Geppi Cucciari
MEGLIO UN UOMO OGGI
A Itria, Giorgio, Carlo,
Franco e Rosaria:
hanno messo al mondo
chi ha reso più bello il mio.
E a mio marito, ovunque sia.
Secondo la tradizione popolare diversi elementi hanno un ruolo importante il giorno del matrimonio. Assolta la pratica relativa al rinvenimento dell’uomo da maritare, la sposa per essere certa di essere baciata dalla fortuna dovrebbe indossare una cosa blu, una prestata, una nuova e una vecchia.
Se il giorno del matrimonio di una donna è talmente atteso da farle rischiare che la cosa vecchia sia proprio lei, tutto può sembrare diverso.
La sera del nostro appuntamento arrivo quasi puntuale al ristorante in cui Lucia e Stefania mi aspettano. Sono sedute l’una di fronte all’altra, a un tavolo appartato, mute e con espressione quaresimale. Le mie amiche, sarde come me e come me a Milano da anni, sembrano una coppia di fidanzati in crisi fuori a cena al ristorante, che aprono la bocca solo per mangiare e parlare col cameriere.
Appoggio il sacchettino di plastica della farmacia sulla tovaglia. Lucia non lo degna di uno sguardo, si limita a fissare il vuoto. E vuoti sono i due cestini del pane di fronte a Stefania, testimonianza del fatto che a lei neppure le preoccupazioni tolgono l’appetito. Anzi: noto che non disdegna di inumidirsi il dito e picchiettarlo sul tavolo per farci restare attaccati i semi di sesamo sparsi sulla tovaglia, e mangiare pure quelli.
Con un inconfondibile, secco movimento laterale della testa faccio loro cenno di seguirmi. Ci chiudiamo nell’antibagno: una cosa normale, per tre donne con un problema.
Sbatto la porta in faccia a una ragazza che tenta di entrare e restiamo sole.
«Ma scusate, siete sicure che sia il caso di farlo qui, nel bagno di un ristorante... non sarebbe meglio andare a casa?» commento incerta.
«Senti, non so tu, ma io non resisto più. Vi ho aspettato perché da sola non ce l’avrei mai fatta, ma ora basta» risponde Lucia.
«Per carità, Stefi, apri quella busta...»
«Come volete.» Stefi afferra il pacchetto e inizia a scartarlo, e mette subito da parte l’aria mélo per intraprendere un percorso un po’ leggero. «Signora, in cambio di questa busta io le offro un bel vaso cinese...»
«Stefi! A parte che non è una busta, e poi non vedi com’è agitata?» La rimprovero per evitare che Lucia le metta le mani al collo, e mi accontento di ridere sotto i baffi (e vorrei fosse solo un modo di dire).
Stefi si pente subito: «Hai ragione, scusa Luci».
Luci, stizzita, le strappa di mano la confezione e me la porge. Io non tergiverso, la apro, estraggo lo stick e lo porgo a Lucia. Lei lo prende ed entra in bagno. Cerco di tranquillizzarla:
«Stai calma, sai già come si usa, no? Allora, devi fare la...»
«Sì, so cosa devo fare, grazie» mi interrompe lapidaria lei. «Torno subito.»
Mentre Lucia si apparta, Stefania mormora: «Io sarei felicissima!» poi prende le istruzioni e inizia a leggere ad alta voce:
«Allora, vediamo un po’... il test identifica nell’urina un ormone che il corpo produce durante la gravidanza, la... gonadotropina corionica umana, già dal primo giorno di ritardo del ciclo e quindi a pochi giorni dal concepimento... Interessante...» Poi, rivolta verso la porta del bagno, alzando il tono di voce: «Luciaaa, tu lo sai quando avete concepito?».
«La smetti di gridare, Stefania?» strilla lei da dietro la porta. Stefania continua abbassando il volume, ma neanche tanto:
«Allora, in pratica... una tacca verticale vuol dire che rimani da sola, due che noi siamo zie! Che bello! Come lo chiamiamo? Annibale? No, anche se è promettente... Magari meglio un nome francese tipo Jérôme, quello di Primi baci... elegante e discreto, che dite? A me piacciono i nomi strani...»
La ignoro e mi concentro su Lucia che esce dal bagno, posa lo stick sul lavabo e si accende una sigaretta.
«Ahi ahi, signorina! Con quelle hai chiuso d’ora in poi, fanno male alla mamma e al bambino, dammi qua! E poi in bagno non si fuma, non sei mica al liceo» continua Stefania strappandole la sigaretta di mano e spegnendola sotto l’acqua del rubinetto.
«La prossima volta che lo fai, ti spacco la faccia» la minaccia Lucia.
Stefi la liquida senza ulteriori spiegazioni e mi vedo costretta a intervenire per tentare di ripristinare un clima di serenità.
«Ehi, Gabibbo, a chi vuoi spaccare la faccia? E poi sappilo... ha ragione Stefania, devi stare attenta nel caso tu sia... insomma... Niente fumo e dieta ferrea. Se no finisci come mia madre. Quando mi aspettava ha messo su ventun chili, poi sono nata, ne ha persi otto, e gli altri sono restati a me.»
Stefania, come di consueto, complica le cose.
«Lucia, ti piace Eleonoro come nome, in onore della nostra regina di Arborea?» propone, facendo riferimento alla più celebre e determinata tra le donne di Sardegna.
«Andatevene! Ma non eravate qui per calmarmi? Non so nemmeno se sono incinta e voi mi state facendo diventare isterica. E poi, a te chi ti ha detto che è un maschio?»
«Stefi, ha ragione Lucia, smettila... è questione di secondi, ormai» e mi avvicino allo stick studiandolo con rispettosa partecipazione.
«Basta, non dite più niente... oh santi numi. E se fosse positivo... come lo dico a Tommaso?» esclama Lucia accasciandosi su una sedia.
«Be’, potresti regalargli un ciuccio» le risponde Stefania con un’euforia totalmente fuori luogo. «O mettergli in tasca un sonaglietto o, senti questa, è stupenda, l’ho vista in un film: porti a tavola un piatto con sopra la calotta d’argento e sotto gli fai trovare il test di gravidanza positivo, non è romanticissimo?»
«Stefi... per favore» la interrompo io, mentre Lucia la fulmina con lo sguardo. «Non credo intendesse questo...»
Solo Stefi, dominata dal suo enorme desiderio di avere un bimbo accanto (anche non suo), sembra non capire la gravità della situazione. Al momento c’è poco da abbandonarsi a entusiasmi legati all’eventuale maternità. Lucia, da qualche mese, ha avuto il classicissimo ritorno di fiamma per il vecchio fidanzatino del liceo. Lui, arrivato a Milano per lavoro, ha avuto qualche problema ad ambientarsi. Lei gli ha dato una mano a trovare casa, gli ha consigliato un panettiere di fiducia e gli è stata molto vicina. Anche troppo evidentemente. Nonostante si conoscano da vent’anni, l’idea di fare un figlio insieme in questo momento è remota, per entrambi.
«Lucia, sono passati tre minuti, vado?» chiedo avvicinandomi al piccolo oracolo.
«Vai» dice lei sospirando, ma non ho ancora fatto un passo che la sento gridare: «No! Un attimo! Mi promettete che mi aiuterete, mi starete vicine e accorrerete se piangerà tutta la notte?».
«Solo se tu prometti che non parlerai tutto il tempo di meteorismo della creaturina, di consistenza delle feci e di prezzo del latte artificiale... E poi smettila, non siamo in clinica allo scadere del nono mese; hai un ritardo di quindici giorni, vedrai che andrà tutto bene. Tra l’altro, scusa se te lo faccio notare: le donne incinte, lo dicono tutti, sono più belle del solito, tu invece... insomma, stai tranquilla.»
Prima che lei possa ribattere, con passo fulmineo afferro il test e guardo la fatidica finestrella.
Incredibile come un piccolo segmento azzurrognolo sia in grado di cambiare radicalmente la vita di una donna... e di un uomo, peraltro in questo momento ignaro di tutto e probabilmente disteso sul divano di casa sua a guardare Prison Break.
Lucia mi guarda implorante e Stefania, come al solito, è ipereccitata e sorridente. Non tergiverso:
«Amica mia, tu non sarai madre, non a breve intendo, e naturalmente tu, Stefi, non sarai zia.»
Lucia resta impietrita.
«Ma non sei contenta? Meglio così, no?» le faccio io stupita.
Ancora nessuna reazione. «Lucia! Lucia! Ti prego, di’ qualcosa!»
«Avevo pure trovato il nome definitivo: Eusebio...» sussurra Stefania che ormai parla da sola.
«Sì sì certo, meglio così... però un po’ mi dispiace... in fondo.»
«Ti dispiace cosa? Stai vaneggiando, dev’essere il calo di zuccheri, andiamo a mangiare, vedrai che torni in te... ti ricordo che abbiamo sempre detto: prima un marito, poi un figlio, no?»
La trascino fuori dal bagno e riprendiamo posto al tavolo cercando di darci un tono.
Lo stress accumulato si scioglie, lascia spazio a un sano appetito e riusciamo a distrarci e a parlare d’altro.
«E quindi domani la signora parte...» riprende Lucia mentre si gode il tiramisù della casa.
«Eh già, un giorno qui, un giorno là, come una rappresentante.»
«Non sei contenta di rivedere Michele?» mi chiede Stefi.
«Sì, ma è chiaro che così è tutto bello: ci vediamo sempre poco e in posti meravigliosi. Ci sono tante cose che non so di lui, e lui non sa come sono io nella vita quotidiana... Ignora che non sono capace di programmare il videoregistratore, che quando esco di casa torno indietro almeno una volta perché ho dimenticato qualcosa e che faccio sempre scadere le bollette. Ci sono uomini che per cose del genere possono diventare pazzi...»
«Goditi questi giorni. Avrai tempo di pensarci; ora cerca di partire tranquilla» mi consiglia Lucia.
«E tu cerca di non farti mettere incinta davvero prima del mio rientro. Hai mai sentito parlare di contraccezione?»
«Stupida...»
Ci salutiamo poco prima di mezzanotte, io il mattino dopo ho un volo da Milano Malpensa per Las Vegas, dove in questo momento si trova appunto l’uomo entrato da più di un anno nella mia vita, per caso, e poi invitato a restare.
Una gita fuori porta per me sarebbe stata più che sufficiente, ma lui da qualche tempo, per lavoro, è nella terra natale di Paolino Paperino, e alcuni giorni fa mi ha fatto un’offerta impossibile da rifiutare: un biglietto prepagato accompagnato solo dalla frase “Vola da me, ti aspetto”. Potrei mai deluderlo? Questo significa per me anche un’altra valigia da preparare, un altro aereo da prendere e, in prospettiva, un altro hotel dove dimenticare qualche mio effetto personale.
Guidando verso casa nel placido traffico apprezzo la quiete che Milano possiede solo di notte, d’estate e durante le vacanze di Natale. Quando la città è vuota e silenziosa il suo fascino si fa avanti con eleganza discreta; in più, se guidi senza temere che una macchina ti centri o un pedone ti compaia davanti dal nulla, hai anche modo di riflettere.
Così mi ritrovo a pensare che forse a Lucia questa gravidanza non sarebbe poi dispiaciuta così tanto.
Eppure fra noi tre è sempre sembrata la meno interessata all’argomento figli. Stefania, una volta, in un eccesso di lungimiranza, ha comprato una tutina bianca 0-3 mesi, e io da parte mia ho già scelto il nome del primogenito, ma fino a oggi tutte e tre abbiamo sempre incontrato uomini ancora troppo figli per diventare padri.
Certo, se l’esito del test fosse stato positivo avremmo dovuto procurarci un ettolitro di ansiolitici per il padre di Lucia, prima di comunicargli la notizia. Nei paesi di poco più di diecimila abitanti (in Sardegna, e non solo) una figlia incinta senza marito è sempre una notizia di bellezza opinabile. I nostri genitori ci avevano rese partecipi di come, a cascata, tutte le nostre compagne di scuola rimaste in Sardegna si erano già sposate e avevano già messo al mondo dei figli. Alcune si erano pure già separate, e mentre loro sbrigavano i carteggi del loro primo divorzio, nessuna di noi tre era mai giunta neppure alle pubblicazioni in Comune. Lucia, dopo lunghi e brevi affaire intrattenuti con uomini sentimentalmente non disponibili, si era ritrovata stupita al punto di partenza, dividendo i suoi giorni e le sue notti in compagnia del primo uomo di cui si era innamorata e con cui aveva festeggiato il diploma liceale.
Dopo diciannove anni da quell’estate, quello stesso uomo le aveva fatto accarezzare per qualche minuto l’idea di poter essere anche il primo a renderla madre. A giudicare dalla sua reazione, e visto il suo timore di aver inizi...