La luce rosa dell’alba sul ghiacciaio del Monte Rosa. È qualcosa di magico, di assolutamente diverso da tutto ciò che si possa mai aver visto o immaginato.
È luce pura.
È felicità.
Sulla strada tutta curve che sale su verso il paesino montano ai piedi del ghiacciaio, sale lentamente un taxi.
Il guidatore è senza parole.
Guarda quella luce impalpabile e incredibile, e quasi ha timore ad andare avanti, perché ha la sensazione strana di entrare in un materiale impalpabile, finto.
Si ferma.
La passeggera, dietro, si è addormentata. Tiene fra le braccia un fagottino avvoltolato in una coperta, una neonata.
Il tassista non sa che fare, c’è un bivio nel nulla, non sa da che parte andare.
Ma non vuole svegliare Marina – perché è lei, chiaramente, la passeggera misteriosa – né la sua bambina.
Fa di testa sua, va a destra, verso il monte.
Guida piano e si riempie gli occhi della meraviglia che mai avrebbe pensato di poter vedere.
Ha guidato tutta la notte.
È distrutto.
Ma è felice.
Non solo per il posto magico dove è arrivato, ma perché sa di aver aiutato qualcuno che neanche conosceva, sa di aver salvato quella donna, e quella bimba. Non sa esattamente da cosa, o da chi.
Ma gliel’ha letto in faccia, a Marina, quella richiesta di aiuto, quando è salita sul suo taxi e gli ha detto: “La prego mi porti via”.
“Dove, signora?”
“Lontano.”
“Lontano da dove?”
“Lontano da qui.”
È fiero di se stesso, il tassista. Poco importa se poi sua moglie si arrabbierà molto, visto che è scomparso per una notte intera!
Capirà, perché sua moglie è buona. Proprio come lui. Un pezzo di pane.
«Ne esistono tanti, sapete, di uomini buoni, di uomini che amano le donne.»
Noi, raccolte intorno a Marina in giardino, annuiamo.
«Certo ne esistono.»
Gianna, con il suo cinismo: «Tutto sta a riconoscerli nel pagliaio!».
Ridiamo, mentre Marina riprende il suo racconto, che ha voluto cominciare dalla fine, come forse è giusto che sia.
Ora il taxi arriva in una piazzola proprio sotto la cabinovia che porta su, al ghiacciaio.
Lentamente, Marina apre gli occhi.
È giovane, stanca, confusa.
Il sonno che ancora la avvolge le fa guardare con stupore la luce rosa del mondo, là fuori. E il sogno che ancora la pervade la fa guardare con stupore il fagottino sopra di lei.
Realizza, si sveglia, ricorda.
Sorride alla bimba, sorride alla luce dell’alba. E mormora: “Ciao, Rosa...Ti piace il tuo nome, è come la luce del mondo: rosa...”.
Poi, Marina guarda fuori.
Il tassista è sceso a sgranchirsi le gambe, si è messo a giocare a palle di neve come un bambino. Lei scende, stringe Rosa nel suo cappotto, inspira profondamente.
Lo raggiunge.
Il tassista le va incontro.
“Non sapevo dove portarla, signora.”
“Qui, va benissimo.”
Lui sembra un attimo sorpreso, ma poi si guarda intorno: il paesino di legno e di fiori, la neve immacolata, il ghiacciaio a proteggere il silenzio di quegli abitanti ancora addormentati.
Marina ha le gote e la punta del naso rosse. È emozionata, allegra.
Parla alla sua bambina, cullandola tra le braccia.
“Eccoci, amore. Siamo arrivate a casa nostra.”
La bimba emette un piccolo soddisfatto lamento.
Marina apre un po’ il suo cappotto, e mostra alla neonata la luce magica, la neve, il paese incantato, il ghiacciaio.
“Qui è dove è nata la tua nonna, la tua dolcissima nonna. Proprio qui, a un passo dal cielo. Da piccola, volevo essere come lei, sai, perché pensavo che fosse la donna più felice del mondo, la mia mamma.”
A un passo dal cielo
Invece no.
La vita di Carla, la mamma di Marina e di Giovanni, suo fratello minore, non era stata per niente bella.
Anzi, forse sì, ma solo in un lontano passato. Quando ancora Carla viveva nell’innocenza, forse nell’ignoranza, ma sicuramente non nel dolore.
Era stata una vita normale, semplice, quella di Carla, bambina montanara, figlia dei custodi di un grande albergo proprio ai piedi del Monte Rosa. A un passo dal cielo.
La maggiore di tanti fratellini, Carla era cresciuta in una strana e ambigua situazione: di certo non ricca, anzi, viveva però circondata dal lusso di quel luogo esclusivo che non le apparteneva, ma dove imparava a diventare donna. Mentre sua madre spazzava la morbida moquette della suite più sfarzosa, lei guardava i bei quadri alle pareti, o sfogliava libri incredibili con figure fantastiche. Mentre suo padre tagliava la legna per il camino del salone delle feste, lei giocava in mezzo alla neve con i figli del principe di qualche lontano paese, e apprendeva lingue sconosciute, ascoltava racconti di mondi diversi eppure così a portata di mano, almeno finché si resta bambini.
La casa dei custodi, e quindi di Carla, era nei sotterranei dell’albergo griffato.
D’inverno, le finestrelle in alto erano ricoperte di neve che suo padre doveva spalare subito, all’alba, prima che gelasse e allora poi chi la toglieva più!
D’estate, invece, da quelle finestrelle si vedeva il mondo intero.
Piccoli quadri di meraviglia... Da quella della cucina, dove Carla bambina passava molto tempo al lavoro per aiutare la mamma, ecco la vetta innevata del monte più alto del mondo – almeno per lei.
“Ma è davvero il più alto del mondo, mamma?”
“Sì, tesoro, del mio mondo, sì.”
“Che bello, anch’io voglio vivere sul monte più alto del tuo mondo.”
“Un giorno ti ci porto.”
Ci guarda Marina, come spersa, fa una pausa nel suo racconto. Io lo so il perché, lo sappiamo tutte noi. Le sue lunghe mani nervose sembrano cercare un appiglio, tormentandosi l’una con l’altra. Lo riconosco, quel movimento spasmodico delle mani, perché tante volte lo faccio anch’io, senza rendermene conto. È un’ansia strana, improvvisa. Qualcuno mi ha detto che è l’ansia che assale chi ha subito una grave perdita precocemente, quando ancora non si è in grado di elaborare un lutto.
Guardo Marina. Annuisco, lo so: è difficile. Per questo ti voglio bene, sai, perché sei tanto simile a me. Ognuna delle mie amiche ha qualcosa di uguale a me, qualcosa in cui mi rivedo, mi riconosco. Anche i loro misteri, credo, saranno simili al mio.
Ma qual è il mio mistero? Lo scoprirò mai? O forse non esiste, forse lo inseguo proprio perché non c’è.
Marina fa un sospiro, come a liberarsi da quel macigno, e va avanti a raccontare.
Lassù in montagna, dalla finestra del bagno entrava il profumo del bosco. Ma era dalla terza finestrella, la più piccola, quella della sua stanzetta ricavata in un ripostiglio, che Carla poteva vedere lo spettacolo senza pari del cielo. Di giorno, mutevole ma sempre affascinante, con i nuvoloni che giocavano a rincorrersi sospinti dal vento forte della vetta, che poi magari però si incontravano, anzi, si scontravano, e allora ecco il temporale, i lampi, i tuoni, tanta pioggia che sua madre metteva degli stracci alla porta, che sennò là sotto alla fine l’acqua entrava a secchiate.
“Finisce che facciamo la fine dei sorci!” si lamentava sua madre, nonna Ada. Ma lo diceva solo perché aveva paura del temporale, e suo marito lo sapeva e rideva e la prendeva in giro.
Il temporale metteva un po’ paura anche a Carla, che però non lo diceva. Non diceva mai quello che la faceva soffrire, chissà perché, forse perché un giorno il prete a catechismo aveva detto: “Maria ci ha insegnato a soffrire in silenzio. Vedete? La Madonnina sorride sempre, anche quando è triste perché Gesù è sulla croce”.
“E quando ha paura, padre?”
“La Madonnina non ha mai paura, perché a proteggerla c’è il suo Figliolo, Gesù. E suo Padre, il Signore Dio Nostro.”
«E tu, Marina, tu hai paura?»
«Sempre.»
«Però non sembra, vai avanti come un treno.»
«Chi ti dice che i treni non abbiano paura? Quando imboccano una galleria buia e lunga, per esempio, o quando i binari sono viscidi di pioggia, o quando invece bisogna azionare i freni all’improvviso che stridono e fischiano perché là davanti, dal nulla, è apparso un ostacolo impossibile da evitare... Ho paura, certo che ce l’ho.»
«E fai come la tua mamma, che non lo dava a vedere?»
«No, io no. Io se ho paura lo dico.»
Sorride, un po’ amara, un po’ ironica: «Il che non significa che poi trovi qualcuno che mi aiuti!».
Carla bambina, invece, non lo diceva che aveva paura del temporale. Aspettava. Perché sapeva che poi, la mattina seguente: che spettacolo, da quella finestrella! Il cielo blu come il mare, profondo come l’oceano... Così le diceva il babbo, perché Carla il mare non l’aveva mai visto, se non sui giornali, o nelle figure dei libri dei ricchi clienti. Da quella finestrella, lo spicchio di cielo che occupava il suo sguardo e i suoi pensieri era pieno di tutto quello che una bambina può desiderare: di sogni. Di ogni tipo.
Di giorno, i suoi sogni di bambina seguivano il cicaleccio dei pettirossi.
Di notte, si fermavano sulla volta scura illuminata a giorno da milioni di stelle.
“Ciao, stellina buona. Oggi il mio desiderio è... di vedere il mare.”
L’onda di Carla
“È questo il mare?”
“Certo, scemetta!... Cosa vuoi che sia?”
Non se lo aspettava così, Carla, il mare. Non così bello! Senza fiato, guardava quella distesa azzurra e bianca, a tratti anche verde, quell’odore forte che arrivava dentro il cuore, quelle onde alte e minacciose, piene di schiuma trasparente, che salivano su e poi ancora su, per ridiscendere subito dopo, e sparire nella risacca, svanite per sempre. Oppure no?
“Ma le onde sono sempre le stesse?”
“In che senso?”
“È sempre la stessa onda che viene e va, o è una nuova?”
“Ma che domande fai? Dài, vieni qui, scemetta, che l’onda adesso te la do io.”
Sergio stringeva forte Carla per la vita, sulla piccola spiaggia davanti al suo ristorante. Anzi, il ristorante di suo nonno. Poi la trascinava via, sotto il pontile, dove nessuno poteva vederli.
Era stato là sotto, fra i pali di legno coperti di muschio e di salsedine, che Carla era diventata donna.
E anche madre.
Di conseguenza, nonostante avesse solo sedici anni, Carla diventò subito anche moglie.
Quella era stata la sua prima vacanza al mare.
Il suo desiderio era stato esaudito.
Non sapeva che, purtroppo, il suo era stato un sogno sbagliato.
Dal mare non se ne andò più, Carla, se non qu...