
eBook - ePub
Ritorno a casa
- 896 pagine
- Italian
- ePUB (disponibile sull'app)
- Disponibile su iOS e Android
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Ritorno a casa
Informazioni su questo libro
Judith Dumbar è solo una ragazza sensibile e innocente uscita da poco dalla scuola. Le angosce e le sofferenze della Seconda guerra mondiale e un drammatico destino che sconvolgerà la sua famiglia la costringeranno a divenire rapidamente una donna, rivelandole però tutta la forza nascosta nella sua personalità e la pienezza di una grande passione.
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Informazioni
Print ISBN
9788804448600eBook ISBN
9788852035814Parte seconda
1940
Alla fine di marzo, dopo l’inverno più freddo che molti ricordassero, il ghiaccio e la neve sembravano infine scomparsi, e ne restavano solo poche tracce sul Dartmoor, in fossati sempre all’ombra o contro i muri più esposti. Con l’allungarsi dei giorni, il caldo vento dell’ovest portava un po’ di tepore nell’aria, gli alberi mettevano i germogli e gli uccelli tornavano nei loro habitat estivi; le primule costellavano le alte siepi del Devon, e nel giardino di Upper Bickley le prime giunchiglie oscillavano alla brezza.
In Cornovaglia, a Nancherrow, la casa era piena di elegantissimi sfollati da Londra che abbandonavano la città e arrivavano per Pasqua. Tommy Mortimer rubò una settimana al suo lavoro per il servizio civile e Jane Pearson portò i due bambini per tutto il mese. Il marito di Jane, Alistair, un uomo solido e pieno di buona volontà, era nell’esercito, in Francia, e la sua bambinaia era tornata a fare l’infermiera nel reparto chirurgico di un ospedale militare nel Galles del Sud. Privata della bambinaia, Jane aveva coraggiosamente intrapreso il viaggio in treno fino a Penzance senza nessuno che potesse aiutarla a distrarre e tenere buoni i figli, e, appena arrivata, li aveva scaricati a Mary Millyway, mentre lei si raggomitolava sul divano, beveva gin e aranciata, e chiacchierava con Athena. Viveva ancora nella casa di Lincoln Street e ci stava così bene che non aveva alcuna intenzione di lasciare Londra. Non si era mai divertita tanto in vita sua, a uscire in città, pranzando al Ritz o al Berkeley con eleganti ufficiali d’aviazione o giovani militari della guardia.
«E Roddy e Camilla?» chiese Athena, come si fosse trattato di cagnolini, quasi si aspettasse di sentirsi rispondere che Jane molto semplicemente li affidava a un canile.
«Oh, rimane con loro la cameriera» rispose con indifferenza Jane «o li lascio con la domestica di mia madre.» E poi subito: «Ma devo dirti, cara...» e si lanciava nella descrizione di un altro magnifico incontro.
Tutti quegli ospiti occasionali portavano con loro le tessere per il burro, lo zucchero, la pancetta, il lardo e la carne, mentre Tommy forniva inconsuete leccornie anteguerra di Fortnum & Mason: aspic di fagiano, noci ricoperte di cioccolato, tè speziati, scatolette di caviale.
La signora Nettlebed, guardando quei doni che venivano posati sul tavolo di cucina, osservò che era un vero peccato che il signor Mortimer non riuscisse a mettere le mani su un buon prosciutto.
La servitù a Nancherrow era ormai molto ridotta. Nesta e Janet erano partite tutte e due, eccitate all’idea di indossare un’uniforme e fare la loro parte nel lavoro bellico in una fabbrica di munizioni. Pearson e l’aiutogiardiniere erano stati richiamati, e per sostituirli si era trovato soltanto Matty Pomeroy, un pensionato di Rosemullion che veniva tutte le mattine su una bicicletta cigolante e lavorava al ritmo di una lumaca.
Hetty, troppo giovane per qualsiasi lavoro bellico e rimasta quindi come sguattera, rompeva i piatti e faceva disperare la signora Nettlebed, ma adesso tutti gli ospiti dovevano darsi da fare, pensare da soli alle tende per l’oscuramento, rifarsi il letto e offrirsi di aiutare a lavare i piatti o sistemare la legna. I pasti venivano ancora serviti formalmente nella sala da pranzo, ma il salotto era chiuso, e l’argenteria migliore era stata lucidata, riposta nelle custodie e messa accuratamente da parte. Nettlebed, non dovendo più lucidare l’argenteria, sua occupazione principale ai vecchi tempi, si dedicava sempre più al lavoro esterno. Aveva cominciato in sordina, abbandonando la cucina per accertarsi che il vecchio Matty non se ne stesse a far niente, rubando una decina di minuti al lavoro per fumare la pipa; poi si era offerto di raccogliere le patate per la signora Nettlebed o di tagliare un cavolfiore. In breve tempo si era assunto la responsabilità dell’orto, programmava le colture e sorvegliava Matty Pomeroy, con la competenza e l’efficienza che gli erano proprie. A Penzance si era comperato un paio di stivali di gomma per poter scavare e piantare fagioli. A poco a poco il suo viso smorto e solenne diventò abbronzato e gli impeccabili pantaloni cominciarono ad andargli un po’ larghi. Athena dichiarò che in fondo al cuore Nettlebed era un figlio della campagna e che per la prima volta in vita sua aveva scoperto la sua vera vocazione, e Diana, divertita, decise che un maggiordomo abbronzato poteva essere piuttosto elegante, purché riuscisse a togliersi la terra dalle unghie prima di servire il brodo.
Durante le vacanze pasquali di quell’anno, la notte dell’8 aprile, Lavinia Boscawen morì.
Morì nel suo letto, nella sua stanza, nella sua casa. Zia Lavinia non si era mai ripresa completamente dalla malattia che aveva spaventato tanto la famiglia, ma aveva superato serenamente l’inverno, alzandosi ogni giorno e lavorando a maglia calze color kaki. Non era stata male e non aveva avuto dolori di nessun tipo. Una notte, semplicemente, era andata a letto, si era addormentata come sempre, e non si era più svegliata.
La trovò Isobel. La vecchia Isobel, che arrancava su per le scale portandole il vassoio del tè (Earl Grey, con una fetta di limone). Bussò alla porta, entrò per svegliare la padrona, posò il vassoio sul comodino e andò a tirare le tende.
«Bella mattinata» osservò, ma nessuno rispose.
Si voltò. «Bella mattinata...» ripeté, ma sapeva, mentre ripeteva quelle parole, che non ci sarebbe stata mai più una risposta. Lavinia Boscawen era sdraiata quietamente nel letto, la testa sul cuscino, nell’atteggiamento in cui si era addormentata. Aveva gli occhi chiusi, e il viso sereno sembrava molto più giovane. Isobel, vecchia e abituata alla morte, prese uno specchio dalla toilette e lo avvicinò alle labbra di Lavinia: nessun movimento, nessuna traccia di respiro. Isobel coprì il viso della signora Boscawen con il lenzuolo ricamato. Poi richiuse le tende e scese a pianterreno. Con una certa riluttanza, perché aveva sempre odiato quell’orribile strumento, alzò la cornetta del telefono e chiese che le passassero Nancherrow.
Nettlebed, che apparecchiava per la colazione nel soggiorno, sentì il telefono. Guardò l’orologio, vide che mancavano venti minuti alle otto, sistemò bene una forchetta, poi andò a rispondere.
«Signor Nettlebed?»
«Sì, sono io.»
«Sono Isobel. Dalla casa della signora Boscawen. La signora Boscawen è morta. Nel sonno. L’ho trovata questa mattina. C’è il colonnello?»
«Non è ancora sceso, Isobel. È certa che sia morta?»
«Oh, sì, ne sono certa. Non c’è più respiro. È serena come una bambina. Cara signora...»
«È sola, Isobel?»
«Certo che sono sola. Chi dovrebbe esserci?»
«Sta bene?»
«Devo parlare al colonnello.»
«Lo chiamo.»
«Aspetto al telefono.»
«No, non aspetti. Richiamerà lui. Rimanga soltanto vicino al telefono, per essere sicura di sentirlo suonare.»
«Ci sento benissimo.»
«È sicura di stare bene?»
Isobel non rispose. Disse soltanto, con la voce burbera: «Lei badi a dire al colonnello che mi richiami subito» e riattaccò.
Per qualche minuto Nettlebed rimase immobile, fissando il telefono. La signora Boscawen morta. Poi disse a voce alta: «Ma tu guarda...!» e uscì dalla stanza per salire solennemente al piano di sopra.
Con un asciugamano attorno al collo, in vestaglia, pantofole e pigiama, il colonnello si stava radendo. Si era già raso una guancia, ma l’altra era ancora bianca di sapone, e se ne stava immobile, in piedi sul tappetino del bagno, con il rasoio in mano, ad ascoltare le notizie della radio che aveva appoggiato sul copritazza in mogano del gabinetto. Mentre si avvicinava, Nettlebed sentiva la voce grave e pacata dell’annunciatore, ma, quando si schiarì la voce e bussò alla porta aperta del bagno, il colonnello, voltandosi a guardarlo, gli fece cenno di tacere, e i due uomini ascoltarono insieme il giornale radio. Notizie preoccupanti. Nelle prime ore del mattino, truppe tedesche erano entrate in Danimarca e Norvegia. Navi da guerra avevano occupato il porto di Copenhagen, altri porti e isole erano stati occupati e ormai i canali dello Skagerrak e del Kattegat, di vitale importanza, erano sotto il controllo nemico. In Norvegia, la Marina tedesca aveva sbarcato truppe in tutti i porti, fino a Norvic. Un cacciatorpediniere inglese era stato affondato...
Il colonnello si chinò e spense la radio. Poi riprese a radersi. Il suo sguardo incontrò lo sguardo di Nettlebed nello specchio.
«Adesso» osservò «la guerra è davvero cominciata.»
«Sì, signore, sembra di sì.»
«Sempre l’elemento sorpresa. Ma perché poi dovremmo essere sorpresi?»
«Non saprei, signore.» Nettlebed esitava a parlare in quel momento. Ma doveva farlo. «Mi dispiace disturbarla, signore, ma mi duole dire che ho altre brutte notizie da darle.» Si sentì il fruscio della lama sulla pelle, che liberava dal sapone un tratto di guancia. «Ha appena telefonato Isobel, signore, dalla casa della signora Boscawen. La signora Boscawen è morta. La notte scorsa, nel sonno. L’ha trovata Isobel questa mattina e ha subito telefonato. Le ho detto che lei avrebbe richiamato, signore.»
Dopo una lunga pausa, il colonnello si voltò, e aveva sul viso un’espressione così triste e sperduta che Nettlebed si sentì un assassino. Rimasero ancora per un momento in silenzio, e Nettlebed non riusciva a trovare le parole per romperlo. Poi il colonnello scosse la testa. «È così difficile accettarlo, Nettlebed.»
«Mi dispiace molto, signore.»
«Quando ha telefonato Isobel?»
«Alle otto meno venti, signore.»
«Scendo tra cinque minuti.»
«Bene, signore.»
«Nettlebed... mi cerchi una cravatta nera, per favore.»
A Upper Bickley andò Judith a rispondere al telefono.
«Sono Athena, Judith.»
«Questa sì che è una sorpresa.»
«Mamma mi ha chiesto di chiamarti. Devo darti una notizia triste, ma non proprio triste in un certo senso. Triste soltanto per noi. Zia Lavinia è morta.»
Sconvolta, Judith non riusciva a rispondere. Cercò una sedia e crollò a sedere.
«Quando?» riuscì finalmente a chiedere.
«Lunedì notte. È andata a dormire e non si è più svegliata. Non stava male, non ha avuto nessun disturbo. Cerchiamo tutti di essere felici per lei, che ha avuto una morte così serena, e di non essere egoisti, ma sembra che sia finita un’intera epoca.»
Aveva un’aria tranquilla e molto matura, serenamente rassegnata. Judith ne era sorpresa. Prima, quando la zia Lavinia era stata tanto male da spaventare i familiari, Athena era scoppiata in un pianto isterico nell’apprenderlo ed era così sconvolta che Rupert aveva dovuto portarla in macchina direttamente dalle alture della Scozia alla Cornovaglia occidentale. Mentre adesso... Forse erano stati il matrimonio e la gravidanza a causare la metamorfosi, a rendere il comportamento di Athena così razionale e obiettivo. In ogni caso, Judith ne era felice. Sarebbe stato intollerabile ricevere quella notizia da qualcuno che si scioglieva in lacrime.
«Mi dispiace moltissimo» disse. «Era una donna davvero speciale, era così profondamente una di voi. Deve essere una perdita terribile.»
«Sì, è così infatti, sì.»
«Tua madre sta bene?»
«Sì. E anche Loveday. Papà ci ha fatto un discorsetto dicendo che non dobbiamo pensare a noi ma a zia Lavinia, che ora è in pace e non deve preoccuparsi di questa dannata guerra. Non è tutto orribile? Se non altro lei non deve più leggere i giornali e guardare tutte quelle terribili cartine di guerra.»
«Sei stata gentile a dirmelo.»
«Oh, Judith, ma certo che dovevamo dirtelo. Zia Lavinia pensava sempre a te come a una della famiglia. E mamma chiede se vuoi venire al funerale. Certo, non è una prospettiva allegra, ma per noi sarebbe importante se venissi.»
Judith esitò. «Quando sarà?»
«Martedì prossimo, il 16.»
«Ci sarete... ci sarete tutti?»
«Certo. Tutti quelli che si riunivano per la caccia. Ma non Edward, che è prigioniero del suo aeroporto e probabilmente aspetta di dare la caccia agli aeroplani tedeschi. Ha cercato di farsi dare una licenza per lutto familiare, ma data la situazione gli hanno detto di no. Però gli altri ci saranno tutti. Anche Jane Pearson, e credo che Tommy Mortimer voglia venire. È stupido; è stato qui pochi giorni, poi è tornato a Londra, e adesso deve tornare di nuovo. E questo, quando a ognuno di noi chiedo...
Indice dei contenuti
- Copertina
- di Rosamunde Pilcher
- Ritorno a casa
- Parte prima
- Parte seconda
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