A ELEONORA DUSE
FIGLIA ULTIMOGENITA DI SAN MARCO
APPARIZIONE MELODIOSA DEL PATIMENTO CREATORE
E DELLA SOVRANA BONTÀ
Dopo le calende di ottobre, 1907.
(La Mirabella)
QUANTE ho io anime? E tutte compiute, come se per dar compiutezza a ciascuna io abbia consunta una lunghissima vita in cimenti in ardimenti in paragoni in contemplazioni.
Tante ho io anime, e tante stirpi. «Non contento di allignare nel terreno al suo paese domestico, nobilissima pianta peregrina nel nostro terreno translata e allignata» già diceva di me, quando ero collegiale d’Abruzzo nel collegio toscano di Prato, un solenne accademicónzolo dei Misòduli. Chi di me più intoscanito, anche allora? Pareva che non soltanto io avessi bevuto a gran sorsi tutta l’acqua del Bisenzio ma pur ingollato i ciottoli. E un mio compagno già paggetto del sagrestano di Campi de’ Flagellanti, che nel dormentorio svegliandosi vedeva il contiguo letto abbandonato dall’amico della lucerna e non mi supponeva tanto ingordo di olio pallàdio, una mattina mi disse nel rullo del tamburo battuto a sveglia: «Lo so, Gabriele arcangelo. Ogni notte tu ritorni all’Oratorio del Buon Consiglio, e rientri nella predella dell’ancona e ti rimetti a dire Ne timeas Maria. Lo so, Gabriele dell’Annunzio. Invenisti enim gratiam apud Deum.»
Sorrido ripensando ch’ero anche allora nunzio robbiano, d’invetriato bianco su fondo azzurro, e che nell’Oratorio pratese del Buon Consiglio già m’era nato questo amore, anzi questa ghiottornìa venuta m’era, delle terre di Luca e di Andrea. Quando passavo con la camerata dinanzi al Duomo, a volta a volta lasciavo gli occhi sopra il pergamo del Cìngolo e sopra la lunetta della porta maggiore; e spesso mi scaltrivo a scantonare, io carcerato, verso Santa Maria delle Carceri per lasciar gli occhi al fregio dei festoni e ai quattro tondi. E quando passavamo davanti la porta del Buon Consiglio sormontata dal gallo in ghirlanda, dicevo piano al sagrestanello campigiano che anteponeva san Luca a Sallustio e san Matteo a Cornelio Nepote: «Bizzoco, stasera, dopo la cappella, io torno qui senza cena. Non mi tradire al censore, beghino. Missus est angelus Gabriel a Deo consilii divini nuntius et humanae pacis sequester. Così sia.» Ma già il sogno sacrilego faceva più ambiguo il mio sorriso; e già io mi fingevo che la porta stretta fosse quella del monastero di Santa Margherita.
L’ARCANGELO NELLA FIENAIA2
Quanto di quel mio sorriso e quanto di quel mio gioco e quanto di quella mia imaginazione rifioriscono mentre cammino verso Certomondo a discoprire una di quelle «opere di terra quasi eterne» seguitata da un de’ miei segugi? È un mattino di settembre, dopo l’equinozio. L’aria è temprata d’una così chiara toscanità che, dalla semplice parlatura d’un legnaiolo di Stia mia guida, mi sembra avere in me rinfrescato lo stupore di Bonagiunta quando nel girone ode per la prima volta il dolce stil nuovo. «Sei Braciola da Stia? Sei tu Orbecco da Palagio?» Mi faccio l’orecchio attentissimo di un accordatore per intonar le mie domande alle sue risposte, il mio accento al suo. Mi ritorna nella memoria l’irrisione feroce dei miei condiscepoli nel ginnasio pratese quando per la prima volta chiamato mi levai dal mio banco a declinare il nome della rosa pronunziandolo come fosse il participio passato del verbo ródere. Mi ritorna nella memoria quella mia costante e orgogliosa disciplina vocale per cui giunsi in breve a correggere i suoni del dialetto nativo e a vincere di «moderazione con bellezza» perfino un mio emulo affettatuzzo di Siena. «O rosa che di Napoli venisti, e ti bagnasti nella Fonte Gaia!»
Andiamo verso Campaldino. L’opera nascosta di Luca o di Andrea è laggiù, a Certomondo, forse nel luogo del convento francescano fondato da due de’ conti Guidi in rendimento di grazie per la vittoria di Montaperti. Cammino sopra la battaglia, calco la strage. Dante è là, a cavallo co’ feditori; e vedo che cavalca lungo, vedo che ha staffa lunga, com’è la mia maniera in caccia. Io però son di quei pedoni che poi si metteranno sotto i ventri de’ cavalli con le coltella in mano. Ho vista corta, come il Vescovo; ma ben distinguo i palvesi de’ nemici.
La campagna ha un odore appassionato, forse di foglie che il settembre cuoce. Ma nel terreno non è grassezza. La figliola di Ugolino non potrebbe oggi dire crudelmente alla donna di Buonconte «che il terreno senta ancóra di quella grassezza» e ghibellina e guelfa; ché tutto il paese è magro e rilieva l’osso ben costrutto, ogni lineamento è scarnito e smunto, ogni dintorno si assottiglia e taglia come la mascella di Dante ventiquattrenne o come la mascella della scure di Guglielmino.
Eccoci. Sotto le formelle d’un soffitto da refettorio boccheggiano tini riversi, sgocciolano botti risciacquate, stagna un’afa bassa di vendemmia vecchia che si risente. In un rudere di chiostro un galletto battagliero di Valdarno canta sopra un ceppo d’aratro sementino. Dov’è la terra cotta?
È murata nel muro della fienaia, è imbiancata di calcina, incrostata di più imbiancature, quasi agguagliata dalla crosta all’intonaco. Tuttavia la sento.
Sento il fortore dei secoli come qui sento l’odore del fieno grumereccio. Sento la struttura cruda di questa famiglia contadina aguzzarsi al guadagno, come sento la prosa di Giovanni Villani allegrarsi in gaggio di battaglia o il Pratomagno farsi più grande di sé nella terzina del secondo balzo. Tutto quel che v’è di pio e di rubesto nel Casentino sembra a un tratto scendermi nel più profondo a ritrovare le matrici del mio genio originario.
LE CROCI E I CALICI3
Ecco che nel segreto libro della mia memoria si solleva a un tratto, come a un soffio di gioventù, la pagina d’un altro mio pellegrinaggio per le mie terre d’Abruzzi. «Andavamo per le terre, nella grande estate, cercando le tracce di quella bellezza che ci aveva generati alla poesia. Avevamo nel cammino la gola riarsa dalla sete; e non so che ansia di apparizioni e di rivelazioni ci riardeva più giù della strozza. A Sulmona, nella cattedrale di San Panfilo, davanti a un dono sconosciuto d’Innocenzo VII, ci pareva d’apprendere una modulazione sconosciuta, e quasi una maniera incognita di fiorire, guardando l’oro del calice sorgere dall’argento della corolla come non mai metallo flavo sorse da metallo bianco primaverilmente effigiato d’angeli musici. E andavamo, andavamo più oltre. Di chiesa in chiesa, di sagrestia in sagrestia, di tesoro in tesoro ci avveniva di scoprire le altre croci processionali, quelle con l’astile, quelle senza astile che potevamo reggere su le nostre braccia, che potevamo tenere fra le nostre mani pel traverso come un’urna crociata per le due anse dolenti offerta alla nostra arsura. Assetati eravamo dal cammino; e le belle croci chiare ci dissetavano. In talune era qualcosa d’indicibile che ci lasciava pensosi e perplessi in via. Sentivamo l’artefice turbato dal primo soffio del Rinascimento, già toccato da una indistinta seduzione; sentivamo quasi un’amorosa incertezza nella sua mano condotta dall’anima inquieta, nel suo cesello raggentilito, nel suo smalto rinfierito, nei rapporti insoliti del duplice metallo. E taluno di noi, forse il più giovine artista, quegli che forse avea pur vissuto all’inizio di tale intagliata e colorata e musicata primavera, quegli che pur ne serbava nelle sue vene la ricordanza e l’ansia, taluno di noi più lungamente tratteneva nelle sue mani e nelle sue pupille il segno. E, se era un calice di benedizione, elevandolo, come nell’offertorio, ripensava in sé parole dette o non dette: – È questo il mio calice, questa è la parte del calice mio. – Forse credeva egli che fundo in imo fervesse la sua arte novella. Senza officio e senza musica faceva quindi l’offerta all’avvenire. Ma pur chiedeva alla sua propria novità se di garbo più breve e più casto fosse quel calice d’elettro offerto alla vergine iddia della sapienza da Elena, fatto a forma della mammella ledèa. E ancor si turbava; perché taluno al suo fianco, inconsapevole, presso il tesoro dell’Annunziata, aveva detto: «Un tempo vendevano i calici per riscattare gli schiavi.»
DELLA MANIERA DI RINETTARE
E DELL’ARTE DI DIVINARE4
Sto in piedi, sopra un’asse poggiata in piano a un cavalletto, dico veramente sopra una vera scala d’imbiancatore; che una di quelle donne m’assicura col suo peso affinché io non trabocchi nello sforzo di raschiare l’impiastriccio con la mia coltella aretina da sbudellar cavagli guelfi. Indovino e palpo la testa dell’arcangelo, la sua zazzera, le sue braccia conserte, l’ala destra acuta, il ginocchio destro piegato, il vaso con entro cinque gambi di gigli fra esso e Maria. Indovino il volto chinato della Vergine assisa, le sue man congiunte presso il suo mento, il libro aperto su le sue ginocchia, i due piedi che avanzano fuor della sua veste piegosa.
Quest’asse brandisce; ma come non si spezza? Regge il peso d’un sol uomo? o di quanti uomini?
Non è un’asse piana e liscia. È il mòzzo d’una ruota che gira, il mòzzo d’una ruota d’anime. È la sala d’una ruota vertiginosa, l’asse di un mondo volubile e tacito. È d’oro come quello del carro solare. Volat vi fervidus axis.
Quanto mi piace che la natura abbia privilegiato me per adunare mescolare trasmutare sublimare in un attimo le più remote e diverse e prodighe e peregrine ed esquisite essenze dello spirito! In cima a questa scala d’imbiancatore, contro questo mezzorilievo robbiesco, con questo raschiatoio tagliente in mano, nell’odor del fieno seròtino, mentre il galletto pettoruto canta di sul timone, mentre un poledrino nitrisce quasi imitando il belato pavido, mentre un bimbo moccioso gioca con un lacrimatorio escito chi sa da qual sepolcreto, mentre dietro le mie spalle passano l’Arno laggiù sette secoli toscani e s’avanzano come sette bandiere dell’oste raunata sul Monte al Pruno, io discopro una bellezza ignota dentro me insaziato d’anni o in un muro vecchio di fienaia? Il cuore mi trema, i pensieri mi vacillano; ma la mano è confermata dall’attenzione, il polso è agevolato dallo scaltrimento. «Senno in Lombardia, scaltrimento in Toscana.» Raschio a poco a poco; e abile sono a evitar che la polvere della raschiatura m’entri negli occhi. Sono tutt’occhi, e trattengo il respiro. Mi rifaccio della testa di Gabriele. Ora mi sembra di liberarla da spesse croste di lebbra; e ora, bagnata la prima sgrossatura, mi par di diliscare una scàrdova di molte scaglie, al modo dantesco di Griffolino d’Arezzo. La donna, che m’assicura la scala, regge sul capo un gran catino d’acqua dove io a quando a quando inzuppo uno strofinaccio da stoviglie e ripulisco e lustro. L’ampiezza del catino me la nasconde, di sopra in giù. Chinandomi a raccattar su l’asse un ferro che m’è sfuggito di mano, la sbircio; e un poco m’indugio chinato a rimirarla, perché è fatta fieramente come una di quelle fanti da Piero della Francesca atteggiate intorno alla regina di Saba che adora il trave miracoloso.
Mi rialzo; mi rimetto a raschiare; con l’acume penetro nelle bóccole della capellatura, ritrovo a una a una le rivolte dei riccioli; contorno l’aureola. Vo rinettando tutti i cavi e i rilievi, intorno alla fronte e per la tempia e pel collo e per la nuca. Il coltello alla mia sottilità palpitante è cesello grosso o mezzano o piccolo, è ciappola o tonda o quadra, è punta di smeriglio, unghia di bulino; e sempre è amore, e sempre è timore, e sempre è ardore. E mi par di meritar l’elogio che s’ebbe dal Ghiberti il figliuolo appunto dell’imbianchino di Valdelsa; il qual nel rinettare «ebbe molto buona maniera e intelligenza». Or è bronzo questo, come la porta di San Giovanni? o come quella della prima sagrestia di Santa Maria del Fiore, che facea dire ai maestri di getto quanto giovasse a Luca «essere stato orefice»? Qui dunque Luca incredibilmente è tornato al bronzo dalla sua terra invetriata?
Attentissimo sono a non scalfire, a non sgraffiare lo smalto. Or non il cuore soltanto mi trema, ma mi comincia a mancar la mano. Mi arresto, a quando a quando, per signoreggiare l’ansia che mi soverchia. Sotto l’acume la materia mi si muta come mi si muta l’anima. Era calcina grossa, e poi era terra cotta, e poi pareva bronzo; e ora è cosa viva. E ora mi torna dalla lontana puerizia l’imaginazione del beghino di Campi, quasi recata da uno sprazzo del sangue d’allora, da una vampa della fantasia d’allora. «Io lo so, Gabriele dell’Annunzio.» E mi sembra che si faccia silenzio in Certomondo come quando il Vescovo a cavallo si scaglia nel folto della mischia per morire. Anche la donna disegnata da Piero è immobile così che sembra reggere il catino come la cariatide regge l’architrave. Non odo il suo respiro, non il canto del gallo, non il nitrito del poledro, non il fiotto del bimbo. Odo il mio gran cuore; e quasi l’anelito della campagna che si cuoce al sole di settembre in un lento martirio estatico, e il compianto eguale delle cicale che si estinguono nella stagione estinta; e l’intermesso favellio del vento fra chiostro e cantina, fra sagrestia e fienaia. E il mio cuore sente che la Pescara confluisce nell’Arno, come il Solano, come l’Archiano. E il mio cuore sente che la Maiella s’arrotonda sopra la Verna, come a beare e indiare il petto materno che mi deve rinutrire. E il vento mi porta la voce della mia madre, il mio nome nomato dalla mia madre. «Gabriele! Gabriele!»
Temo di traboccare in fuori, dall’asse che brandisce sopra la scala. I confini dell’anima si perdono, i confini del corpo si cancellano. Il ferro mi sfugge dal pugno. Il volto mi si piega su quell’effigie che la polvere tuttora ingombra. Le mie palpebre serrano uno sguardo che forse non m’appartiene, che forse non ebbi mai.
Non raccatto il ferro; ma riabbraccio la mia volontà nel mio mistero, con un impeto quasi ferino. Mi volgo per rituffare il cencio molle nella conca. Il gioco della luce fa dell’acqua specchio. Nello specchio ignoto scopro il mio viso ignoto, il mio sguardo ignoto, che non vedrò più mai, che non avrò più mai.
E credo di scoprirlo un’altra volta quando aspergo la testa del messaggero, quando la detergo, quasi per sacramento, quando viva e pura l’ho dinanzi a me vivo e puro, rivelata dall’acqua e dall’anima, restituita al fulgore e al fervore.
Missus est angelus Gabriel a Deo.
IL CATINO DI CERTOMONDO5
Così ho compreso il valore degli occhi nelle figure di Piero. Ho compreso perché quel loro sguardo mi commuova tanto a dentro e m’incanti. Ho compreso perché taluna di quelle figure, alla prima vista, mi paresse interiormente vivere sotto certe incantagioni e sotto certe costellazioni e in un certo ordine di cagioni recondite. Allora pensavo: «Costantino dorme sotto la tenda, vegliato dalle sue guardie. È l’uomo della sua storia, emerso dalle sue note fonti istoriali; è l’uomo de’ suoi eventi e de’ suoi gesti e de’ suoi detti insigni. Ma se si sveglia, ma se apre gli occhi, scopro in lui l’oscurità d’un sogno che non è il suo sogno interpretato, la profondità d’una visione che non è la sua visione celebrata. Il suo capo prieme il suo capezzale; il suo corpo rilieva la sua coperta; il suo letto è bene acconciato, con la sua rimboccatura fatta. Ma, se apre gli occhi, conosco un altro essere in lui, conosco in lui un aspetto di quel mistero fisso che occupa il suo paggio sveglio con pontato il gomito e con la gota nella palma. Se apre gli occhi, il suo sguardo propone al mio potere lirico la divinazione e l’interpretazione d’un altro fato.» Così pensavo. Già dunque allora gli occhi chiusi di Costantino sognante mi aiutavano a comprendere quella portentosa ambiguità delle «cose vere» e dello «incognito indist...