1 NOTIZIA SUL TESTO
Composte tra il luglio 1887 e il maggio 1892 (benché il sottotitolo indichi 1887-1891), le Elegie romane furono pubblicate nel 1892 per le edizioni Zanichelli di Bologna, nella collezione ‘elzeviriana’ che aveva ospitato anche le Odi barbare del Carducci. A differenza delle altre raccolte giovanili, esse non subirono varianti nelle successive edizioni: una milanese nel 1905 stampata dalla Libreria Editrice Lombarda di Arnaldo de Mohr e Tom Antongini con testo originale in nero e a fronte la traduzione latina di Cesare De Titta in rosso (già nel 1897 i Fratelli Treves avevano stampato sette Elegie romane con versione latina di Annibale Tenneroni); l’edizione Treves 1911 che servirà da originale per le edizioni successive; l’Edizione Nazionale Opera Omnia del 1929, quella de «L’Oleandro» 1942, la mondadoriana Versi d’amore e di gloria, I del 1950. A partire dall’Edizione Nazionale le Elegie compaiono in trittico con Canto novo e Intermezzo, col pretitolo Femmine e Muse.
Il primo annunzio del volume risale al 7 agosto 1887, in una rubrica di Cronaca del «Fanfulla della Domenica» (lo si accostava al romanzo Barbara Doni, mai apparso). Dopo tale data precocissima che seguiva quella del 24 luglio, giorno in cui VILLA MEDICI veniva pubblicata sulla stessa rivista con il pretitolo Elegie romane, si ha conferma di un interesse del d’Annunzio per l’eponima opera goethiana in un sottotitolo apposto all’ode che nella Chimera apre il ciclo di DONNA FRANCESCA: «Rileggendo le Römische Elegien» (cfr. Don Chisciotte della Mancia, 22 gennaio 1888). A partire dal luglio 1889 il poeta avviò contatti per la pubblicazione presso Treves. Scrive infatti a Emilio il 29 luglio: «Ho quasi pronte le Elegie romane. Comporrebbero un volume non grande; ma bisognerebbe che il formato fosse più tosto ampio perché i distici sono tipograficamente ingombranti […]». Lo scambio epistolare fa poi registrare le date del 7 agosto («Le Elegie romane non sono ancora pronte»), del 15 settembre («Nella primavera del 1890, in marzo o in aprile, pubblicheremo le Elegie romane») e ancora dei primi di settembre 1890 (in una lettera promette le Elegie «pel 1° marzo 1891»). Rotti poi i rapporti col Treves in seguito alla mancata pubblicazione dell’Innocente, a partire dal febbraio 1892 il poeta iniziò il riordino dei materiali per Zanichelli, e finalmente l’8 giugno poteva scrivere a Barbara: «Ti mando un libro: le Elegie!» (l’explicit del volume reca 30 maggio 1892).
Considerate tradizionalmente una sorta di diario psicologico del passaggio dall’esaltazione alla stanchezza d’amore (dal Croce: «Se qualcosa di dolce si sente in lui, è stanchezza e tristezza di amore esaurito […] come specialmente nel Poema paradisiaco e nelle Elegie romane […]» al Borgese: «[…] stato di paralisi […] tenebrosa immobilità […]»; dal Gargiulo: «profonda depressione del cuore angosciato»; al Palmieri: «vero e proprio documento retrospettivo della humanitas, del carattere morale, che mette a nudo il poeta-uomo […]»; al Praz-Gerra: «Sintesi poetica della storia d’amore con Barbara») le Elegie romane consentono anche una diversa lettura.
Intanto la loro contemporaneità a liriche dell’Isottèo, del Poema paradisiaco, dell’Intermezzo (edizione Bideri ’94), e – inoltre a prose giornalistiche importanti (il cielo apparso sul «Mattino» di Napoli nel ’92), al Piacere, all’Invincibile (steso in massima parte tra il 1889 e il 1890) ne rende complessa la decodifica. Occorre infatti rimuovere l’interpretazione piuttosto rigida che ne fa un ideale punto di passaggio e congiungimento tra raffinatezza espressiva ed estenuata musicalità. Senza escludere che ciò talora si verifichi, non va dimenticato che ci si trova in presenza di stimolazioni diverse, tra loro contraddittorie, che favoriscono modalità sperimentali degne di interesse, anche se artisticamente discontinue.
Riduttivo, in genere, anche lo stemma degli ‘imprestiti’ e derivazioni culturali, che ripete i nomi di Carducci, Shelley, Flaubert, insistendo sul carattere ‘classico’ connaturato al metro elegiaco: da qui si dipartono, ad esempio, le interpretazioni in chiave pseudogoethiana (è il caso del De Michelis chiosatore dell’ultimo distico dell’elegia DAL MONTE PINCIO) di tematiche spesso nuove. Ci si riferisce principalmente alla linea schopenhaueriana delle letture dannunziane di quegli anni, cui solo il Tosi accenna con convincente determinazione: il rapporto paesaggio-stato d’animo non è tanto proiezione di scelte estetizzanti o classico rifugio contemplativo, quanto piuttosto «spiritualizzazione dell’antropomorfismo», scoperta del valore simbolico delle cose. Si tratta per ora di accenni, ma quanto ripetuti! – O tutte della mia gioia consce / eran le cose […]; L’anima sta: tranquilla rispecchia la vita e raccoglie / entro il suo vasto cerchio l’anima delle cose […]; […] nel Tutto l’anima disperdere […] –. È certo presente lo Schopenhauer del Mondo come volontà e come rappresentazione (a partire dal 1887; mediatore il Conti), ma anche l’Amiel del Journal intime, pubblicato in Francia nel 1883 e proposto dal Bourget nel 1884 (si vedano i Nouveaux Essais de psychologie contemporaine del 1886, certo noti al d’Annunzio). E sono ormai prossime la suggestione di Nietzsche (la Bestia elettiva è datata 25 settembre 1892) e l’assimilazione del simbolismo inglese e francese. Del resto il Manifesto di Moréas esce nell’86 sul supplemento letterario del «Figaro», seguito a breve distanza (1° novembre ’88) dall’intervento di Brunetière su Symbolistes et Décadents («Revue des Deux Mondes») e dall’Enquête dell’Huret (’91): testi importanti che ispirano gli articoli dannunziani pubblicati sul «Mattino» tra il luglio e il dicembre 1892 (Il bisogno del sogno, Per la gloria d’un vecchio, L’arte letteraria nel 1892, la Commemorazione di P.B. Shelley). Eco suggestiva di un percorso simbolico è, ad esempio, il SOGNO D’UN MATTINO DI PRIMAVERA, con il suo plastico dinamismo attraversato da epifaniche rivelazioni: la misteriosa imago, il riso che si irradia diffuso, l’acqua viva che rompe da polle invisibili, i fiori illuminati da un fulgore liquido, le strane plaghe, i novelli carmi e novelli suoni, gli spiriti innumerabili creati dall’arido loto e dal ferro. Sono immagini talmente aderenti a un sostrato mitopoietico da divenire cellule semantiche generative delle amplificate figurazioni di Elettra: si pensi all’ode ALLE MONTAGNE, non a caso la più antica (1896) del secondo libro delle Laudi, che utilizza e sviluppa certo clima profetico e magico dell’elegia (Candide cime, grandi nel cielo forme solenni / cui le nubi notturne / stanno sommesse come la gregge al pastore, ed i Vegli / inclinati su l’urne / profonde dànno eterne parole, e fanno corona / le stelle taciturne […]). Diventa pertanto particolarmente significativo che la poesia, unica tra quelle comprese nella raccolta, conosca una nuova edizione nel «Mattino» del 16 giugno 1895: il rapporto con Elettra aggiunge un’ulteriore motivazione alla ristampa, già importante – per accogliere il suggerimento del Guabello – alla luce del clima «veneziano» che pervade la lirica. Sarebbe bastato al critico calare quell’intuizione nel sistema metaforico del testo e cogliervi la doppia valenza delle aree significazionali dell’acqua e del fuoco (Ecco sentieri d’ombre, profondi, cui versan la luce / fiori d’ardente vita, esseri non mortali […]) per vedere pienamente avvalorata la supposizione. Il romanzo «veneziano», infatti, è progetto ormai vicino alla faticosa realizzazione.
Si parlava di derivazioni e di fonti: per fermarsi al parnassianesimo, cui non si è per ora accennato, occorre rilevare che proprio Théodore de Banville, cui il d’Annunzio dedica un importante articolo sulla «Tribuna» nel febbraio ’87, è l’esponente che più influisce sull’ispirazione delle Elegie: ed è, come il Gautier, poeta di transizione, nella linea che dal romanticismo attraversa il Parnasse per approdare al simbolismo. Di tale orientamento è spia una figura retorica in largo uso presso i parnassiani, la corrispondenza sinestetica. Nelle Elegie romane essa inclina a risultati tematici e stilistici differenziati, evolvendosi da modalità decorative-ornamentali a esiti di maggiore intensità simbolica: […] parvemi […] bere la dolce luce. / – Oh, tutti i sogni miei per questo! – dicea lenta, quasi / ebra – Infinito e pure intimo nell’anima / come un divin segreto da te rivelato a me sola! – / Tacque; ed ancor la bocca parve bevesse luce. – NELLA CERTOSA DI SAN MARTINO – (rinviamo alla nota per un approfondimento sull’uso figurato del «bere» nella produzione poetica di d’Annunzio).
La «storia d’amore» si rivela sempre più pretesto per avviare non tanto «intuizioni delicate», seppure «ancora indecise» (Tosi), quanto finzioni di natura ritmica e semantica. Esemplare il confronto tra le liriche e la loro immediata anticipazione e proiezione narrativa: ci si riferisce, naturalmente, alle lettere a Barbara Leoni, sorta di zibaldone epistolare che allinea spunti per la trasposizione metaforica a riflessioni su versi già compiuti. Singolare documento insieme umano e letterario: in esso la scrittura mediata, di secondo grado, convive con la sofferta emozione dei sensi (un solo esempio: la lettera del 3 luglio 1889, ove il riferimento biografico è subito fuso con la spoglia annotazione di appunti per l’elegia – «Facevo, dianzi, l...