Dicembre 2008
Scendo dall’auto e ci giro intorno lentamente. Le rose stanno sul sedile posteriore, a destra, legate da un nastro rosso. Apro la portiera e mi piego in avanti per prenderle, con delicatezza, con tutt’e due le mani. Tira un vento che taglia la faccia: il termometro, sul cruscotto, segna meno quindici. Chiudo la macchina e metto in azione l’allarme. Quattro frecce incominciano a lampeggiare.
Il cancello, a meno di cinquanta metri dal parcheggio, è aperto. Non si vede nessuno, non si sente una voce. Penso che è passato un altro anno dall’ultima volta che sono venuto a trovarla. Affretto il passo. Imbocco il vialetto che ho davanti e giro a destra. Tutto è rimasto come era diciannove anni fa. Niente, non è cambiato niente! Cammino come un automa. Soltanto grazie all’istinto e al fatto che conosco bene il tragitto non vado a sbattere da qualche parte. Mi succede ogni volta che torno qui. Appena superato il cancello d’ingresso, perdo il senso dello spazio, del tempo. E cado in una sorta di trance.
I piedi affondano nel tappeto soffice e candido della neve che è caduta abbondante. Quel biancore mi sembra che trasformi il mondo in un posto fatato, un posto dove c’è meno sporcizia fra gli uomini e nell’anima delle persone, il mondo dove vorrei vivere. Sento il profumo delle rose che stringo al petto. Scuoto il capo. Ho sempre odiato l’ipocrisia e l’ostentazione del perbenismo, la viltà degli amici che si dileguano quando ti trovi in difficoltà, la frenesia del denaro che a tanti fa perdere il senso dell’onore e del rispetto per gli altri. Lo so, i tempi sono duri. Per vivere dignitosamente bisogna faticare. Il pane quotidiano costa lavoro, sacrifici. Ma è giusto che questo avvenga a scapito dell’amicizia e dell’amore?
Il freddo mi gela il fiato. Giro a sinistra sulla stradina dove si trova la sua casa, che è la sesta sulla sinistra. Abita qui da diciannove anni ormai. Io non sono mai mancato un anno. Sono sempre venuto a trovarla, anche più volte l’anno. A ogni anniversario le ho portato un numero sempre maggiore di rose. Quest’anno sono arrivato a diciannove. Tutte rosse. Come quelle che le volevo dare quel giorno.
Arrivato davanti alla sua tomba, m’inginocchio per salutarla e prendo la fioriera rosa a destra della lapide.
Sono sempre venuto da solo per rimanere solo con lei, raccontarle gli avvenimenti degli ultimi mesi, parlarle di suo padre e sua madre con cui sono rimasto in ottimi rapporti. La sera vado spesso a mangiare da loro. Sono persone squisite. Hanno perso l’unica figlia, ma hanno trovato un figlio. Li amo e li rispetto alla pari dei miei genitori.
Dico una piccola preghiera e, ancora una volta, tutto torna a investirmi – come se fosse capitato appena ieri.
Oradea, dicembre 1989
La sveglia incominciò a suonare con tutto lo stridore di cui solo le sveglie sono capaci. Mi precipitai a fermarla per non svegliare mia sorella, con la quale condividevo la stanza. Mi rimisi a letto sapendo che era ancora troppo presto per alzarmi. Per paura di fare tardi, avevo messo la sveglia in anticipo di un’ora!
Quello era il giorno che avevo atteso a lungo. Speravo che tutto andasse come avevo progettato. Le rose erano nel vaso che avevo messo sulla scrivania e, nella semioscurità, m’inebriavano con la loro bellezza e perfezione. Non per niente venivano chiamate “fiori dell’amore”. Per dichiarare il mio amore le avevo comprate il giorno prima.
Sì, ero innamorato di una mia compagna di scuola. Non era un innamoramento da adolescente, anche se avevo solo quattordici anni. Abitavamo nello stesso quartiere. Lei frequentava la terza A, io la terza C. Era un amore vero, il mio. Mi aveva sconvolto dentro, mi aveva cambiato nel profondo. Non mi ero mai interessato alle ragazze, ma da quando avevo capito quello che sentivo per lei avevo sempre voglia di vederla. Fino ad allora per la verità non avevo mai avuto il coraggio di rivolgerle la parola, quel giorno però sarebbe stato diverso: avevo deciso di prendere il cuore in mano, di andare da lei con le rose – che mi erano costate la paghetta per la gita scolastica – e dichiararle quello che provavo per lei. Era un’occasione che non potevo perdere. Quando mi si sarebbe ripresentata un’opportunità del genere? Avremmo passato l’intero giorno insieme. Insieme con altri cento alunni, certo. Ma questo era solo un dettaglio. L’importante era che lei sarebbe stata vicina a me per tutto il giorno.
Scesi dal letto e andai a farmi la doccia. Strada facendo iniziai a spogliarmi gettando il pigiama per terra, senza preoccuparmi che la mamma avrebbe dovuto raccoglierlo. Uscii dal bagno rinvigorito e ottimista. Con addosso solo l’asciugamano intorno alla vita, cominciai a tirare fuori un po’ tutti i miei vestiti, senza saper decidere cosa mettermi. Cercai la camicia preferita senza alcun successo. Non riuscivo a ricordare dove l’avevo lasciata né quando l’avevo indossata l’ultima volta. A un tratto mi ricordai – ce lo avevano annunciato i nostri insegnanti – che avremmo dovuto indossare la divisa scolastica perché probabilmente sarebbe venuto il presidente della repubblica a tenere un discorso. La gita sarebbe stata a un raduno di giovani e lui forse ci avrebbe onorato con la sua presenza. Non era molto amato negli ultimi tempi e con questi incontri cercava di riguadagnare un po’ di popolarità.
Misi l’uniforme di pioniere e i gradi di comandante del distaccamento della scuola. Non me la cavavo male con gli studi. Ero il migliore in matematica. Avevo vinto anche due olimpiadi nazionali di geometria. La professoressa mi amava come se fossi suo figlio.
Una volta vestito, mi diressi verso la cucina dove ero sicuro di trovare il latte e le brioche per la colazione. Vidi il bigliettino che la mamma mi aveva lasciato prima di uscire. Lo faceva sempre prima di andare al lavoro. Era un rito consolidato. Mia madre faceva l’ingegnere in una fabbrica di scarpe. Lavorava una settimana di mattina dalle sei alle quattordici, e una settimana di pomeriggio dalle quattordici alle ventidue. Quella settimana faceva il turno mattutino. Sul biglietto c’era scritto: “Fai il bravo in gita e in bocca al lupo”. Mi venne da ridere. Con quel “in bocca al lupo” si riferiva sicuramente all’affare dei fiori. Sapeva la storia perché le raccontavo sempre tutto della mia vita. Le volevo molto bene, e tutt’ora gliene voglio, perché sapeva capirmi come forse nessun altro saprà mai fare. Mio padre era anche lui ingegnere, però insegnava in un istituto tecnico locale.
Presi la strada percorsa un’infinità di volte per andare a scuola. Il cielo era azzurro, senza l’ombra di una nube. Non sarebbe potuta capitare una giornata migliore, visto che eravamo già oltre la metà di dicembre. Faceva freddo, ma non più del solito, ed ero contento che quel giorno non avrebbe nevicato. Un bel giorno per un’ottima gita. Strada facendo pensavo a come l’avrei avvicinata. Già mi vedevo la scena. Avrebbe preso i fiori e mi avrebbe dato un bel bacio sulla guancia. Fantasticavo, allegro.
«Buon giorno, signora Irina» dissi alla vicina che abitava nel mio stesso condominio al terzo piano e che incontrai per strada. Era una signora molto gentile che io rispettavo perché si comportava sempre bene con me. Aveva circa cinquant’anni, sposata con due figlie. Suo marito faceva il trasportatore.
«Buon giorno, Daniel» mi rispose. «Che bei fiori che hai!» esclamò.
«Grazie» risposi allontanandomi in fretta per non doverle dare delle spiegazioni. Non volevo che nessuno, all’infuori della mamma, sapesse di quella mia privatissima storia.
Nel cortile della scuola mi resi conto che erano già arrivati tutti. Guardai l’orologio appeso al muro del cortile e vidi che non ero in ritardo. I miei compagni di classe, come quasi tutti gli altri, erano accompagnati dai genitori, dai fratelli o dalle sorelle maggiori. Io ero solo, perché i miei genitori lavoravano e mia sorella era piccola.
Mi avvicinai al gruppo dei compagni di classe e cercai Adrian, il mio migliore amico. Non riuscivo a vederlo. «Adrian non è ancora arrivato?» chiesi a Lavinia. Era una ragazza alta circa un metro e cinquanta sui quarantacinque chili. Un viso rotondo con gli occhi celesti e intensi, i capelli di un biondo oro che sembravano contenere una luce propria. Era la mia compagna di banco, una brava alunna. Studiava molto più di quanto studiavo io, però in matematica non riusciva a battermi nessuno.
«No, Adrian non l’ho visto ancora. Ma che bei fiori!» osservò.
«Grazie. Sono per la professoressa di matematica» tagliai corto.
«Grazie, grazie. Non dovevi scomodarti» sentii, alle mie spalle, una voce che conoscevo bene.
Era quella della professoressa di matematica. Mi girai di scatto e la vidi con le braccia già tese nell’attesa che le porgessi le rose. Non sapevo che fare e mi veniva voglia di piangere. Gliele offrii e mi sbaciucchiò su entrambe le guance.
«Sei stato molto carino a portarmi dei fiori. Chissà quanto ti saranno costati» commentò con un gran sorriso che le illuminava il viso. Volevo sprofondare nel centro della terra e non tornare più. Che cosa avrei fatto adesso? Non avevo più niente da dare alla mia amata Giulia.
Funereo, in silenzio, mi diressi verso l’uscita della scuola. Sul cancello c’era Adrian che mi salutò festoso, senza accorgersi della faccia che avevo, del mio stato d’animo.
Di colpo si fece serio. «Ti vedo nero. È successo qualcosa?» chiese.
«Ho regalato alla professoressa di matematica i fiori che dovevo dare a Giulia.»
«Giulia non li ha voluti?»
«No, non l’ho ancora vista oggi.»
«E allora perché diavolo hai dato i fiori alla prof?»
«Stavo parlando con Lavinia, quando d’un tratto è arrivata la professoressa e ha sentito che i fiori erano per lei.»
«Non capisco niente. Chi ha detto che i fiori erano per lei?»
«Io.»
«Perché l’hai detto?»
«Perché l’impicciona di Lavinia mi ha chiesto per chi erano. Mica potevo dirle che erano per Giulia! O no?»
«Un bel guaio. Che cosa farai adesso?»
«Non lo so. So soltanto che i fiori non ci sono più.»
Mi venne voglia di ritornare a casa e di non partecipare a nessuna gita. Non avevo più il desiderio di vedere Giulia e neanche di vedere alcun essere umano. Volevo solo chiudermi in casa e starmene per conto mio.
«Andiamo, ci stanno chiamando» mi prese per un gomito Adrian.
Non feci alcuna resistenza e lo seguii verso il gruppo che si era raccolto al centro del cortile.
Nel mezzo c’era la direttrice della scuola che diceva: «I pull-man sono arrivati. Sono qui fuori che aspettano. Ogni alunno deve seguire i propri professori per non creare scompiglio. Per piacere, tutti i genitori salutino ora e se ne vadano. Ci prenderemo noi cura dei vostri figli d’ora in avanti».
Salii sul pullman e mi diressi verso le ultime file dove già si trovava Adrian che mi faceva cenno di raggiungerlo gesticolando.
Fu allora che la vidi per la prima volta quel giorno. Era bellissima. Stava seduta con una sua compagna di classe nella terzultima fila, sulla destra. Aveva i capelli, neri come le piume dei corvi, raccolti a coda di cavallo con un elastico blu intenso. L’acconciatura era studiata molto bene, come tutto quello che lei faceva. Le lasciava scoperto il delizioso viso ovale. Gli occhi erano due smeraldi, preziosi anche nel taglio, che emanavano bagliori impossibili da evitare. Per me era la più bella creatura che Dio avesse mai messo sulla mia strada. L’amavo e ogni volta che la vedevo il respiro mi veniva meno. Il solo guardarla mi trascinava in uno stato di serenità indicibile.
«Potevi almeno salutarla» mi rimproverò Adrian, quando mi lasciai cadere vicino a lui.
«Non ne ho avuto il coraggio. Lo sai, quando sono vicino a lei mi sento mancare.»
«Alla fine dovrai pur dirle qualcosa se vuoi che sappia cosa provi per lei. Vuoi che glielo dica io?»
«Non ci provare nemmeno, se vuoi essere ancora mio amico» lo minacciai.
«Come farà a sapere di te se non glielo dici o non glielo fai dire da qualcun altro?»
«Non lo so» ammisi preoccupato.
Fummo interrotti dalle ultime raccomandazioni dei nostri insegnanti. «Ragazzi, mettetevi seduti e state buoni che partiamo. Appena fuori dalla città, alla nostra sinistra, vedrete l’aeroporto. Strada facendo, vi mostrerò altre cose interessanti» disse la prof di matematica.
La portiera del pullman si chiuse e ci mettemmo in movimento. Ero contento di cominciare questa nuova avventura insieme ai miei compagni. Come aveva annunciato la prof, all’uscita dalla città, sulla sinistra, fiancheggiammo l’aeroporto, che io già conoscevo perché tante volte avevo fatto quella strada per andare dai nonni che abitano a circa quaranta chilometri dalla città. La meta della nostra gita si trovava invece a centosettanta chilometri circa. Ci sarebbero volute almeno due ore per arrivarci e io non pensavo che a Giulia, a come avvicinarla.
I fiori che avevo regalato alla prof erano in bella vista sul cruscotto del pullman. Ogni volta che li guardavo mi ferivano gli occhi. Avrei voluto che stessero tra le braccia di qualcun altro e non dove ora si trovavano. Non che l...