Solus ad solam
  1. 190 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Informazioni su questo libro

Notizia sul testo a cura di Giorgio Zanetti.
Cronologia della vita di Gabriele d'Annunzio a cura di Annamaria Andreoli.Nell'ebook si ripropone il testo di Solus ad solam raccolto nelle Prose di ricerca (a cura di Annamaria Andreoli e Giorgio Zanetti, "I Meridiani", Mondadori, Milano 2005, 2 tomi), titolo sotto il quale Gabriele d'Annunzio ha raccolto un insieme molto eterogeneo di opere di carattere autobiografico e saggistico per farne il proprio testamento spirituale. Gli apparati informativi riproducono quelli pubblicati nell'edizione dei "Meridiani".Ultimo e più totale atto di fede dannunziano nella quête amorosa, Solus ad solam è il diario della intensa relazione che legò d'Annunzio a Giuseppina Mancini, conosciuta a Milano mentre Alessandra Rudinì, l'amante en titre insediata alla Capponcina era reduce da un delicato intervento chirurgico. La relazione adulterina con d'Annunzio - la Mancini è unita da un matrimonio infelice con il conte Lorenzo, produttore di vini e poeta dilettantesco - condurrà la donna a una fortissima crisi psichica che segnerà la fine dell'amore con il poeta. Il volume uscì sotto gli auspici della Fondazione del Vittoriale presso Sansoni a un anno dalla morte del poeta e riscosse vasto successo. In appendice figurava una scelta di lettere dannunziane alla Mancini e allo psichiatra che l'ebbe in cura.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2013
Print ISBN
9788804523703
eBook ISBN
9788852033698
images
8 settembre 1908. Natività di
Nostra Donna. – Martedì.
SCRIVO per veder chiaro in me e intorno a me. Sembra che il sole si sia oscurato e che la mia notte insonne continui senza fine. Accendo una lampada perché io vegga, perché i tuoi cari occhi veggano quando si risveglieranno. Ti rimanga almeno la testimonianza del mio amore vigilante e fedele. Se tu sei senza riposo, io sono senza riposo. Non ho dato tregua neppure per un attimo al mio dolore irrequieto. Respiro la tua follìa: la mia anima è dilatata nel terrore come i tuoi occhi; guarda il buio, teme i fantasmi e le macchie.
Dianzi il dottore con brevi parole crude ha creato dentro di me il tuo viso nuovo, il tuo viso consunto e convulso, pallido e livido, e le tue labbra disseccate e le tue gengive sanguinanti.
Ah, perché le mie braccia non furono per te una cintura di ferro e di diamante, l’altra sera, la sera di sabato, quando ti assopisti; e perché non si chiusero, e perché non ti ritennero, e perché non ti nascosero e ti difesero contro l’agguato della sorte – che si preparava?
Te ne ricordi? No, tu non ti ricordi più di nessuna cosa dolce. Respiri nell’aridità.
Venisti verso sera. Sembravi meno agitata. Il tuo piccolo viso dimagrito doleva a me, nel mio petto, come una piaga profonda. Sentivo l’amore ardere e spegnersi in te, a volta a volta, riardere e rispegnersi; come una fiamma sotto un vento nemico. Ti spiavo dissimulando l’angoscia. Eri sospettosa. Talvolta guardavi intorno come stupefatta. Nulla intorno era mutato. Avevo ornato la casa di fiori, se bene già il rombo degli eventi oscuri empisse le stanze voluttuose. Avevo obbedito alla mia superstizione d’amante… Ah, non te ne ricorderai quando sarai risvegliata?
Non un sol giorno, in quasi due anni di passione e di piacere, non un solo dei nostri giorni fu senza fiori e senza eleganza e senza bellezza. Quando arrivasti per la prima volta laggiù, nel rifugio che fu chiamato il piccolo giardino, le rose e le violette facevano un profumo ch’era misurato dal tuo pallore e dal tuo languore. Quando arrivasti per l’ultima volta qui, nel rifugio che fu chiamato il chiostro verde, le rose e le tuberose dicevano quel che tu sapevi: la potenza intatta del mio amore e del mio desiderio, la persistenza del mio sogno e della mia poesia.
Perché non cacciasti da te i rimorsi vani, i rimpianti tardivi, le paure puerili, e non ti abbandonasti interamente alla passione cieca e trionfale che sola poteva salvarti trascinandoti di là da tutte le cose piccole e vili?
Com’eri stanca! Mangiavi interrottamente, qualche volta con una voracità subitanea, qualche volta con una ripugnanza penosa. Eri estenuata e smorta. Avevi su la fronte una scalfittura rossa; un’altra scalfittura sul collo, sotto l’orecchio destro; il naso affilato, la bocca arsiccia, il mento più esile che mai. Ti guardavo, non so perché, con un’attenzione infaticabile.
Dicevi, di tratto in tratto: «Stasera bisogna che vada via presto. Bisogna che rientri presto a casa. Potrei rimaner chiusa fuori. Oggi è sabato. Non avrei dovuto uscire. Troverò chiusa la porta. Rimarrò su la strada. Non mi lasceranno più rientrare. Certo mi spiano. Certo ora sanno che io son qui. Non farò più in tempo. Mi lasceranno fuori…»
Le tue parole divenivano a poco a poco incoerenti. La paura ti dissolveva i pensieri. Cercavo di placare la tua inquietudine irragionevole; ti pregavo di restare. Morivo di tenerezza e d’angoscia guardando il tuo piccolo viso stanco, le tue palpebre gonfie d’insonnio.
E ti dicevo: «Rimani, rimani! Riposati accanto a me. Non te n’andare. Io ti veglierò. Io ti proteggerò. Ti pentirai di tutto fuorché d’esser venuta a me, liberamente, fieramente. Ti amo. Non ho nessun pensiero che non sia tuo; non ho nel sangue nessun desiderio che non sia per te. Lo sai. Non vedo nella mia vita altra compagna. Non vedo altra gioia. Te l’ho già detto più d’una volta, in questi giorni di tempesta: l’aiuto non ti verrà se non dal tuo amico. Rimani. Riposati. Non temere di nulla. Dormi stanotte sul mio cuore».
Pareva che tu piegassi, tanto eri stanca. Avevi un bisogno disperato di chiudere gli occhi e di obliare tutto nel sonno.
Poi ti scotevi e dicevi: «No, bisogna che io vada, bisogna che io rientri presto questa sera. Ho fatto male a uscire. Chiuderanno la porta. Mi lasceranno su la strada».
E io dicevo: «Che importa? Omai la tua casa è quella dove io vivo, è quella dove il mio amore abita. Vieni. Distenditi. Riposati».
Ti trassi nella stanza verde che dà sul giardino murato, in quella stanza dove ti spogliavi e dove ti rivestivi nei grandi giorni del piacere. Cadesti su i cuscini. Ti presi fra le mie braccia. T’addormentasti sotto i miei baci leggeri. Fino alla morte vedrò quel tuo viso trascolorato, sentirò nel fondo dell’anima quella dolcezza del tuo sonno che interrompeva un travaglio così crudele!
Ti risvegliasti dopo alcuni minuti, ti sollevasti, ripetesti ostinatamente: «Stasera bisogna ch’io rientri».
Pregai, supplicai; ti ripresi fra le mie braccia, ti riadagiai sul mio petto. Il sonno ti riavvolse. Avrei voluto esprimere da tutto il mio essere un potere narcotico perché tu rimanessi profondata nel sonno fino al mattino. Speravo che la mia volontà divenisse magnetica e ti vincesse. Sentivo la forza di rimanere immobile per tutta la notte a sostenerti e a vegliarti. Nessun vóto mai – te lo giuro – fu più ardente di quel vóto pel tuo sonno.
Ahimè, ti risvegliasti, ti riscotesti, ti risollevasti. Ripetesti: «Bisogna che io vada. È tardi?»
Non valsero le supplicazioni, non valsero le preghiere carezzevoli né le parole dure. Il pànico ti possedeva. Omai non avevi dinanzi a te se non la minaccia della porta chiusa, del lastrico brutale. L’amore t’aveva abbandonata. Soltanto l’amore poteva salvarti.
E l’ira gonfiava il mio dolore, dinanzi alla tua cecità.
Come udisti fermarsi su la via la vettura chiamata dal servo, fosti ancóra presa dall’esitazione, ondeggiasti ancóra.
«Rimango?»
Omai non v’era pericolo alcuno nel rimanere. Io era certo che omai nessun altro atto di ostilità e di sorpresa fosse da temere, perché omai inutile o superfluo.
«Rimango? No, vado. È meglio che vada».
L’eterno ondeggiamento ti teneva su la soglia, mentre l’uscio era già aperto.
Io non potevo più parlare, non avevo più alcuna potenza. Sentivo che non v’era più nulla di saldo in te. Sentivo che l’amore – in te – non era il più forte. Sapevo che, se ti avessi trattenuta, se ti avessi costretta, tu mi avresti rinfacciata la costrizione, ti saresti rivoltata contro di me.
Non mi avevi già rinnegato? Nella mattina di Compiobbi non m’avevi già detto che l’amore non era in te abbastanza forte per passar sopra tutto? Non m’avevi accertato, con mille segni, che il rammarico delle cose perdute sopraffaceva nel tuo cuore la fede e la tenerezza pel tuo amico? La mia porta aperta – e di che grande animo! – non t’avrebbe consolata del trovar chiusa la porta familiare di là da cui erano le cose consacrate dalla legge, dal costume, dal pregiudizio e dalla consuetudine.
Allora il soffio dello spavento passò per la porta aperta dietro di te, mentre il tuo gesto disperato empiva il vano. Una tristezza di agonia strinse tutte le fibre della mia vita e le torse. Il presentimento rese lugubre la scala deserta. Tu ti volgesti, passasti la soglia, seguisti il servo che ti conduceva alla vettura.
Attimo d’ansia mortale! La porta era aperta tuttavia, e per l’andito palpitavano le ombre spaventose agitate dalla fiammella accesa in cima alla scala.
Attesa d’un attimo, lunga come un’esistenza d’affanni! Sperai che tu tornassi indietro, che tu ti pentissi, che tu finalmente gittassi nella notte il dado della tua sorte. Ahimè, ahimè, udii il passo del cavallo, il rumore della vettura che si allontanava… Tutto era perduto?
Uscii nell’andito, ma non gridai. Ero scorato. Sentivo, con una certezza terribile, che l’amore in te non poteva più rispondermi, che ogni sforzo era vano.
La scala era lugubre, silenziosa, preparata a ricevere un qualche evento atrocissimo. Ebbi un brivido lungo. Non so quanto tempo passasse.
La chiamata del telefono mi riscosse. Ancóra la tua voce, ancóra la tua perplessità, ancóra la tua anima ondeggiante e straziata.
«Vuoi che torni? Vuoi che venga?»
Eri rientrata nella tua casa dove nulla accadeva, dove tutto era immobile. Eri sola. Non uscisti, non venisti. Sapevi che, se tu fossi venuta, se tu avessi detta una parola, io non sarei partito la mattina per la mia corsa. Non parlasti più. Rimanesti quasi tutta la notte sopra una sedia, esitante, soffrendo di non esser venuta e incapace di vincere la paura folle.
Tutta la notte anch’io vegliai in un cruccio immobile, su quel gran letto verde che sa i nostri delirii e i nostri sonni, voluttuosi come gli amplessi, e i nostri risvegli balzanti di desiderio sempre novello.
Chiedevo a me stesso: «Perché?» Ripetevo l’interrogazione senza risposta, già tante volte ripetuta dinanzi alle tue ingiustizie feroci e ai tuoi mutamenti incomprensibili: «Perché? Perché?»
Perché eravamo tanto infelici, tanto miserabili, tanto disperati, mentre avremmo potuto riposarci su lo stesso guanciale stretti dal vincolo che ci era parso eterno? Nulla per noi era perduto, se l’amore era intatto.
Intatto era il mio, anzi divenuto eroico, afforzato dalle ultime prove, escito dalla notte di Giovi più ardito e più giovine, pronto a tutti i rischi, non d’altro desideroso se non di dare, di dare, di dare sempre.
Non potevo né chiudere gli occhi al sonno né chiuderli alla verità orribile. La vedevo disegnata nettamente.
Nella mattina di Compiobbi tu ti disperavi di non poter recuperare la lettera lasciata per tuo marito prima di partire dai Palazzetti. In quella lettera, scritta nello sgomento, tu gli dicevi: «Mentre sto per abbandonare tutte le cose che furono un tempo la mia vita e il mio bene, sento che non ho un grande amore nel cuore. Sento, nello strappo doloroso, che il mio cuore si rivolta contro colui che è causa di questa ruina».
Forse gli dicevi anche, più crudamente (e mi parve di udirlo nella tua confessione confusa) forse gli dicevi: «Sento, ora sento che lo odio».
Mi rinnegavi, rinnegavi il tuo amore!
Nella mattina di Compiobbi la rinnegazione ti parve infame; e tu tentasti di toglierle ogni valore affermando che l’anima tua era rimasta estranea all’atto. Laggiù dinanzi a quella piccola stazione triste, sotto il sole, in mezzo alla polvere, sotto gli occhi della gente assembrata, mi gridasti: «Ti amo, ti amo, più che mai e assai più, assai più, d’un amore immenso!»
Come fui dolce per te, come fui fraterno!
E tu gridavi: «Meglio finire, meglio finire! Finire!»
Dissimulavo l’angoscia nel consolarti; perché sentivo che il tuo amore era crollato e che tu non avevi mentito nella lettera implorante ma mentivi in quel punto, a te stessa e al tuo amico, forse inconsapevolmente.
Infatti, nella stanza di quella casa sconosciuta, quando l’orgasmo cadde, quando fosti riconfortata, parlasti un altro linguaggio.
La verità era dunque fissa nella notte, davanti ai miei occhi dolenti. E la pena divenne tanto intollerabile che mi levai come vi...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Nota all’edizione
  4. SOLUS AD SOLAM
  5. 8 settembre 1908, martedì – 5 ottobre, lunedì
  6. Dalle lettere a Giusini – I
  7. Dalle lettere al dottor Nesti
  8. Dalle lettere a Giusini – II
  9. Tavola delle sigle e delle abbreviazioni
  10. Notizia sul testo
  11. Cronologia
  12. Le Prose di ricerca di Gabriele d’Annunzio disponibili in ebook
  13. Copyright