
- 210 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Al Faro
Informazioni su questo libro
Una meta ricca di misteriosi significati è per il piccolo James Ramsay la gita al faro in una delle isole Ebridi. Ma dopo molti anni la tanto attesa traversata si rivelerà una delusione. Uno dei romanzi più importanti della scrittrice inglese (1882-1941).
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Informazioni
Print ISBN
9788804556992eBook ISBN
9788852035968I
La finestra
1
«Sì, certamente, se domani è bello» disse la signora Ramsay. «Ma ti dovrai svegliare con l’allodola» aggiunse.
Al figlio queste parole dettero una gioia straordinaria, come se fosse ormai deciso che la spedizione ci sarebbe stata senz’altro, e il miracolo atteso, gli sembrava, da anni e anni, fosse ora a portata di mano, dopo le tenebre di una notte e la navigazione di un giorno. All’età di sei anni, apparteneva già a quel vasto gruppo di persone che non sanno tener separato un sentimento dall’altro, ma piuttosto lasciano che le immaginazioni del futuro, con le loro gioie e dolori, offuschino ciò che è già qui; perché fin dalla prima infanzia qualsiasi oscillazione nella ruota della sensibilità ha il potere di cristallizzare e fissare l’attimo, da cui la tristezza o l’euforia dipendono. Perciò James Ramsay, seduto lì sul pavimento, intento a ritagliare le figurine dal catalogo illustrato dei Magazzini dell’Unione Militare, alle parole della madre riversò un’ondata di felicità paradisiaca sulla figura del frigorifero. Gli orli sprizzavano gioia. La carretta, la falciatrice, il fruscio dei pioppi, le foglie che prima della pioggia schiariscono, le cornacchie che gracchiano – ogni cosa nella mente di lui aveva il suo proprio colore e carattere, di tutto s’era fatto già il suo codice personale, la sua lingua segreta, anche se a guardarlo sembrava l’immagine della severità incorruttibile, assoluta, con la fronte alta, i fieri occhi azzurri, impeccabilmente candidi e schietti, leggermente accigliati al cospetto della fragilità umana: tanto che sua madre osservandolo mentre guidava con mosse precise le forbici intorno alla figura che ritagliava, se lo immaginò tutto vestito di porpora e d’ermellino a presiedere una corte di giustizia, o alla guida di una qualche impresa ardua e decisiva, in un momento di crisi della vita pubblica.
«Ma» disse il padre, in piedi di fronte alla finestra del salotto, «non sarà bello.»
Ci fosse stato lì accanto un’accetta, un attizzatoio, o un qualsiasi altro arnese per squarciare il petto del padre e ucciderlo lì, all’istante, James l’avrebbe afferrato. Così estrema era l’emozione che Ramsay suscitava nel petto dei figli con la sua sola presenza, semplicemente stando lì in piedi, come adesso, asciutto che pareva un coltello affilato, stretto, che sembrava una lama, con quella smorfia sarcastica di piacere all’idea di deludere il figlio, e contraddire la moglie, che era diecimila volte meglio di lui sotto ogni aspetto (così pensava James); ma anche con un certo gusto segreto per la propria accuratezza di giudizio. Quello che diceva era vero. Era sempre vero. Era incapace di falsità. Non corrompeva i fatti, non alterava una parola sgradevole per assecondare il piacere o l’interesse di un altro, meno che mai dei suoi figli, che generati dai suoi lombi dovevano rendersi conto fin dall’infanzia che la vita è difficile, i fatti incorruttibili, e il passaggio a quella terra favolosa – dove si estinguono le nostre speranze più luminose e naufragano nelle tenebre le nostre fragili scorze (qui Ramsay raddrizzava la schiena e aguzzava le fessure strette degli occhi azzurri verso l’orizzonte) – un passaggio che richiede soprattutto coraggio, amore di verità, e forza di resistenza.
«Ma potrebbe anche essere bello – credo proprio che sarà bello» disse la signora Ramsay, piegando leggermente spazientita il calzerotto marrone che stava facendo. Se lo finiva stasera, e riuscivano dopo tutto ad andare al Faro, avrebbe dato i calzerotti al guardiano per il suo bambino, che era minacciato di tubercolosi all’anca; insieme, gli avrebbe portato una pila di vecchie riviste, un po’ di tabacco, e in più qualsiasi cosa avesse trovato per casa di superfluo, che stava lì a impicciare le stanze, mentre avrebbe fatto piacere a quella povera gente che doveva annoiarsi a morte, a stare tutto il giorno lì senza far nulla, se non ripulire il fanale, pareggiarne il lucignolo, setacciare quel fazzoletto d’orto. A voi piacerebbe stare rinchiusi un mese intero per volta, e magari col brutto tempo, su uno scoglio non più grande di un campo da tennis? Senza lettere, senza giornali, senza vedere nessuno? Se uno è sposato, senza vedere la moglie, senza sapere come stanno i bambini, se si sono ammalati, se sono caduti e si sono rotti una gamba o un braccio? Sempre lì a guardare la stessa onda che si rompe monotona settimana dopo settimana e poi magari viene una tempesta tremenda, e le finestre si coprono di schiuma, e gli uccelli sbattono contro il fanale, e tutto rulla e non si può neppure mettere il naso fuori della porta per paura di essere travolti? Vi piacerebbe? domandava, rivolgendosi soprattutto alle figlie. Perciò, aggiungeva cambiando tono, bisogna portargli più cose che si può.
«È ponente» disse Tansley, l’ateista, tenendo alzate le dita ossute della mano aperta, perché il vento ci soffiasse in mezzo, mentre accompagnava Ramsay in su e in giù per il terrazzo. E cioè, il vento soffiava nella direzione peggiore per l’approdo al Faro. Sì, riusciva sempre a dire cose spiacevoli, ammise la signora Ramsay. Era odioso da parte sua insistere, voler ancora deludere James; ma no, non avrebbe lo stesso permesso alle ragazze di ridergli dietro. “L’ateista” lo chiamavano, “il piccolo ateista”. Rose lo prendeva in giro, Prue lo prendeva in giro, Andrew, Jasper, Roger lo prendevano in giro; e anche il vecchio Badger senza più un dente in bocca l’aveva beccato per il fatto di essere (secondo le parole di Nancy) il centesimo giovanotto che li aveva inseguiti fino alle Ebridi, quando sarebbe stato tanto meglio starsene lì da soli.
«Sciocchezze» disse la signora Ramsay, con grande severità. A parte l’abitudine all’esagerazione che avevano preso da lei, e l’allusione (peraltro esatta) ai troppi ospiti che lei invitava, che dovevano poi alloggiare in paese, non poteva sopportare la minima scortesia verso quei giovanotti, che erano sì poveri in canna, ma anche «eccezionalmente bravi», come diceva suo marito, suoi grandi ammiratori, e venivano qui per riposarsi. La verità era che l’intero sesso maschile era sotto la sua protezione, per ragioni che non sapeva spiegare, forse per il loro spirito cavalleresco, o per il loro valore, perché gli uomini negoziavano trattati, governavano l’India, controllavano le finanze; al fondo al fondo forse per l’atteggiamento che avevano verso di lei, che nessuna donna avrebbe mancato di trovare gradevole. C’era una fiducia, un che di infantile, reverenziale, che una donna di una certa età poteva accettare da un giovane senza perdere in dignità, e guai alla fanciulla – preghiamo il cielo che non fosse così nessuna delle sue figlie! – che non sapesse apprezzare fino al midollo quella cosa lì, e tutto quello che comportava.
Si volse verso Nancy con severità. Non li aveva inseguiti, disse. Era stato invitato.
Dovevano trovare un’altra soluzione. Doveva esserci un modo più semplice, meno laborioso, sospirò. Quando si guardava allo specchio e si vedeva a cinquant’anni, coi capelli grigi, le guance scavate, pensava che forse avrebbe potuto fare di più – con suo marito, i soldi, i libri. Ma da parte sua neppure per un istante rimpiangeva le scelte fatte; non avrebbe voluto evitare le difficoltà, né trascurare i suoi doveri. Faceva paura a guardarla, ora, e fu solo in silenzio, alzando lo sguardo dal piatto, dopo che con tale severità s’era espressa a favore di Tansley, che le figlie, Prue, Nancy e Rose – ripresero a trastullarsi all’idea di tradimenti che s’immaginavano, sogni di una vita diversa dalla sua, forse a Parigi, una vita più libera, non sempre a pensare a quell’uomo o a quell’altro. Perché c’era in mente loro un muto sospetto riguardo la deferenza e la cavalleria, la Banca d’Inghilterra e l’Impero Indiano, dita inanellate e pizzi, anche se in tutto questo c’era pur sempre qualcosa di bello, che destava virtù virili nei loro cuori di ragazze, e faceva sì che ammirassero, sedute lì a tavola, sotto gli occhi della madre, la strana severità e l’estrema cortesia di lei, che pareva una regina che sollevi dal fango il piede sporco di un mendicante per lavarlo, quando così le ammoniva severa a proposito di quell’ateo sciagurato che li aveva inseguiti. O per parlare più propriamente che era stato invitato da loro – nell’isola di Skye.
«Domani non ci sarà modo di approdare al Faro» disse Charles Tansley, battendo le mani, in piedi alla finestra, accanto a suo marito. Aveva già parlato abbastanza. Magari li avessero lasciati soli lei e James, e avessero continuato a parlare tra di loro. Lo guardò. Era un campione umano talmente miserabile, dicevano i ragazzi, tutto gobbe e fosse. Non sapeva giocare a cricket, si muoveva impacciato, a strattoni, strascicando i piedi. Era un bruto pieno di sarcasmo, diceva Andrew. Sapevano che cosa gli piaceva tanto – andare su e giù, su e giù, con Ramsay, e dire chi aveva vinto questo e quest’altro, chi era l’uomo di «prim’ordine» in poesia latina, il quale era «brillante anche se a mio avviso fondamentalmente corrotto», ma senza dubbio lo studioso «più bravo» a Balliol; chi aveva temporaneamente seppellito i propri lumi a Bristol o Bedford, ma era destinato a far parlare di sé, quando avrebbero visto la luce del giorno i suoi Prolegomena a un ramo della matematica o della filosofia, di cui Tansley aveva le prime bozze con sé, in caso Ramsay volesse vederle. Di questo parlavano quei due.
Lei non poteva fare a meno di ridere talvolta. L’altro giorno aveva parlato di «onde alte come montagne». Sì, aveva ripetuto Charles Tansley, il mare era un po’ agitato. «Non s’è infradiciato tutto?» aveva chiesto lei. «Sono bagnato, ma non fradicio» aveva risposto Tansley, strizzandosi la manica, tastandosi i calzini.
Ma non era quello che li infastidiva, dicevano i ragazzi. Non era la faccia, non erano i suoi modi. Era proprio lui – il suo punto di vista. Quando parlavano di qualcosa di interessante, di musica, di storia, della gente, di qualsiasi cosa; se dicevano ad esempio che era una bella serata, perché non ci sediamo in giardino, allora ciò che non sopportavano di Charles Tansley era che finché non aveva rivoltato la cosa da ogni lato in modo che mettesse in risalto lui, e loro in cattiva luce; e finché non li aveva fatti innervosire tutti col suo modo acido di togliere il succo alle cose, non si dava pace. Era capace di andare in un museo, dicevano, e di chiedere a uno che incontrava, le piace la mia cravatta? E dio sa, diceva Rose, non piacevano a nessuno.
Scomparendo da tavola furtivi come spie, appena finita la cena, gli otto figli dei Ramsay si ritiravano nelle loro camere, fortezze inespugnabili in una casa dove non si riusciva a stare da soli, e si discuteva di tutto, di qualsiasi cosa: la cravatta di Tansley, il progetto di riforma, gli uccelli marini, le farfalle, la gente. Intanto il sole – battendo su quelle soffitte che dei semplici tavoloni separavano l’una dall’altra, sì che si sentivano chiaramente i passi, o i singhiozzi della ragazza svizzera in lacrime per il padre che stava morendo di cancro in una valle dei Grigioni – illuminava le mazze, i completi in flanella, i cappelli di paglia, i calamai, le boccette di colori, gli scarabei, e i teschi, gli uccelletti; e dalle lunghe filze di alghe, appese alla parete a seccare, cavava un odore di sale e di erba, che restava impregnato negli asciugamani ruvidi di sabbia.
Conflitti, divisioni, contrasti di opinione, pregiudizi si insinuavano fino nella più intima fibra dell’essere; no, non si dovrebbe cominciare così presto, si lamentava la signora Ramsay. Erano così difficili i suoi ragazzi. Dicevano certe assurdità. Tenendo per mano James, che non voleva andare con gli altri, uscì dalla sala da pranzo. Le sembrava così sciocco inventarsi contrasti, quando la gente, sa il cielo, si combatte già tanto di suo. I veri contrasti, pensò, in piedi contro la finestra del soggiorno, sono abbastanza, proprio abbastanza. Le venivano in mente a quel punto i ricchi e i poveri, gli umili e i potenti, i grandi per nascita ricevendo da lei, un po’ a malincuore, un certo rispetto, perché non aveva lei forse nelle vene il sangue di quella nobilissima, per quanto un po’ mitica, casata italiana, le cui figlie, disperse nell’Ottocento in vari salotti inglesi, avevano con tanta grazia balbettato, o con tanta violenza dato sfogo alla passione? Non venivano forse il suo spirito e il suo portamento e il suo carattere proprio da loro? Senz’altro non dall’indolenza inglese, né dalla freddezza scozzese. Ma più profondamente ruminava intorno all’altro problema dei ricchi e dei poveri, delle cose che vedeva coi suoi occhi ogni settimana, ogni giorno, qui o a Londra, quando andava a trovare di persona quella tale vedova, o quella certa moglie in difficoltà, con una borsa sotto il braccio, e un taccuino in cui annotava con cura, in colonne ordinate allo scopo, il salario e le spese, occupato e disoccupato, nella speranza che così avrebbe smesso di essere semplicemente una donna la cui carità era qualcosa a metà tra un contentino per tacitare la propria indignazione e uno sfogo alla propria curiosità; e sarebbe diventata ciò che lei nella sua ignoranza tanto ammirava: un lucido analista dei problemi sociali.
Questioni insolubili, le sembrava, mentre se ne stava lì, in piedi, tenendo James per mano. Il giovanotto di cui ridevano l’aveva seguita in soggiorno. Era accanto al tavolo, e giocherellava con qualcosa, imbarazzato, a disagio, lo sentiva senza neppure guardarlo. Se n’erano andati tutti – i ragazzi, Minta Doyle e Paul Rayley, Augustus Carmichael, suo marito – tutti. Così si voltò con un sospiro e chiese: «Le dispiacerebbe venire con me, Tansley?».
Doveva sbrigare una commissione noiosa in paese, ma prima doveva scrivere qualche lettera, le bastavano dieci minuti, non di più; andava subito a mettersi il cappello. E con il cesto e il parasole, eccola lì di nuovo, dieci minuti più tardi, sfoggiando un’aria di esser pronta, perfettamente equipaggiata per la gita, che tuttavia dovette subito interrompere giusto un attimo, mentre passavano davanti ai campi da tennis, per chiedere a Carmichael che si crogiolava al sole con gli occhietti gialli socchiusi – proprio occhi da gatto, che come quelli riflettevano i rami ondulanti o le nuvole in movimento, ma non davano alcun indizio di pensieri interiori o di una qualche emozione – se voleva qualcosa.
Loro due andavano in spedizione, disse ridendo. Andavano in paese. «Francobolli, carta da lettere, tabacco?» suggerì, fermandosi al suo fianco. No, lui non aveva bisogno di nulla. Con le mani incrociate sul grosso pancione, sbatté le palpebre ammiccante, come volendo rispondere con gentilezza a quelle lusinghe (la signora era seduttiva ma un po’ nervosa), senza però riuscirci, affondato com’era in quella sonnolenza grigio-verde che avvolgeva, senza bisogno di parole, in una vasta e indulgente letargia amorosa, tutti: la casa intera, tutto il mondo, tutti gli abitanti del mondo – perché a pranzo s’era versato nel bicchiere alcune gocce di qualcosa che spiegavano, secondo i ragazzi, quel tocco squillante di giallo canarino sui baffi e sulla barba, per il resto bianchi come il latte. Non aveva bisogno di nulla, mormorò.
Sarebbe diventato un grande filosofo, disse la signora Ramsay, mentre scendevano lungo la strada che portava al villaggio dei pescatori; se non avesse fatto un matrimonio sfortunato. Tenendo ben diritto il parasole nero, e procedendo con un’indescrivibile aria di attesa, come se stesse per incontrare qualcuno dietro l’angolo, gli raccontò tutta la storia: un’avventura con una ragazza di Oxford, un matrimonio precoce, la povertà, la partenza per l’India, la traduzione di qualche poesia, «benissimo, credo», l’intenzione di insegnare il persiano o l’indostano, ma a che serviva? – e poi, come avevano visto, eccolo lì sdraiato sul prato.
Lo lusingava, mortificato come s’era sentito prima, che la signora Ramsay gli dicesse tutto questo. Charles Tansley si sentì rinascere. Con l’allusione alla grandezza intellettuale dell’uomo, seppure in declino, e alla sua soggezione di fronte alle donne – non che biasimasse la ragazza, anzi il matrimonio era stato abbastanza felice, credeva lei – e alle fatiche dei mariti, lei lo fece sentire più contento di se stesso di quanto fosse mai stato, e gli sarebbe piaciuto, nel caso avessero preso un taxi, ad esempio, di pagarlo. E la borsetta, non poteva portarla lui? No, no disse lei; se l’era sempre portata da sola, la borsetta. E così ora. Sì, l’aveva capito. Capiva molte cose, in particolare una che lo eccitava e lo disturbava per ragioni che non sapeva spiegare. Gli sarebbe piaciuto che lei lo vedesse in toga e tocco in un corteo. Una libera docenza, una cattedra – si sentiva capace di tutto, e si vide – ma che cosa s’era messa a guardare, lei? Un uomo che attaccava un manifesto. Il grande foglio svolazzante si distese rivelando a ogni colpo di pennello più gambe, più cerchi, cavalli, dei rossi e degli azzurri accesi, stupendamente uniformi, finché metà della parete fu ricoperta da un manifesto di circo, cento cavallerizzi, venti foche ammaestrate, leoni, tigri… Allungando il collo, poiché era miope, lesse: «… sarà in paese». Era un lavoro troppo pericoloso, esclamò lei, per un uomo con una mano sola: stare in cima a una scala così. Il braccio sinistro gliel’aveva mozzato una trebbiatrice due anni fa.
«Andiamoci tutti» esclamò, riprendendo il cammino, come se tutti quei cavalieri e cavalli l’avessero riempita di un’euforia puerile e le avessero fatto dimenticare la sua pietà.
«Andiamoci» disse lui, ripetendo le parole di lei, ma sillabandole con un impaccio che la fece trasalire. «Andiamo al circo.» No, non lo sapeva dire. Non lo sapeva sentire. Che cosa c’era in lui di sbagliato? In quell’istante, lei lo compatì. Non li avevano mai portati al circo da piccoli? chiese. Mai, rispose lui, come se gli avessero chiesto proprio la cosa a cui voleva rispondere, e da giorni volesse raccontare che la sua famiglia no, non andava al circo. Era una famiglia numerosa, la sua: nove tra fratelli e sorelle, e suo padre lavorava per vivere. «È un farmacista, mio padre, signora Ramsay. Ha una farmacia.» Lui si guadagnava da vivere da quando aveva tredici anni. Spesso d’inverno usciva senza cappotto. All’università non poteva mai «ricambiare gli inviti» (furono le sue formali, secche parole). Doveva far durare le cose il doppio degli altri, fumava il tabacco meno caro, quello trinciato, che fumano i vecchi sul molo. Lavorava duro – sette ore al giorno; si occupava dell’influenza di un tale su un tale… Intanto continuavano a camminare e la signora Ramsay non afferrava bene il senso dei suoi discorsi, sentiva solo delle parole, qui e là… libera docenza… lettorato… cattedra… Non era in grado neppure di seguire quel brutto gergo accademico, che si snocciolava da solo con tanta scioltezza, ma si disse che ora capiva perché l’idea di andare al circo l’avesse fatto cadere dal piedistallo, quel poverino, e perché all’istante avesse tirato fuori tutte quelle storie del padre e della madre e i fratelli e le sorelle, e lei sarebbe stata attenta che non lo prendessero in giro. L’avrebbe detto a Prue. Gli sarebbe piaciuto, immaginò, poter dire che cosa aveva detto di Ibsen dai Ramsay. Ma si dava di quelle arie, oh, sì, era un noioso insopportabile. Tant’è vero che erano già in paese, nella strada principale, e con le vetture che passavano stridendo sull’acciottolato, lui continuava a parlare di compensi, di insegnamento, di operai, di solidarietà di classe, di conferenze; finché lei ne concluse che aveva recuperato tutta intera la fiducia in se stesso, s’era ripreso dall’idea del circo, e stava per dirle (e lei di nuovo provò affetto per lui) – ma qui, le case essendo ormai scomparse da entrambi i lati, erano giunti alla banchina, e la baia si apriva tutta di fronte a loro e la signora Ramsay non poté fare a meno di esclamare: «Oh che bello!». Il vasto specchio d’acqua azzurra le stava di fronte: l’antico Faro distante, austero, al centro; e sulla destra, fin dove l’occhio poteva arrivare, le verdi dune coperte di erbe selvagge, digradavano in pieghe morbide, profonde, come se corressero via verso un paesaggio lunare, spopolato.
Questa era la vista, disse lei, fermandosi, gli occhi sempre più grigi, che suo marito amava.
Si interruppe un momento. Ma ora, disse, erano arrivati gli artisti. Proprio pochi passi più in là ce n’era uno, col cappello di Panama e gli stivali gialli, che, malgrado fosse vigilato da dieci ragazzini, con un’aria di profonda soddisfazione sulla faccia rossa e rotonda, stava lì, serio, attento, concentrato; in silenzio guardava e dopo aver guardato, intingeva la punta del pennello in una soffice montagnola di verde o di rosa. Da quando Paunceforte era arrivato lì, tre anni fa, tutti i suoi dipinti erano così, disse, verdi e grigi, con delle barche a vela color giallo limone, e delle donne rosa sulla spiaggia.
Ma gli amici di sua nonna, disse, dando un’occhiata distratta nel passare, faticavano molto di più. ...
Indice dei contenuti
- Copertina
- di Virginia Woolf
- Al Faro
- Virginia Woolf
- AL FARO
- I. La finestra
- II. Il tempo passa
- III. Il Faro
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