E vissero per sempre felici e contenti?
Uscite bene o male dall’adolescenza, molte di noi si affacciano all’età adulta con un diktat: trovare qualcuno da portare all’altare. Per amore, certo. Oggi i matrimoni di convenienza non usano più, anche se alcune cinicamente vi puntano ancora.
Il matrimonio di oggi è fatto per Amore, solo per Amore, Amore con la A maiuscola. Per noi donne l’Amore è ancora la cosa più importante, il senso principale che diamo alla nostra esistenza, il contenuto essenziale dei nostri pensieri e delle nostre conversazioni. Amore, Amore, Amore, non facciamo altro che pensare all’Amore, immaginare l’Amore, sognare l’Amore, parlare d’Amore; forse quello che facciamo meno è fare l’amore. Guardate i telefilm “al femminile”, che ancora più dei lungometraggi sono un ottimo specchio, anche se leggermente deformato, della nostra realtà sociale. Nei telefilm non si parla altro che d’amore. O di delitti, è vero, tuttavia la maggioranza degli omicidi sono compiuti per amore, quindi il cerchio si chiude.
Sex and the city ne è l’esempio evidente: le protagoniste della fiction non fanno e non pensano ad altro che all’amore e al sesso per tutta la durata delle 6.000 puntate. E se guardiamo a un’altra fiction americana, The L World, dedicata al mondo lesbico, le cose non cambiano, anche lì si parla solo di amore, di sesso, di coppie. Non è l’inclinazione sessuale a determinare l’argomento, è che il genere femminile di qualsiasi orientamento è centrato solo su quell’argomento. È tutto un proliferare di libri rosa (anche se ultimamente con qualche “sfumatura di grigio”), film rosa, fiction rosa, ecco che il rosa torna sempre, implacabile, a segnalarci che noi femmine, dal mondo di Barbie in poi, dal tunnel dipinto di rosa non usciamo mai del tutto. Quando un libro o un film sono pensati per un pubblico di donne, il contenuto è sempre una storia d’amore.
Anche nella vita reale i discorsi tra donne vertono sull’amore per il 90%, i discorsi tra maschi invece per circa il 5%. Forse che gli uomini non amano? Certo che amano, eccome, ma sanno pensare anche ad altro.
E allora, un’atroce domanda mi sorge spontanea: che sia per questo che gli uomini hanno occupato il mondo e le donne fanno ancora tanta fatica persino per conquistarsi una città? Oibò, ci sarebbe da farci una piccola riflessione.
Forse mentre le donne pensavano e parlavano solo d’amore, gli uomini facevano altro e se oggi tante donne fanno ancora fatica ad avanzare nella carriera o a conciliare lavoro e famiglia è perché mettono sempre l’amore al primo posto. Quante di noi di fronte a una bella promozione pensano: “E chi me li tiene i bambini?”.
Quanti uomini fanno lo stesso?
Comunque sia, ancora oggi l’amore sfocia spesso nel matrimonio e nonostante i divorzi aumentino persino in Italia, paese sostanzialmente bigotto e conservatore, sposarsi resta per molte ragazze il coronamento di un sogno.
Appena la Principessa Barbie è cresciuta, diplomandosi all’Accademia delle principesse, deve realizzare il suo sogno: trovare il suo Principe Azzurro e convolare con lui a “giuste nozze”. Con i tempi che corrono, non è roba da poco. Intendo dire sia trovare il principe sia convolare a giuste nozze. Nella maggior parte dei casi più che giuste si rivelano sbagliate.
Facciamo un passo indietro: la Principessa, divorata dall’ansia… quale ansia? Non so, immagino che le principesse abbiano le ansie di tutte noi donne normali: di non essere abbastanza magre, abbastanza belle, abbastanza giovani, con i capelli abbastanza lisci, con le tette abbastanza grandi, con le labbra abbastanza carnose, con il sedere abbastanza alto insomma tutte quelle solite ansie lì.
Ecco dunque che la Principessa, divorata dall’ansia, s’imbottisce di barbiturici e crolla in un semi-coma catalettico sul piumino Ikea nascosto dall’elegante copriletto di raso (rosa ovviamente).
Il Principe, che per raggiungere il castello ha dovuto attraversare boschi e nevi perenni e che per resistere al freddo si è scolato una bottiglia di nocino, la sveglia col suo fiato da pony. La fanciulla, destata di soprassalto, rischia un blocco cardio-circolatorio a causa sia dello spavento sia del suddetto fiato principesco. Ripresasi, decide all’istante di sposarlo. Non sa nulla di lui, né il nome, né il paese di provenienza, né il codice IBAN, eppure lo sposa, con cerimonia sfarzosa e dissennato sperpero di denaro pubblico. E vissero felici e contenti.
La fiaba finisce sempre lì e ricordo che da bambina spesso mi chiedevo: “Sì, ma dopo che cosa succede?”.
Vediamo.
Didascalia: “Dieci anni più tardi”.
Il Principe, affetto da alopecia e da un’incipiente calvizie, prepara la sua borsa sportiva per il calcetto del giovedì sera bestemmiando perché non trova le scarpette chiodate e i calzini in microfibra anti-odore. La Principessa, mentre prepara la cena, tenta contemporaneamente di: sedare le urla del bambino più piccolo, sedare la nonna che, affetta da Alzheimer, rimprovera il cane pensando che sia suo fratello, sedare il cane che abbaia indignato, sedare il marito che non trova i calzini, sedare se stessa scolando una bottiglia di Last al limone che ha scambiato per limoncello di Capri.
Poi, stremata, non appena sente sbattere la porta perché il consorte è finalmente uscito, mette il bimbo in lavatrice, annichilisce la nonna col suo fiato da pony (adesso ce l’ha lei il fiato pesante), dà un calcio in culo al cane e si fionda al computer per chattare con un bagnino albanese conosciuto l’estate prima a Viserbella.
Esagerazioni ciniche? Forse, ma sentite che cosa dice l’autorevole filosofa Elisabeth Badinter: «Sappiamo da Durkheim in poi che il matrimonio costituisce uno svantaggio per le donne e un vantaggio per l’uomo. Un seco lo più tardi, alcune sfumature devono essere adottate in proposito, ma l’ingiustizia domestica sussiste: la vita coniugale ha sempre un costo sociale e culturale per le donne, tanto nell’educazione dei figli, che sugli sviluppi della loro carriera professionale e della sua remunerazione».
Non è la traduzione colta di ciò che ho incoltamente scritto io?
Il matrimonio che era cominciato come una bella favola d’amore si trasforma in un incubo: lavoro che ti stressa, figli che ti succhiano l’anima, marito che inizialmente montava le mensole e adesso non monta più neanche te.
Prendiamo l’esempio di Marta, l’amica che cercava il pagliaccetto rosa per la sua bambina.
La incontro ai giardinetti, due mocciosi a rimorchio e una puffetta tutta rosa in braccio. Tutta rosa a parte il faccino, che è di un porpora acceso virante al viola cardinalizio: piange così forte che sovrasterebbe la sirena di un’ambulanza.
Marta è stravolta, sembra Dario Argento con i capelli lunghi.
«Questa qui ha scambiato il giorno con la notte» mi dice indicando la puffetta. «E poi ha sempre fame e siccome la allatto a richiesta… »
«A richiesta di chi?» dico ingenuamente.
Dario Argento mi guarda con odio e vi assicuro che essere guardati con odio da Dario Argento non è per nulla una cosa carina.
«A richiesta della bambina, ovvio, e siccome ha sempre fame, è praticamente sempre attaccata al seno… guardala, ha mangiato un’ora fa, la senti come urla?»
“Dovrei essere sorda per non sentirla” penso, poi azzardo: «Perché non aggiungi del latte artificiale, o magari le dai solo il biberon, così potrebbe aiutarti anche tuo mar…».
Non finisco nemmeno la frase perché Marta adesso ha la stessa espressione del Grido di Munch.
«Ma sei pazza? Allattarla artificialmente? Non lo farò mai! MAI! Il latte migliore è quello materno e poi allattare favorisce l’interazione affettiva madre-bambino e aiuta lo sviluppo cognitivo… loro due sono stati allattati al seno… guardali.»
Osservo i due marmocchi mentre si stanno prendendo a calci negli stinchi e noto che assomigliano terribilmente ai Gremlins. Forse li ha nutriti dopo mezzanotte.
Allattamento a richiesta, mito del latte materno, terrore del biberon: sindromi ancora molto diffuse nel terzo millennio.
Ricordo che, quando ho partorito io, giravano per l’ospedale gruppetti di signore invasate che incoraggiavano le puerpere ad allattare al seno. O meglio, più che incoraggiare, minacciavano le povere donne, sostenendo che se non avessero allattato i loro neonati, terribili catastrofi si sarebbero abbattute su di loro e sui loro figli. Instillavano sensi di colpa con sofisticate tecniche di manipolazione psicologica, del tipo: “Lei allatta al seno signora?”.
“Ehm no… veramente no…”
“E come mai non allatta al seno, signora? Lo sa che il latte materno è il nutrimento supremo per il suo bambino? Non vorrà mica che cresca con gravi deficit affettivi, comunicativi e cognitivi, vero? Lei è una brava madre, vero, signora?”
“Ehm… be’ ci provo…” tentennava la povera crista “ma… purtroppo mi sono venute delle ragadi dolorosissime sul capezzolo e non ce la faccio proprio… mi fa troppo male… “
Le naziste la guardavano con disprezzo: “Ragadi, eh? Se le sono venute le ragadi è perché lei non allatta in modo corretto. L’allattamento è un’arte signora, lo sa? E poi le ragadi si curano signora, non vorrà fermarsi per quattro stupide escoriazioni?”.
“Veramente… sono vere e proprie lacerazioni… quando provo ad allattare mi fa un male boia…”
“Metta questa pomata, signora, e vedrà che le passa tutto. Ripassiamo domani a controllare che le cose siano tornate a posto. Ricordi che i danni irreparabili al cervello del suo bambino non possono certo essere paragonate ai suoi minuscoli danni dermatologici, o no? Non vorrà certo essere l’artefice delle future difficoltà psicologiche di suo figlio, vero?”
La povera donna, terrorizzata dalla maledizione biblica, correva in lacrime a spalmarsi l’unguento miracoloso, maledicendo il suo mostruoso egoismo e detestandosi profondamente per non riuscire a essere una buona madre per il suo bambino. Sarebbe stata la prima volta di una lunga serie.
La mia amica Marta deve essere incappata nello stesso gruppetto di Kapo indemoniate.
Il nesso tra allattamento al seno e sviluppo cognitivo del bambino è stato ampiamente confutato da diversi studi, tra i quali spicca quello di Geoff Der, che osservò più di cinquemila bambini con le rispettive madri, concludendo che non esiste alcun legame tra allattamento al seno e QI del bambino. Una madre “Dario Argento” che allatta al seno contro voglia è certo più pericolosa per lo sviluppo del proprio figlio di un innocente biberon, che permetterebbe tra l’altro anche al padre di essere coinvolto nella cura del bambino. Anche se molte psicologhe e psicanaliste si sono opposte con vigore all’allattamento al seno coatto, sottolineando come esso favorisca un inizio di relazione madre-figlio squilibrata, gli invasati della mamma mucca proseguono imperterriti la loro crociata.
Mandare affa*** le vestali del “seno a tutti i costi” farebbe di più per l’emancipazione femminile dell’introduzione del voto alle donne.
Nei paesi dove le donne tornano a lavorare poche settimane dopo la nascita del figlio, l’allattamento col biberon è pratica diffusa, e sono migliaia i bambini nutriti dai padri, dai nonni, dalle zie o dalle tate e pare che nessuno sia, per il momento, diventato un serial killer.
Marta non è un caso limite: sono moltissime le donne sposate che rinunciano a tornare al lavoro perché oberate dagli impegni domestici e prive delle condizioni economiche per permettersi un sostegno nella cura dei figli e della casa. Perché casa e prole (e anziani naturalmente) sono ancora oggi “roba da donne”.
Un mio carissimo amico, per esempio, ha la sfortuna di avere la mamma malata. Soffre del morbo di Alzheimer e non è più autosufficiente. Di fronte ai gravi problemi affettivi e organizzativi che la malattia ha inflitto alla sua famiglia, il mio amico ha commentato: «La sfortuna di mia madre è che ha tre figli maschi. Se avesse almeno una figlia saprebbe lei come occuparsene».
La constatazione del mio amico è disarmante, ma almeno è sincera. Effettivamente, di fronte alla graduale degenerazione della malattia, i fratelli (tutti tra i quaranta e i cinquant’anni) sono andati nel panico e soprattutto a nessuno dei tre è venuto in mente che, in attesa di una badante, il problema poteva essere risolto ospitando a turno la madre o recandosi a casa sua per assisterla.
Non è per cattiveria che non lo hanno fatto, è che non ne sono stati capaci. Ci sono delle eccezioni, certo, ma nella stragrande maggioranza dei casi, in assenza di un vero stato assistenziale, in mancanza di un welfare efficiente e moderno, il carico della “manutenzione familiare” grava quasi esclusivamente sulle donne. Come osserva Marina Terragni, il peso dei tagli dei posti letto negli ospedali ricade sempre sulle donne, a cui è affidata la cura dei malati, e se le donne saranno ancora più assorbite dagli impegni familiari, ancora di più saranno quelle che rinunceranno al lavoro e ancora meno quelle che decideranno di avere un figlio.
Quando ero bambina, pensavo che gli uomini della mia famiglia fossero affetti da qualche strana malattia: un morbo misterioso impediva loro di comprendere le istruzioni per avviare la lavatrice, una rara malformazione bloccava la deambulazione fino alla cesta della biancheria sporca, una strana sindrome, in seguito identificata come morbo di Parkinson, rendeva loro impossibile centrare il water quando facevano pipì. Ero poi convinta che fossero affetti da una forma di astenia congenita, una spossatezza cronica che impediva loro di svolgere i più semplici lavori di casa, quali lavare i piatti o i pavimenti, stirare e spolverare i mobili. Ero inoltre persuasa che una tara genetica li privasse della capacità di a...