Il libro ascetico della giovane Italia
  1. 426 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Informazioni su questo libro

Notizia sul testo a cura di Giorgio Zanetti.
Note di commento a cura di Silvia Capuani e Andrea Possieri.
Cronologia della vita di Gabriele d'Annunzio a cura di Annamaria Andreoli.Nell'ebook si ripropone il testo di Il libro ascetico della giovane Italia raccolto nelle Prose di ricerca (a cura di Annamaria Andreoli e Giorgio Zanetti, "I Meridiani", Mondadori, Milano 2005, 2 tomi), titolo sotto il quale Gabriele d'Annunzio ha raccolto un insieme molto eterogeneo di opere di carattere autobiografico e saggistico per farne il proprio testamento spirituale. Gli apparati informativi riproducono quelli pubblicati nell'edizione dei "Meridiani".Sotto il titolo Il libro ascetico della giovane Italia d'Annunzio ha raccolto nel 1926 - anno in cui il potere totalitario aveva ormai mostrato il suo volto più duro - un folto gruppo di scritti usciti su rivista a partire dall'ultimo decennio dell'Ottocento che esaltano il suo ruolo di più puro interprete e custode dell'identità nazionale e la sua lunga fedeltà alla dichiarazione rilasciata tanti anni prima dal socialista De Amicis: "arte e politica non furono mai disgiunte nel mio pensiero".

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2013
Print ISBN
9788804523703
eBook ISBN
9788852033568

COMENTO MEDITATO
A UN DISCORSO IMPROVVISO10

I
VENTILABRVM IN MANV EIVS
Questo discorso a uomini presenti e assenti, Italiani come me stampati nella vecchia matrice della razza con chiari segni, non raccolto se non dall’orecchio o dall’animo degli uditori, quasi formato nel soffio stesso del popolo torbido e nell’aria della notte serena, quasi da me rapito al vento notturno e alla mia volontà di donarmi, è oggi da me lasciato rimprimere perché abbia il suo nome e il suo luogo fra le costellazioni fauste.
Fra le costellazioni o fra le consolazioni?
Non importa. Già mal compreso, già profanato, già falsato, già corrotto, esso ha bisogno che il mio coraggio fraterno lo rivendichi. Se io sono un Italiano esemplare di domani, o se almeno ciò ch’io non sono altri sarà domani per mia virtù, e se sarà o prima o poi manifesto che l’elemento del mio dio verace è il futuro da che sento e penso e opero, conviene ch’io confermi la mia continuità di creatura con tutte le creature del mio ceppo, con tutte le creature delle mie origini.
C’è un leone biblico, un giubato leone del Deserto, col favo di miele nelle fauci? Io non sono se non un uomo intento a superar sé stesso ogni giorno e tuttavia capace di rimasticare ogni giorno il sapore della saggezza antica.
Ecco che un vecchio stampatore diligente può parlare per me e interrompere il mio linguaggio. «La cattiva impressione forza è di disimprimere, prima di rimprimervi la buona.»
Nel solstizio d’estate io avevo liberato il mio rammarico rivolgendomi a genti d’ala sospirose di migrare e sempre sospese nel palpito dell’interno motore strapotente.
«Per me la parola publica fu sempre uno sforzo misto di pena, anche nelle ore della più disperata passione civica. Ma oggi lo sforzo m’è ancor più duro. Uscendo dalla mia solitudine, m’è sembrato di abbandonare nel profondo di me qualcosa che fosse per rivivere in figura di consolazione. Non ho mai conosciuta una tristezza più grave di questa ripugnanza a parlare dove tutti i valori del linguaggio comune sono pervertiti e falsati e confusi. Dopo la vittoria, nel giorno della stanchezza e dello stupore, il nostro Dio aveva detto, come a quegli uomini d’Oriente adunati nel paese di Sinear: – Ecco un medesimo popolo, che parla un medesimo linguaggio; e questo è il cominciamento del suo lavoro. – Ma il suo lavoro fu dissipato a un tratto nella confusione delle favelle, nella moltiplicazione delle menzogne discordi; e nessun uomo più comprese l’altro uomo, come avvenne nella incompiuta città di mattone e di bitume.»
Hanno dunque gli Italiani stroncato fiaccato e distrutto tutte le ali della difesa e della potenza, per non serbare se non quella specie di vèntola cotidiana che non più serve alla Madre delle biade per ventilare il grano su l’aia ma soltanto per dissipar vilmente qualunque traccia di parola maschia o savia? Ventilabrum in manu eius...
II
IL CEMENTO ROMANO
C’era dunque nel tempo un popolo vittorioso ch’era per divenir laborioso? C’era dunque un popolo animoso ch’era per divenire operoso? C’era dunque un popolo del medesimo linguaggio e del medesimo proposito?
Se quel popolo si fosse taciuto e avesse ripreso l’opera in silenzio, la Città sarebbe stata compiuta e avrebbe sola parlato per quel popolo con la sua grandezza ben commessa.
Era il giorno del solstizio; era il giorno della mietitura e della semenza; era il giorno della forza e della giovinezza, il giorno dell’abondanza e del fervore.
Chiesi rude a quella gente alata di guerra e di lontananza: «Che abbiamo noi dunque fatto del nostro cemento romano?»
Non v’era nelle pareti e nella volta se non l’informe e l’esanime cemento armato: quella nuova materia che attende la forma e l’anima dai creatori della nuova architettura, dagli artefici delle nuove case e dei nuovi templi.
«Che abbiamo dunque noi fatto del nostro cemento romano?»
Io dico che in quell’attimo i miei prossimi – i miei veri compagni dell’Ermada, di Pola, di Vienna, di Cattaro, del conteso Piave – dico che in quell’attimo sentirono la mia durezza di fabbro cementario. Fabroque cementario et fabro ferri...
Ma nessuno fiatò. C’era un gran motore interno che assordava tutti e ammutoliva tutti. Ero costretto a sganciare solo le parole come bombe dalla carlinga librata fra quattro scoppii.
«Sì, siamo in lotta, e bisogna che noi restiamo in lotta. Ma, per creare e per vincere, è necessario che noi solleviamo la lotta nella regione dello spirito.»
III
L’EPIFANIA DELLO SPIRITO
Su tanta carne agglomerata, su tanta soverchieria d’osso e di muscolo, su tanta prontezza di consiglio manesco, su tanta mischia e rissa di dentati appetiti, come mai l’invocazione dello spirito può aver tuttavia tanto potere?
Si spiritus pro nobis, quis contra nos?
Dev’esser vero che gli arcangeli esiliati si accrescano di potenza terrestre e di arcano dominio.
Io credetti vedere quasi un fulmineo baleno passare su tutte quelle fronti ingombre. O forse in ogni volatore seduto sussultò l’ala costretta?
C’è chi tuttora parla di non so qual mia caduta. C’è chi tuttora allude, presso il mio letto, presso il mio capezzale nitido, non già a una mia caduta mistica di arcangelo esiliato o d’angelo mutilato ma a non so qual mia caduta d’uomo.
E dov’era la mia ala? e dov’è la mia ala? Quali colpi hanno dunque potuto abbattermi se quelli, così spessi e così diritti, di quell’altro agosto nel cielo dell’Ermada, non valsero?
Sono stato dunque novamente colpito nel mio lato spento, in questo mio lato destro dove l’occhio destro è spento e dove è tuttavia appiccata questa mano destra che scrive senza pupilla?
Ma, quando io cieco ero coricato nel mio buio, sentivo di continuo in questo mio lato palpitare e sussultare e tremare e dolorare la mia ala costretta. Era un’ala notturna. Era l’ala del mio canto notturno.
È viva. È melodiosa in ogni fremito e in ogni brivido. È pronta; e non mi duole se non quando teme che lo sforzo della mia disciplina solitaria minacci di strapparle alcuna penna maestra.
O compagni del cielo, o compagni dell’altezza, aquile del lungo volo, ecco che sanno darvi questa testimonianza fraterna anche le mie ossa contuse e le mie carni piagate.
«Sì, siamo in lotta, e bisogna che noi restiamo in lotta.» Così parlava colui ch’era predicato pacificatore! Annunziatore di quale pace? V’è una pace alunna di Cerere, e v’è una pace alunna delle Muse o nutrice di esse Muse: Musarum altrix... Non servo l’una e non servo l’altra sopra i miei altari. Non chiedo che l’una e l’altra largiscano ozii agli stanchi: otia fessis. Talvolta il latino, che salva la pudicizia, dissimula anche la plebea crudezza dell’ironia.
Il mio dio non mi fece mai ozii vergiliani neppure nella convalescenza.
«Noi domandiamo ali» gridai a quegli alati in gabbia. «Noi domandiamo ali per la Patria. Noi domandiamo per la Patria il più gran numero di ali, la più grande possa di ali; perché le ali secondano oggi il senso vero della vita, che è la bramosìa di ascendere per fatica e dolore alla conquista dello spirito
IV
IL RAGGIO E L’AUREOLA
Vidi rinnovarsi il baleno al nome nominato. E pensai: «Se in un viso umano c’è un raggio, anche raro, si può dall’anima umana attendersi non soltanto l’alba, non soltanto l’aurora ma il meriggio.»
Ora mi viene in mente una mia parola d’insonne raccolta nel diario dei miei dottori, che registravano non soltanto le pulsazioni del mio cuore ma i pensieri del mio cuore informi. È sotto la data del 22 agosto. Eccola. «Non mi guardo nello specchio. E ho le palpebre socchiuse. Eppure vedo tutte le suture del mio cranio come se le rilavorassi col mio stesso cesello. Sono più nette e più animose e più espressive che le linee della mia palma o le vene delle mie tempie e dei miei polsi. L’arte ossea non ha nulla di tanto perfetto in me. Mi vanto a torto? O medico, rispondi. Ogni buon medico è sottile conoscitore di scultura e di cesellatura. È o non è ben commesso il mio cranio d’uomo adriatico? In ogni modo, è resistente a qualunque prova, è duro contro qualunque cozzo e qualunque percossa. Lo vedete, come io vedo sorridere Ippocrate. L’ho serbato fino a oggi intatto.»
Non era delirio il mio; né la benignità dei dottori si trasmutava in inquietudine. Tutta la massa del mio cervello era viva nella nobiltà palese del mio cranio. La stessa memoria rifiammeggiava come nelle crepe del forno fusorio.
Certo, qualcuno di voi sa, qualcuno di voi è per rischiarare il mio ricordo scolastico. Può essere che perfino Daniello Bartoli venga a tentarmi? «Il grande Ippocrate non si recò a vergogna il ritrattare alcune cose che scritte avea delle suture del capo.» Riconosco il suo accento. Non lo riconoscete? Ma che aveva mai scritto delle suture l’uomo di Coo?
I miei amici indulgenti sorridevano. Non m’ingannavo nell’ombra; ché il sorriso fraterno pareva rendere affettuosa l’ombra.
La pagina del diario è qui. È per me la prova delle mie divinazioni misteriose e delle mie segrete armonie. Se richiamò il sorriso dei miei familiari e se richiama ora il mio sorriso, richiamerà anche il sorriso opaco degli estranei.
È sotto la data del 22 agosto. «Non v’è ragione che voi non diate anche a me l’aureola.»
Queste sono parole dell’infermo, sono parole ingenue, raccolte di su le labbra pallide, trascritte senza sforzo d’acume.
Perché a un tratto si accordano con la illuminazione subitanea della gente alata?
Il mio capo è sollevato dal capezzale. La mia mano scrive ritrovando a ogni linea gli accorgimenti del Notturno.
Penso: «Io cerco il raggio in ogni viso umano. Io so discoprirlo anche in un viso bruto, o scavato dalla miseria o corrugato dal cruccio. Io so trasmutare il raggio in aureola. Non adopero il martello né l’incudine. Non amo abbarbagliare gli uomini. Fornisco l’opera in silenzio. E mi traggo in disparte. Ma l’opera splende e significa per me e per il santificato.»
Così penso, e non tr...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Nota all’edizione
  4. IL LIBRO ASCETICO DELLA GIOVANE ITALIA
  5. A nostra madre l’Italia. A nostra donna l’intelligenza
  6. La parola di Farsaglia
  7. Comandamenti della patria celestiali e terrestiali, nel culto dell’aspettazione
  8. Laude dell’illaudato
  9. Il sasso contro l’eroe
  10. Esempio italico del genio vittorioso, esposto ai giovani d’Italia
  11. Imagine dell’Italia, apparita presso il sepolcro d’un suo grande figlio
  12. Effigie dell’Italia, rialzata su la riva destra del suo fiume santo
  13. Comento meditato a un discorso improvviso
  14. Agli uomini milanesi per l’Italia degli italiani
  15. Messaggio del convalescente agli uomini di pena
  16. Tre preghiere dinanzi agli altari disfatti
  17. Sette documenti d’amore
  18. Commiato del canto
  19. Tavola delle sigle e delle abbreviazioni
  20. Notizia sul testo e note di commento
  21. Cronologia
  22. Le Prose di ricerca di Gabriele d’Annunzio disponibili in ebook
  23. Copyright