Come diavolo si scrive un libro? Dove prendo ispirazione? Cosa voglio raccontare? Sono domande che vi sconsiglio sinceramente di farvi, nel caso in cui anche voi vogliate scrivere un libro. Vi assicuro che, in questo modo, passerete gran parte del tempo a fissare il cursore del programma di scrittura lampeggiare davanti ai vostri occhi, senza trovare risposta alle domande precedenti. Ovviamente, se scrivete su carta e vi sta lampeggiando la penna, qualcosa non sta funzionando correttamente.
La mia ispirazione piombò su di me dal nulla nel freddo pomeriggio del 20 novembre 2010 alle 16:28. Così, su due piedi! In quel momento non ricordai che stessi già scrivendo un libro. Infatti, quando ritrovai sul PC il mio testo da completare, non fu piacevole dover cancellare le parole scritte con il pennarello indelebile sul muro della cucina, durante la ventata di ispirazione.
Lo so, sembro pazzo, ma non è così. Come vi ho detto nella prefazione, non sono un gran lettore né tantomeno uno scrittore, quindi non so se questo sia il modo corretto di scrivere un libro. Ma so per certo che questo è il mio modo di scrivere un libro. Il modo con cui saprei attrarre la mia attenzione. E sei stai leggendo: ho fregato pure te!
Tornando a noi. Ho pensato a lungo a come cominciare il primo capitolo. Di solito si parte dall’inizio... oppure, alcune storie cominciano proprio dalla fine e vanno a ritroso. Io voglio fare una cosa nuova: partire dalla metà. O perlomeno quella che io chiamo e spero sia solo la metà (o anche meno) della mia storia.
C’è sempre un inizio e una fine... solo che, questa volta, la fine la si può immaginare, sperare o intravedere; ma fondamentalmente non c’è ancora. E non si sa quale sia. Quindi l’esperienza che si racconta nel momento in cui la si vive mi piace immaginarla come “inizio della metà”.
Tutto cominciò con un incidente... era il piovoso 5 maggio del 2010. Bello come inizio, vero?! Partire con un incidente cattura sempre l’attenzione (se non erro, il capitano del Titanic aveva una T-shirt con una frase simile...).
Il mio canale di YouTube al tempo contava una decina di video, poche migliaia di visualizzazioni e qualche manciata di iscritti. Insomma: uno dei tanti canali che cercava di farsi largo tra la folla.
Oddio... forse “folla” è esagerato... non era ancora scoppiata la “YouTube mania” che si sta vivendo in questi ultimi anni. C’erano ragazzi che facevano video e ricevevano parecchie visualizzazioni. Ma nessuno si definiva ancora youtuber.
Non so come mi venne l’ispirazione o cosa mi spinse a mettere online i miei video... forse per deformazione professionale. Avendo studiato come graphic designer, sono sempre stato “intrippato” con le varie forme di comunicazione e con il piacere della grafica e del montaggio video. O forse, semplicemente, per nutrire il mio ego. Fin da piccolino ho sempre amato stare al centro dell’attenzione. Partecipavo a ogni recita scolastica possibile. Frequentavo un piccolo corso di prestidigitazione per esibirmi in qualche spettacolino improvvisato di micromagia. Non mi tiravo indietro ogniqualvolta si presentava l’occasione di raccontare una barzelletta tra amici... insomma... in qualche modo cercavo una soluzione per essere ricordato e per intrattenere, divertendo, un piccolo pubblico. Ma di questo parlerò meglio più avanti.
Non vi preoccupate... tra poco torno all’incidente. Come siete morbosi... datemi il tempo di finire questa piccola introduzione.
Comunque sia: avevo un canale su YouTube che realizzava discrete visualizzazioni. Ma senza fuochi d’artificio. Finché, un pomeriggio, ricevetti la telefonata di un mio cliente.
Mi chiese di andare, il giorno seguente, nella sua agenzia pubblicitaria in Alessandria per parlarmi di un lavoro. Appuntamento: 11 di mattina.
Il giorno seguente, il 5 maggio (eccolo! contenti?!), mi alzai con una strana sensazione. Avete presente quando non avete voglia di fare una cosa e sembra che tutti i segnali “astrali” vi incoraggino a non farla?! Ecco! Quella mattina, forse, avrei dovuto dare ascolto a quei segni premonitori. Avevo mal di testa, non mi sentivo particolarmente bene, si era messo a piovere che Dio la mandava (non ho mai capito questo modo di dire. Cosa mandava?! La pioggia?! E perché?! Che differenza c’è quando non la manda Lui?!) e una delle lenti a contatto era irrimediabilmente caduta nel water (ecco perché i giorni seguenti mi sentivo osservato ogni volta che andavo in bagno!!!). Scesi in garage e prima di entrare in macchina cominciai a comporre un SMS: “Ciao Marco, guarda oggi non mi sento troppo bene, ti va se rimandiamo l’incontro alla pros...”.
Lo squillo del telefono bloccò il completamento del messaggio. Risposi. Era Marco che mi chiedeva a che punto fossi: “Sto arrivando. Un’oretta e sono lì”.
Mi chiedo spesso cosa sarebbe successo o cosa starei facendo in questo momento se avessi mandato quell’SMS e non avessi ricevuto la sua chiamata...
Ma il destino voleva che mi avviassi verso Alessandria.
Al tempo, guidavo una macchina sportiva molto bassa. Praticamente le migliori per le giornate di pioggia. Appena sfiori i freni ti sembra di fare un giro sulle giostre. E così fu. Solo che non ero sulle giostre. Ed ero a malapena uscito dal mio quartiere.
Quando riaprii gli occhi ero in stato confusionale. Cosciente ma confuso. Scesi dalla macchina. O meglio: quello che ne rimaneva. C’erano diverse auto ferme e persone in mezzo alla strada sotto la pioggia che guardavano la mia figura uscire dalla carcassa come se stessero assistendo alla seconda venuta di Gesù sulla Terra. Sta’ a vedere che sono rimasto nell’abitacolo per tre giorni!!!
Mi corse subito incontro un ragazzo. Prima ancora di fargli aprire bocca gli chiesi se avessi colpito qualcuno o se altri fossero rimasti coinvolti nell’incidente. Fortunatamente la sua risposta fu negativa. Mi sentivo “bene”. Gambe, mani, braccia e tutte le parti visibili mi sembravano al proprio posto. Ma per accertarmi di non aver dimenticato qualche pezzo in macchina, chiesi al ragazzo se fossi ferito.
Diciamo che il suo sguardo terrorizzato e le sue parole “no no, hai solo un graffietto vicino all’orecchio” non andavano molto d’accordo. Ma al momento non me ne preoccupai più di tanto. Ero più in panico per la mia povera macchinina. Era diventata in scala 1 a 10. Potevo portarmela a casa in tasca.
Riordinate le idee capii la dinamica dell’incidente. Un’enorme pozza d’acqua formatasi su una falla stradale era stato il mio tallone d’Achille. Fortunatamente ero entro i limiti di velocità. Ma all’aquaplaning, a quanto pare, non fregava niente. La macchina sbandò fino al testa-coda per poi capottarsi due volte. Ricordo perfettamente ogni singolo secondo. Mentre rotolavo con la stessa maestria di un kebab, mi aspettavo, da un momento all’altro, che tutto si spegnesse... O perlomeno, una pioggia di cipolle e salsa yogurt. La sensazione che si prova è un po’ come quando lavori al PC e improvvisamente si spegne tutto senza motivo. Ma il buio non arrivò. Quando fui fermo uscii subito dalla macchina ritrovandomi nel fosso della corsia opposta girato nel senso inverso alla mia direzione originale.
Appurata la mia “quasi sanità”, avevo tre problemi. Uno più grosso dell’altro: avvisare Marco che non sarei andato in agenzia, avvisare mio papà che le leggi della gravità avevano funzionato perfettamente sulla macchina e “chiamare la mamma”. Chiamare la mamma in queste situazioni è un po’ come camminare su una distesa di mine antiuomo!
In quel momento mi tornò alla mente la mia genitrice a mo’ di flashback da film (in bianco e nero e parlando a rallentatore fuori sincrono), che mi lanciava il solito monito: “Mi raccomando, vai piano che piove che Dio la manda”. Dannazione... di nuovo Lui!
Decisi di tenere Marco per ultimo. Avvisai prima mio papà che lo sportellino del cruscotto era rimasto in perfette condizioni. Sentendomi “sano” come al solito, non si scompose più di tanto. L’importante era che non mi fossi fatto male.
Era il turno della chiamata materna. Pensai bene alle parole da usare... esordire con un “Mamma ho fatto un incidente” non mi assicurava che restasse al telefono per sentirmi concludere con un “ma sto bene”. Partire con un “Mamma non preoccuparti, sto bene” era più rischioso della prima frase... figuriamoci concluderla con un “ma ho fatto un incidente”.
Però, evidentemente stufo di far cadere la pioggia a modo Suo, decise di venire in mio aiuto direttamente lui: Dio. Non so perché, ma mi immaginai pure le Sue parole: “Daniele, non preoccuparti. Non devi chiamare tua mamma. La faccio venire direttamente sul posto”.
Con tutte le strade, con tutti i supermercati, con tutti i giorni disponibili all’anno, mia mamma stava percorrendo in senso opposto la mia stessa strada, proprio quel giorno!
Ora... provate a immaginare una madre che con tutta la tranquillità di questo mondo sta tornando a casa sua e vede per strada un incidente in cui la macchina coinvolta è quella del proprio figlio...
Era così disperata che scese di corsa e venne a cercarmi all’interno dell’auto. Io ero lì che continuavo inutilmente a chiamarla. Non riusciva a realizzare che fossi in piedi sano e salvo (questo dovrebbe farvi capire in che condizioni fosse la macchina).
Dopo una quindicina di minuti di consolazione, mia mamma si calmò. Che diavolo, avevo appena fatto un incidente e dovevo preoccuparmi io di tutti gli altri!
Andai in ospedale dove finalmente scoprii le mie lesioni. Mi diedero una cinquantina di punti dietro la testa. Avevo l’orecchio destro penzolante. L’infermiera sembrava una centralinista perché per verificare se avessi perso l’udito, prese il mio orecchio e mi utilizzò come se fossi uno di quei vecchi telefoni a muro con la cornetta da avvicinare alla bocca. Chiamò il suo ragazzo. Fortunatamente era occupato.
Tornai a casa. Avevo sfasciato la macchina, fatto un incidente da film d’azione, piroette, capriole, fuoco e fiamme e l’unica ferita era una stupida cicatrice che manco si vede... che delusione! Tanto casino per niente. Le ragazze impazziscono per le cicatrici!
Tre giorni dopo, nonostante il collarino e i vari dolori, non mancai il mio appuntamento del venerdì e uscii con un nuovo video: Incidenti incidentati.
Questo video fu il mio portafortuna. Da quel momento il mio canale iniziò a emergere e regalò una frase tormentone che mi distinse dalla massa...
Avevo dedicato il video a mia madre per la preoccupazione procuratale con l’incidente; così, conclusi la puntata mandando: “Un bacione alla Mamma!”.
E così ero diventato a tutti gli effetti uno youtuber. E chi se lo immaginava!?
Sono tante le cose che sogniamo di diventare da grandi, quando siamo bambini. C’è chi vuole fare l’astronauta... la principessa... la ballerina... il ginecologo delle star... il becchino... ma lo youtuber non me lo sarei mai immaginato... anche perché se mi fossi immaginato YouTube quindici anni fa, ora sarei plurimiliardario e questo libro lo starebbe scrivendo il mio ghost writer. Starei comodamente spaparanzato sul mio costosissimo divano giocando ai videogiochi nella mia costosissima villa davanti al mio costosissimo televisore, dettandogli ogni tanto qualche frase: “Hai per caso la soluzione di Super Mario a portata di mano?! No! Questo non devi scriverlo!!! E nemmeno questo! Vabbe’, andiamo avanti...”.
Ma facciamo un piccolo passo indietro (tanto ormai sto libro è diventata una macchina del tempo e non serve neanche un flusso canalizzatore...) per i più profani o per chi avesse già perso il punto della situazione. Se non siete amanti di Internet e pensate che YouTube sia solo un sito popolato da gattini tenerosi o, semplicemente, vivete dentro una palafitta senza Internet e uscite di tanto in tanto solo per procacciarvi cibo e per comprare questo libro, vi sarete sicuramente posti una domanda:
“Che cavolo è uno youtuber?!”
Partendo dal presupposto che tutti conosciate YouTube, uno youtuber non è nient’altro che una persona con un concetto da esprimere e da condividere con il mondo. E che dopo aver spiegato questo concetto, per giorni e giorni, a vicini, parenti, amici e sconosciuti al supermercato si rende conto che è giunto il momento di ampliare la sua rete di utenza grazie a YouTube! Perché stressare le palle solo a persone che lo circondano, quando esiste la possibilità di farlo su scala internazionale grazie a Internet?!
Dopo questa magica intuizione, il nostro eroe, che ha scelto di diventare un comunicatore “Due punto zero1”, decide di aprire un canale su YouTube caricando il suo primo video.
Esistono tanti tipi di youtuber, sia chiaro. Ci sono quelli che mettono la propria esperienza all’uso e consumo di tutti mostrando un tutorial. Possono insegnare trucchi per realizzare un perfetto make up. Possono spiegare i passaggi tecnici per utilizzare al meglio un programma del computer o improvvisare un corso di tedesco, o insegnare a suonare l’ukulele... oppure possono semplicemente effettuare una recensione di un film, di un libro, di un CD musicale o mostrarti con uno speed drawing2 quanto sono bravi a disegnare. Insomma: possono insegnarti qualcosa o condividere la propria esperienza critica, artistica o musicale.
Poi troviamo i vlogger e i comici. I primi, sono la diretta evoluzione dei blogger. Ovvero, invece di scrivere su un blog le proprie esperienze, ne parlano direttamente a voce mostrandosi in un video. I secondi, invece, hanno intrapreso la carriera dello youtuber per intrattenere gli utenti con situazioni comiche. Esattamente come il sottoscritto.
Il bello di un canale comico è la sua versatilità. Infatti, in modo divertente o ironico, riesce a racchiudere tutti gli stili con parodie, prese in giro o semplicemente raccontando la vita secondo un particolare punto di vista. A patto che tutto venga caricaturizzato e reso divertente.
O almeno ci si prova.
Ora che abbiamo definito cosa sia e cosa faccia uno youtuber, posso tornare al mio racconto. Lo so... sono fissato con questi prologhi noiosi... ma è necessario che sia tutto ben chiaro, per poterci addentrare bene nella mia storia.
Purtroppo non è tutto oro quello che luccica. Svegliarsi una mattina con l’irrefrenabile voglia di parlare davanti a una telecamera non farà aut...