Il diavolo ha gli occhi azzurri
  1. 322 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Informazioni su questo libro

Hardy Cates è un uomo affascinante e ambizioso, un milionario nato in una famiglia povera, che ha costruito la propria fortuna da solo. Ed è determinato a portare avanti una sua vendetta privata contro i più ricchi petrolieri di Houston, i Travis. Haven è la figlia ribelle dei Travis, tornata a casa dopo due anni di matrimonio fallimentare con un uomo che non è mai piaciuto ai suoi, e ben decisa a non dare più retta al proprio cuore. Ma quando il suo sguardo incrocia quello di Hardy, la giovane donna si renderà conto che non si può resistere alla tentazione di un diavolo dagli occhi azzurri. Entrambi finiranno preda di un sentimento che nessuno dei due può - o vuole - contrastare. Soprattutto quando una minaccia terribile emergerà dal passato della ragazza, e solo Hardy potrà salvarla¿

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2012
Print ISBN
9788804595946
eBook ISBN
9788852032677
LISA KLEYPAS

IL DIAVOLO
HA GLI OCCHI
AZZURRI

Traduzione di Roberto Agostini e Martha Agostini
Mondadori

Il diavolo ha gli occhi azzurri

A mio marito Greg…
un gentiluomo e un uomo gentile.
Ti amerò sempre.

1

La prima volta che lo vidi fu al matrimonio di mio fratello, sotto il tendone del ricevimento.
Era in piedi, in una posa insolente e svogliata di chi avrebbe preferito trovarsi in piscina. Vestito in modo impeccabile. Ma chiaramente non si trattava del tipo che si guadagna da vivere seduto a una scrivania. Nessun capo Armani sarebbe riuscito a ridimensionare quella corporatura massiccia e prestante, da operaio dei pozzi di trivellazione o da cowboy abituato a montare tori ai rodei. Le sue lunghe dita, strette attorno a una flûte di champagne, avrebbero potuto spezzarne il gambo di cristallo con facilità.
Mi bastò uno sguardo per rendermi conto che si trattava di uno di quei bravi ragazzi che vanno a caccia, giocano a calcio o a poker e reggono l’alcol. Non proprio il mio tipo. Io ero interessata a qualcosa di più.
Tuttavia aveva un che di affascinante. Era decisamente bello nonostante la curva del naso che doveva essersi rotto in passato. I capelli bruni, folti e lucenti come pelliccia di visone, erano scalati. Ma furono gli occhi ad attirare la mia attenzione. Azzurri, di una intensità che non si poteva dimenticare una volta vista. Provai una scossa elettrica, quando girò lo sguardo nella mia direzione, fissandomi per un attimo.
Mi voltai immediatamente dall’altra parte, imbarazzata per essere stata sorpresa a spiarlo. Eppure mi sentivo ancora sotto il suo sguardo, sapevo che mi stava fissando perché un’ondata di calore mi stava avvolgendo la pelle. Terminai il mio champagne in rapidi sorsi, lasciando che le bollicine effervescenti calmassero i miei nervi. Soltanto dopo, arrischiai un’altra occhiata verso di lui.
Quegli occhi azzurri scintillavano con barbaro incanto. Un debole sorriso era infilato in un angolo della larga bocca. “Non vorrei davvero trovarmi sola in camera con quel tipo” pensai. Il suo sguardo scivolò verso il basso, come in una pigra ispezione, poi tornò a sollevarsi sul mio volto. E allora mi fece uno di quei rispettosi cenni del capo che i maschi del Texas hanno elevato a forma d’arte.
Questa volta mi girai di proposito dall’altra parte, indirizzando tutta l’attenzione su Nick, il mio ragazzo. Guardammo i novelli sposi danzare, i loro volti accostati. E mi alzai sulle punte dei piedi per sussurrare all’orecchio di Nick: «I prossimi saremo noi».
Mi fece scivolare un braccio intorno alla vita. «Vedremo cosa ne dirà tuo padre.»
Nick aveva intenzione di chiedere a papà la mia mano. Una tradizione che io ritenevo antiquata e ormai superflua. Ma il mio ragazzo era un testardo.
«E cosa succede se papà non concede la sua approvazione?» chiesi. Considerato l’andamento della nostra famiglia – era raro che facessi qualcosa con l’approvazione di mio padre – si trattava di una possibilità mica tanto remota.
«Ci sposeremo lo stesso.» Indietreggiando un po’, Nick mi sorrise. «Però, non mi dispiacerebbe convincerlo che non sono un così cattivo partito.»
«Tu sei la cosa migliore che mi sia mai capitata.» Mi rannicchiai nella curva del suo braccio. Pensavo che fosse un miracolo essere tanto amata da qualcuno quanto mi amava Nick. Nessun altro uomo, fosse stato anche un adone, riusciva minimamente a interessarmi.
Ricambiando il sorriso, gettai un’altra volta uno sguardo di lato, chiedendomi se l’uomo dagli occhi azzurri fosse ancora lì. Non so perché, ma provai un gran sollievo quando vidi che era andato via.
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Mio fratello Gage aveva insistito per fare una cerimonia ristretta. Soltanto un gruppetto di persone era stato invitato nella piccola cappella di Houston, la stessa usata dai conquistadores spagnoli nel XVII secolo. Il rito era stato breve ma stupendo, l’atmosfera vibrava di tanta soffusa dolcezza che potevi sentirla fin sotto i piedi.
Il ricevimento, invece, era come un circo.
Si svolgeva nella nostra dimora, la villa dei Travis a River Oaks, una zona esclusiva di Houston i cui abitanti avevano molte più cose da confessare ai commercialisti che ai sacerdoti. Dal momento che Gage era il primo dei giovani Travis a sposarsi, papà intendeva approfittare dell’occasione per impressionare il mondo. O per lo meno il Texas, che nella visione di papà era la parte di mondo che soprattutto valeva la pena impressionare. Come molti altri texani, mio padre credeva fermamente che, se nel 1845 non fosse avvenuta l’annessione agli Stati Uniti, con ogni probabilità saremmo divenuti i leader del Nord America.
Così, per la reputazione familiare e per il fatto che gli occhi di tutto il Texas sarebbero stati puntati su di noi, papà aveva assunto una wedding planner, condensando in cinque parole le sue istruzioni: «Eccole il libretto degli assegni».
Mio padre, Churchill Travis, era un noto mago dei mercati finanziari. Aveva creato un fondo d’investimento internazionale nel settore dell’energia, che era quasi raddoppiato nei primi dieci anni di vita. Il fondo comprendeva produttori di petrolio e gas, costruttori di oleodotti e gasdotti, fornitori di energia alternativa e carbone, in rappresentanza di quindici nazioni. Da piccola, non vedevo quasi mai papà; si trovava sempre in qualche remota località, a Singapore, in Nuova Zelanda o Giappone. Si recava spesso anche a Washington D.C. per pranzare con il presidente della Federal Reserve, o a New York per presiedere qualche tavola rotonda in uno dei programmi televisivi sulla finanza. Fare colazione con mio padre significava sintonizzarsi sulla CNN e guardarlo negli studi televisivi analizzare i trend di mercato mentre noi, a casa, sbocconcellavamo i nostri waffles.
Dotato di un timbro di voce profondo e di una personalità esuberante, papà mi era sempre sembrato un uomo imponente. Soltanto quando divenni adolescente, mi resi conto che fisicamente non era poi così alto, tuttavia un galletto che dominava il pollaio. Disprezzava l’arrendevolezza e temeva che i suoi quattro figli – Gage, Jack, Joe e io – fossero viziati. Perciò quando era fra noi, si prendeva la briga di somministrarci massicce dosi di realismo, come cucchiaiate di un’amara medicina.
Quando mia madre Ava era ancora viva, era copresidente dell’annuale Festival del libro del Texas e durante le pause andava a fumare con Kinky Friedman, il folksinger scrittore. Era una donna affascinante: le sue erano le gambe più sexy di River Oaks e le feste che organizzava le più divertenti. Come si diceva allora, aveva la classe di una Dr Pepper alla spina. Dopo averla incontrata, gli uomini davano al papà del “fortunato bastardo”, cosa che gli faceva un tremendo piacere. Lei era più di quanto lui meritasse, aveva proclamato papà a ogni occasione. Affermazione che, però, di solito concludeva con un risolino di scherno, perché aveva sempre creduto di meritare più di quello che gli sarebbe spettato.
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Settecento ospiti furono invitati al ricevimento, ma se ne presentarono mille. La gente affollava le sale della nostra villa e all’aperto si stipava sotto l’enorme tendone bianco, ricoperto da milioni di lucine incantevoli e tappezzato da orchidee bianche e rosa. Nel caldo umido della serata primaverile le decorazioni floreali spandevano dolci effluvi profumati.
L’interno era rinfrescato dall’aria condizionata. La sala del buffet era divisa in due da un bancone frigorifero, lungo una decina di metri e ricolmo di ogni genere di frutti di mare. C’erano dodici sculture di ghiaccio fra cui una scolpita a mo’ di fontana di champagne e un’altra a mo’ di fontana di vodka costellata di caviale. Camerieri in guanti bianchi riempivano di vodka ghiacciata i calici e versavano il caviale su piccoli blini alla panna acida e uova di quaglia in salamoia.
Il buffet caldo, invece, offriva zuppiere di bisque di aragosta e, negli scaldavivande, fette di filetto affumicato al pecan, tonno grigliato e almeno una trentina di antipasti diversi. Avevo partecipato a numerose feste e cerimonie a Houston, ma in vita mia non avevo mai visto tanto cibo accumulato in un unico posto.
Giornalisti dell’«Houston Chronicle» e del «Texas Monthly» erano presenti e avrebbero parlato del ricevimento cui partecipavano ospiti importanti, come l’ex governatore e il sindaco, un famoso conduttore televisivo, gente di Hollywood e petrolieri. Tutti in attesa di Gage e Liberty, che si erano attardati alla piccola cappella per fare le fotografie.
Nick era abbastanza stordito. Proveniva da una rispettabile famiglia della media borghesia e un tale spettacolo era uno shock per i suoi valori. Anche la mia coscienza sociale, sebbene alle prime armi, era imbarazzata da tanti eccessi. Ero cambiata da quando avevo frequentato Wellesley, il college femminile il cui motto era «Non ministrari, sed ministrare»(“Non essere serviti, ma servire”). Avevo pensato che fosse un buon precetto da imparare, per una come me.
I miei familiari mi avevano preso in giro, dicendo che stavo attraversando una fase liberal. Papà, soprattutto, pensava che fossi il campione vivente della ragazza privilegiata che a un certo punto viene presa dal senso di colpa per le sue ricchezze.
Diressi la mia attenzione nuovamente alle lunghe tavolate con le vivande. Avevo organizzato tutto in modo tale che il cibo rimasto venisse distribuito ad alcuni ricoveri per i poveri di Houston. La mia famiglia l’aveva trovata una buona idea. Ma mi sentivo egualmente in colpa. Una falsa liberal, in coda per il caviale.
«Lo sapevi» chiesi a Nick mentre avanzavamo verso la fontana di vodka «che bisogna scavare l’equivalente di una tonnellata di rifiuti per trovare un diamante? Di conseguenza, per produrre tutti i diamanti che ci sono in questa stanza, bisognerebbe scavare quasi l’intera Australia.»
Nick finse di essere sbalordito. «L’ultima volta che ho controllato, l’Australia si trovava ancora al suo posto.» Fece scorrere le punte delle dita sulla mia spalla nuda. «Non prendertela, Haven. Non devi provarmi nulla. So chi sei.»
Eravamo entrambi texani, ma c’eravamo incontrati nel Massachussets. Io ero andata al Wellesley e Nick al Tufts. Lo avevo incrociato a una festa ispirata al tema “Il giro del mondo”, organizzata in un grande centro escursionistico di Cambridge. A ogni stanza era stata assegnata una nazione differente, con la bevanda tipica. Vodka per la Russia, whisky per la Scozia, e via dicendo.
In qualche punto, tra il Sud America e il Giappone, andai a sbattere contro un ragazzo dai capelli scuri, con occhi brillanti color nocciola e un sorriso sicuro. Aveva un lungo corpo flessuoso da corridore e l’aria da intellettuale.
Con mio grande piacere, mi si rivolse con l’accento texano: «Forse dovresti concederti una pausa nel tuo tour mondiale. Almeno, finché non sei di nuovo sicura sulle gambe.»
«Sei di Houston» dissi.
Il suo sorriso si distese nell’udire il mio accento. «Nossignora.»
«San Antonio?»
«No.»
«Austin? Amarillo? El Paso?»
«No. No. E, grazie a Dio, neppure.»
«Allora sei di Dallas» notai con dispiacere. «Peccato, praticamente sei uno yankee.»
Nick mi condusse fuori, dove ci sedemmo sui gradini e parlammo per due ore nel freddo pungente.
Ci innamorammo subito. Ero pronta a qualsiasi cosa per Nick, a seguirlo dovunque. Ci saremmo sposati. E sarei diventata la moglie di Nicholas Tanner. Haven Travis Tanner. Nessuno poteva fermarmi.
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Quando finalmente giunse il mio turno di ballare con papà, Al Jarreau stava cantando il melodioso ritornello di Accentuate the Positive. Nick era andato al bar coi miei fratelli Jack e Joe, e ci saremmo rivisti più tardi.
Nick era il primo uomo che avevo portato a casa. Il primo uomo che avevo amato. E l’unico con cui fossi andata a letto. Non avevo avuto molte occasioni o altri appuntamenti. Quando la mamma era morta di tumore, avevo quindici anni. E per un paio di anni dopo mi ero sentita troppo giù, troppo in colpa, anche solo al pensiero di avere delle amicizie. Poi ero andata al college femminile, ottimo per la mia educazione ma non altrettanto per la mia vita sentimentale.
Non era stato...

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