato la cinquantina, si chiuse in questa profonda solitudine, assaporandovi una gioia serena, assieme al figlio Camille e alla nipote Thérèse.
Camille aveva allora vent’anni. Sua madre lo viziava ancora come un bambino. Lo adorava per averlo strappato alla morte durante una lunga infanzia di sofferenze. Il bambino ebbe una dopo l’altra tutte le febbri, tutte le malattie immaginabili. Madame Raquin intraprese una lotta di quindici anni contro quei terribili mali che venivano in fila per strapparle il figlio. Li sconfisse tutti con la sua pazienza, le sue cure, la sua adorazione.
Camille, diventato adulto, scampato alla morte, rimase tutto tremante per le ripetute scosse che gli avevano straziato la carne. La sua crescita si era bloccata, ed era rimasto piccolo e mingherlino. Le sue gracili membra avevano movimenti lenti e fiacchi. Sua madre lo amava ancora di più per questa debolezza che lo piegava. Guardava il suo faccino pallido con una tenerezza trionfante, ricordando di avergli dato la vita più di dieci volte.
Durante le rare tregue che gli concedevano le malattie, il bambino seguì i corsi di una scuola commerciale di Vernon. Lì imparò l’ortografia e l’aritmetica. Il suo sapere però si limitava alle quattro operazioni e a una conoscenza molto superficiale della grammatica. Più tardi, prese lezioni di calligrafia e di contabilità. Madame Raquin tremava quando le consigliavano di mandare il figlio in collegio; sapeva che lontano da lei sarebbe morto, diceva che i libri l’avrebbero ucciso. Camille rimase ignorante, e l’ignoranza mise in lui come una debolezza in più.
A diciotto anni, senza un’occupazione, annoiato a morte dalla dolcezza di cui lo circondava la madre, entrò come commesso presso un negoziante di stoffe. Guadagnava sessanta franchi al mese. Aveva un animo inquieto che gli rendeva insopportabile l’ozio. Si sentiva più tranquillo, stava meglio di salute, in questa fatica da bestia, in questo lavoro da impiegato che lo teneva chino tutto il giorno su fatture, su lunghissime addizioni di cui compitava pazientemente ogni cifra. La sera, sfiancato, con la testa vuota, assaporava un godimento infinito nell’ebetismo che lo coglieva. Dovette litigare con la madre per andare a lavorare dal negoziante di stoffe; lei voleva tenerselo sempre vicino, nella bambagia, lontano dalle disavventure della vita. Ma il giovane parlò da padrone; reclamò il lavoro come i bambini reclamano i giocattoli, non per spirito di dovere, ma per istinto, per esigenza naturale. La tenerezza e la devozione di sua madre ne avevano fatto un feroce egoista; credeva di amare chi lo compativa e lo accarezzava; ma, in realtà, viveva in disparte, chiuso in sé stesso, intento solo al proprio benessere, e ad accrescere in tutti i modi possibili i suoi piaceri. Quando il tenero affetto di Madame Raquin cominciò a nausearlo, si gettò con gusto in un lavoro idiota che lo salvava da tisane e pozioni. Poi, la sera, al ritorno dal lavoro, correva in riva alla Senna con sua cugina Thérèse.
Thérèse allora aveva quasi diciotto anni. Un giorno, sedici anni prima, quando Madame Raquin faceva ancora la merciaia, suo fratello, il capitano Degans, tornò portando tra le braccia una bambina. Arrivava dall’Algeria.
«Ecco la tua nipotina», le disse con un sorriso. «Sua madre è morta... Non so che farmene. Te la regalo.»
La merciaia prese la bambina, le sorrise, le baciò le guance rosee. Degans restò otto giorni a Vernon. Sua sorella non gli fece molte domande sulla bambina che le aveva donato. Seppe vagamente che la piccola era nata a Orano e che sua madre era una donna indigena di grande bellezza. Il capitano le consegnò, un’ora prima della partenza, un atto di nascita in cui Thérèse, da lui riconosciuta, portava il suo nome. Partì, e non lo si rivide più; qualche anno dopo, si fece ammazzare in Africa.
Thérèse crebbe, dormendo nello stesso letto di Camille e spartendo con lui le dolci tenerezze della zia. Aveva una salute di ferro, ma fu curata come fosse stata una bambina gracile, condividendo le medicine del cugino, costretta a stare nell’aria calda della stanza occupata dal malatino. Per ore, restava accovacciata davanti al fuoco, pensierosa, fissando le fiamme in faccia, senza battere ciglio. Quella vita forzata da convalescente la ripiegò su se stessa; prese l’abitudine di parlare sottovoce, di camminare senza far rumore, di restarsene silenziosa e immobile su una sedia, con gli occhi spalancati e persi nel vuoto. Ma, quando sollevava un braccio, quando muoveva un piede, si avvertiva in lei un’agilità felina, muscoli tesi e possenti, un’energia, una passione che dormivano nella sua carne assopita. Un giorno, suo cugino era caduto, vinto dalla debolezza; lei lo aveva sollevato e trasportato con un gesto brusco, e questo sforzo aveva fatto comparire sulla sua faccia delle ampie chiazze infuocate. La vita claustrale che conduceva, il regime debilitante al quale era sottoposta non riuscirono a indebolire il suo corpo magro e forte; soltanto la faccia assunse una tinta pallida, leggermente giallastra, tanto che all’ombra sembrava quasi brutta. Qualche volta andava alla finestra, contemplava le case di fronte sulle quali il sole spargeva una coltre dorata.
Quando Madame Raquin vendette il suo negozio e si ritirò nella casetta in riva all’acqua, Thérèse ebbe dei segreti fremiti di gioia. Sua zia le aveva ripetuto così spesso: «Non far rumore, sta’ tranquilla», che teneva accuratamente nascosto, in fondo all’animo, tutto l’ardore impetuoso della sua natura. Possedeva un gran sangue freddo, una calma apparente che nascondeva slanci terribili. Si credeva sempre in camera del cugino, accanto a un bambino moribondo; aveva i movimenti moderati, i silenzi, la placidità, le parole sussurrate da vecchia. Quando vide il giardino, il fiume bianco, le grandi colline verdi che salivano all’orizzonte, le prese una voglia selvaggia di correre e di gridare; sentì il suo cuore battere a grandi colpi nel petto, ma non un muscolo del suo volto si mosse, e si limitò a sorridere quando la zia le domandò se le piacesse quella nuova casa.
Allora la sua vita migliorò. Conservò la sua agile andatura, la sua fisionomia calma e indifferente, rimase la bambina allevata nel letto di un malato; ma interiormente visse un’esistenza ardente e impetuosa. Quand’era sola, sull’erba, in riva al fiume, si sdraiava bocconi come un animale, gli occhi neri e spalancati, il corpo contratto, pronto a balzare. E restava lì, per ore, senza pensare a niente, morsa dal sole, felice di affondare le dita nella terra. Faceva sogni folli; guardava con sfida il fiume che brontolava, immaginava che l’acqua stesse per scagliarsi contro di lei attaccandola; allora si irrigidiva, si preparava alla difesa, si domandava con ira come avrebbe potuto sconfiggere le onde.
Di sera, Thérèse, calma e silenziosa, cuciva accanto alla zia; il suo viso sembrava sonnecchiare nel chiarore che filtrava debolmente dal paralume della lampada. Camille, sprofondato in una poltrona, pensava ai suoi conti. Solo qualche parola, detta sottovoce, turbava per un attimo la pace di quella casa immersa nel sonno.
Madame Raquin osservava i suoi bambini con serena bontà. Aveva deciso di farli sposare. Aveva sempre trattato suo figlio da moribondo, tremava al pensiero che un giorno sarebbe morta e l’avrebbe lasciato solo e sofferente. Allora contava su Thérèse, e diceva a se stessa che la giovane avrebbe vigilato attentamente su Camille. La nipote, con la sua aria tranquilla, la sua muta devozione, le ispirava una fiducia illimitata. L’aveva vista all’opera e voleva darla al figlio come angelo custode. Il loro matrimonio era una conclusione prevista, già stabilita.
I ragazzi sapevano da molto tempo che un giorno si sarebbero sposati. Erano cresciuti con questo pensiero, diventato così familiare e naturale. Si parlava di questa unione in famiglia come di una cosa necessaria, fatale. Madame Raquin aveva detto: «Aspetteremo che Thérèse abbia ventun anni». E attendevano pazientemente, senza agitazione, senza rossori.
Camille, a cui la malattia aveva impoverito il sangue, ignorava gli aspri desideri dell’adolescenza. Nei riguardi di sua cugina era rimasto bambino, la baciava come baciava la madre, per abitudine, senza perdere nulla della sua egoistica tranquillità. Vedeva in lei una compagna compiacente che gli impediva di annoiarsi troppo, e che, all’occasione, gli preparava una tisana. Quando giocava con lei, e la teneva tra le braccia, gli sembrava di stringere un ragazzo, la sua carne non aveva il minimo fremito. E mai gli passò per la mente, in quei momenti, di baciare le calde labbra di Thérèse, che si dibatteva ridendo nervosamente.
Anche la ragazza sembrava restare fredda e indifferente. Talvolta soffermava i grandi occhi su Camille e lo guardava fisso per diversi minuti con estrema calma. Solo le sue labbra avevano allora impercettibili fremiti. Ma non si poteva leggere nulla su quel viso fermo che un’implacabile volontà manteneva sempre dolce e sollecito. Quando parlavano del suo matrimonio, Thérèse si faceva seria, limitandosi ad annuire a tutto ciò che diceva Madame Raquin. Camille si addormentava.
Nelle sere d’estate i due giovani scappavano in riva al fiume. Camille s...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. di Émile Zola
  3. Thérèse Raquin
  4. Introduzione di Katia Lysy
  5. Cronologia
  6. Bibliografia
  7. THÉRÈSE RAQUIN
  8. Prefazione alla seconda edizione
  9. 1
  10. 2
  11. 3
  12. 4
  13. 5
  14. 6
  15. 7
  16. 8
  17. 9
  18. 10
  19. 11
  20. 12
  21. 13
  22. 14
  23. 15
  24. 16
  25. 17
  26. 18
  27. 19
  28. 20
  29. 21
  30. 22
  31. 23
  32. 24
  33. 25
  34. 26
  35. 27
  36. 28
  37. 29
  38. 30
  39. 31
  40. 32
  41. Postfazione di Guy de Maupassant
  42. Copyright