1 NOTIZIA SUL TESTO
Con il Notturno, che esce nelle librerie il 22 novembre 1921, d’Annunzio ottiene forse per l’ultima volta un successo di vasta risonanza, in un’Italia che s’interroga ancora, lacerata, sul sacrificio dei suoi figli. Ma nel «libro sacro della patria vittoriosa» s’iscrivono insieme il ricordo struggente della madre e quello di una folle cavalcata nel deserto, l’arabesco della musica, la favola della figlia ritrovata nell’incanto floreale della Sirenetta, la reinvenzione di una Venezia invernale e funerea in un sentimento tragico di sopravvivenza. E questo caleidoscopio di immagini e di emozioni si rivela e trova un centro solo nell’io che si rappresenta «supino nel letto, col torso immobile, col capo riverso», costretto nelle tenebre da una grave ferita all’occhio destro riportata in un incidente di volo. La vicenda dell’uomo d’azione e quella intima entrano in risonanza nello spazio stregato di una infermità fisica sull’orlo della «follia», fra le vibrazioni analogiche acutissime di una scrittura di apparizioni e metamorfosi vicina come non mai alle inquietudini sperimentali della letteratura. In un libro in molti sensi sintomatico della congiuntura postbellica, Gli indomabili (1922), Marinetti annette la nuova prosa dannunziana, non senza palesi implicazioni politiche, all’area futurista delle parole in libertà; e uno dei protagonisti del nuovo saggismo italiano, Emilio Cecchi, scorge nel Notturno l’acme della stagione creativa della prosa di memoria e di «attenzione» che il critico, valendosi di una formula suggeritagli da d’Annunzio, chiama dell’«esplorazione d’ombra». In primo piano, poi, s’impone ineludibile nel testo l’invenzione stupefacente dei «cartigli», le sottili strisce di carta che consentono allo scrittore di esprimersi sin nelle tenebre della cecità: l’armatura logico-sintattica della prosa vi si frange in un seguito discontinuo di frammenti di vita e d’esperienza. E così d’Annunzio avvalora il nuovo mito di sé come «scriba egizio»: già impiegata nella Vita di Cola di Rienzo (ove l’accanito lettore del Tommaseo-Bellini non è forse immemore del Villari di «in una piccola cedola sottile iscritto il nome e soprannome suo»), la parola “cartiglio” designa altresì l’ovale in cui, nelle iscrizioni egiziane, si racchiudono i geroglifici che compongono i nomi dei faraoni. Il singolare artificio è noto al pubblico dei lettori almeno dall’autunno 1916, quando nella Licenza alla Leda senza cigno l’autore descrive appunto, con le stesse parole che aprono il Notturno, l’accorgimento da lui escogitato per sfidare la malattia trasformandola immediatamente in linguaggio. E la suggestione di una scrittura che nasce febbrile e quasi automatica dall’esperienza dell’infermo visionario è ribadita dall’Annotazione che suggella l’opera con la data 4 novembre 1921, in coincidenza intenzionale con le celebrazioni che nel terzo anniversario della vittoria, a Roma, accompagnano la tumulazione nell’Altare della Patria del Milite Ignoto: «Questo comentario delle tenebre fu scritto, riga per riga, su più che diecimila cartigli. La scrittura è più o meno difforme, secondo la sofferenza del male, secondo la qualità delle visioni incalzanti».
Sennonché, come hanno appurato per vie diverse le ricognizioni filologiche di Carla Riccardi e Annamaria Andreoli, la redazione del Notturno e quella dei cartigli non coincidono, anche la scrittura franta delle «liste sibilline» altro non è che un grande mito della finzione letteraria. In realtà, iniziata sia pure sotto diverso titolo prima della malattia, l’elaborazione del testo non giunge a termine se non nella fase di lavoro febbrile degli ultimi mesi prima della stampa, anche con l’inserto di episodi e motivi nuovi, certo nella stesura, se non nella concezione. Non è la prima volta che un’opera dannunziana approda alla sua fisionomia definitiva dopo una vicenda frastagliata di parentesi e di riprese: basti pensare al Trionfo della Morte o al Fuoco, per tacere delle stesse Laudi. Ma quelli in cui si svolge la scrittura del Notturno sono veramente tempi straordinari cui d’Annunzio partecipa da protagonista, con la parabola eroica della Grande Guerra, la campagna postbellica per la «Vittoria mutilata», l’avventura rivoluzionaria di Fiume, alla quale mette fine il risoluto intervento armato del governo Giolitti, non senza spargimento di sangue fraterno. Per il reduce da Fiume concludere il Notturno significa inevitabilmente confrontarsi con le passioni, i drammi, le speranze, forse le chimere, che lo avevano accompagnato sin dalla prima decisione di tornare dalla Francia nel maggio 1915, esaltato dalla prospettiva che «una visione di poesia può tradursi in realtà militante» (T LXXV, p. 714). Nella sua forma finale il Notturno coinvolge precisamente questo faccia a faccia. Anche per questo, per intenderne in modo adeguato il fascino tenace non si può proprio dimenticare la sua storia.
A più riprese, a partire dall’agosto 1914, il d’Annunzio francese identifica nell’apocalissi della guerra la consumazione della decadenza europea, paragonandola a un processo di malattia e di convalescenza attraverso il quale approdare alla palingenesi di una nuova innocenza e di una nuova giovinezza, di ordine sia collettivo che individuale. Così, ritornato in Italia, l’uomo di lusso libertino e dissipato, quasi la reliquia vivente della più ambigua fin de siècle, si presenta come il fautore intransigente dell’intervento e del sacrificio, con il consenso anche di quelli, fra i più giovani, che non si erano uniti al plauso dei più per il cantore in terzine dantesche dell’impresa di Libia. E all’ingresso dell’Italia in guerra, dopo aver provveduto a raccogliere e a pubblicare con il titolo Per la più grande Italia i documenti della sua campagna interventista, d’Annunzio raggiunge il fronte (prendendo alloggio a Venezia nella cosiddetta Casetta rossa, la dimora patrizia sul Canal Grande di proprietà del principe Hohenlohe) con la ferma volontà di partecipare in prima fila alle azioni di combattimento. Ora da un lato, nella celebre lettera a Salandra del 30 luglio 1915, egli dichiara «l’orrore del lavoro immobile, della penna, dell’inchiostro, della carta», tanto più dinanzi alla prospettiva di essere relegato all’ufficio di «scrivano nazionale», quando invece la guerra offre all’immaginazione della «vita eroica» l’occasione irripetibile di sfondare il proprio limite e di incarnarsi nel reale: «la febbre dell’azione mi divora». Ma dall’altro, anche se tende a rappresentare la stessa continuazione della propria attività di scrittore come una necessità duramente imposta dal cronico «embarras d’argent», egli avverte poi la chance che a contatto diretto con la guerra e il suo «pericolo» possa rinnovarsi anche la sua letteratura, nei motivi e nelle forme. Il 6 agosto 1915, alla vigilia del suo primo volo di guerra, su Trieste, d’Annunzio scrive a Luigi Albertini, il direttore del «Corriere della Sera» che ne cura il patrimonio dissestato e che da qualche tempo è il destinatario prediletto delle sue assidue confidenze di lavoro: «Forse canterò, ma non canterò se non avrò ricevuto sul serio il battesimo del fuoco. Il vigore e il tono della mia Musa dipendono dall’efficacia delle batterie di Opcina e dai velivoli mitraglianti che saliranno dal vallone di Muggia. Bisogna che io colga con la mia mano uno shrapnell come un fiore celeste, per offrirlo a Polimnia dalla bocca d’oro. Forse domani sera mi ritroverò gran poeta». E nella lettera del 14 settembre 1915, sempre ad Albertini, allude alla difficoltà, per lui, di comunicare l’esperienza del conflitto nelle forme canoniche della tradizione letteraria: «Non ho voglia di cantare. Ho nel mio cuore un canto turbinoso, che non può essere espresso. Penso che, se versassi un poco di sangue, subito l’impedimento sarebbe superato. Perciò bisogna augurarmi una bella ferita». Sta di fatto che all’amico che auspicava una poesia all’insegna della «popolarità», tessuta di «versi facili, piani, tali che i soldati avrebbero potuto impararli a memoria», d’Annunzio invia il 7 novembre i versetti biblici e whitmaniani dei Tre salmi per i nostri morti, in prosa ritmica (ove, peraltro, «il buon Tenneroni […] ha contato 240 endecasillabi perfetti», «armonizzati qua e là con altri versi di varia misura»), con la convinzione di «una maestria metrica molto superiore a quella dell’abusata terzina» e la risoluta certezza che «di canzoni non ne scriver[à] mai più». Oltretutto, l’efficacia emotiva di una parola tramata di «dissonanze» ha ricevuto conferma dalla prova inoppugnabile della recitazione a voce alta e sulla linea del fuoco: «un’onda di commozione si è propagata là dove si combatte. I soldati sono più sensibili e più spontanei, forse, dei cittadini a cui offri i miei poemi in sì gran numero di esemplari».
In realtà, il punto d’arrivo della ricerca di uno strumento adeguato all’universo eccitante e nuovo di percezioni e di emozioni svelato dalla guerra non può che essere la prosa. Ed è la prosa su cui d’Annunzio s’interroga sin da quando ha interrotto la serie delle Faville con i tre frammenti stupendi su Parigi assediata, anche in rapporto all’evoluzione del conflitto, che sta manifestando la sua vera natura nell’inerzia logorante della guerra di posizione. Prova ne sia la lettera ad Albertini del 2 gennaio 1915: «Spesso l’ansia e l’angoscia, in questa troppo lunga sospensione di sorti, si mutano in tedio e in accidia. Il lavoro è difficile: sembra inutile. L’avvenire è incertissimo. La guerra è monotona; e i gesti dell’eroismo si somigliano tutti, dalle Fiandre ai Carpazi. Dovremo vivere due anni ancora in questa ottenebrazione dello spirito, rinchiusi nel breve cerchio del “comunicato” quotidiano? / Ho radunato molte osservazioni, per pagine future. Avrei volentieri mandato altre faville, ma Ella pensava con me che i Suoi lettori preferiscono per ora le cronache più o meno colorite alle visioni dei poeti pensosi. Non sono essi ancora stanchi?». L’istanza del poeta pensoso e di una seconda vista che dia anima alla superficie del reportage trova intanto sfogo almeno parziale nella collaborazione ai giornali francesi, dalla Chanson de Saucourt, la lettera aperta dal fronte occidentale che il 23 settembre 1914 egli invia al «Gaulois», il quotidiano ultranazionalista di Arthur Meyer, ai Jugements de la Terre, meditazione alla Maistre, come vuole Tosi, sulla mistica ctonia della «grande mort», apparsa sul «Figaro» del 31 gennaio 1915. Ma anche nell’Italia che ha deciso l’intervento il problema resta quello di risolvere la tensione, acutamente avvertita, tra le «realtà prossime» e la «visione lirica, che ha bisogno di lontananza e di mistero», sino a ridurre al silenzio nel fondo di un’esperienza interiore «il grido dei venditori di giornali, che mi precedono nel “canto”» (a Luigi Albertini, 27 maggio 1915). Per di più la ricerca di una parola di guerra altra da quella collettiva dell’azione di propaganda si scontra ora con l’ostacolo insormontabile della censura, particolarmente occhiuta verso l’esteta in uniforme, di cui si misconosce il valore militare e si teme invece il gusto impenitente per la posa e la réclame. Così la spinta sempre più intensa a una trascrizione in prosa lirica dell’evento bellico si fa strada, a squarci, nel dialogo epistolare con Albertini, certo con l’intento d’invogliare il direttore del «Corriere», attraverso la suasione di un campione concreto, a prendere in considerazione la felicità espressiva dello scrittore combattente «inebriato di bellezza»: si tratti dell’«incantesimo eroico» di «Venezia di notte», improvvisamente rischiarata sotto «un cielo di tempesta» dai riflettori di una flottiglia di torpediniere, o, di ritorno da un’impresa sul mare, dell’indicibile «bellezza dell’alba, su le dodici navi naviganti in linea verso Malamocco». Il resto va per l’appunto ricercato nelle «molte osservazioni, per pagine future» che d’Annunzio viene raccogliendo nei Taccuini, i quali sin dall’inizio del conflitto assumono sempre più decisamente le forme e la scansione di un diario, di là dalla mera registrazione di appunti, con pagine costruite in un contrappunto volubile di impressioni dal vero e di fulminee associazioni analogiche.
Quantunque si sappia «condannato al poema tirteico», giacché gli «è vietato parlare “dei fatti di guerra”» (3 agosto 1915), d’Annunzio fa chiara allusione a questo travaglio segreto, quasi una risurrezione della Favilla o del
poème en prose nello spirito del diario di guerra, in un’altra lettera ad Albertini del 17 dicembre, all’atto stesso in cui, con l’invio delle ultime
Preghiere dell’Avvento, pare esser sceso duttilmente a patti con il gusto e la volontà dell’interlocutore: «È probabile che da queste forme esatte e tradizionali io passi di nuovo a forme più insolite, se queste richiederà il movimento della materia lirica. / Dopo la serie delle
Preghiere io vorrei comporre poemi su mie dirette impressioni di guerra (corse notturne sul mare, stazioni nelle trincee e alle batterie, voli, episodi eroici, visite a ospedali, etc. etc.). Con le preghiere avrò finito il mio compito verso il “sentimento collettivo”; e mi sarà di gran dolcezza riaccostarmi alla poesia pura, tutta di commozione intima e di profondità segreta». Il lettore del
Notturno non può non riconoscere nei motivi lirici qui elencati da d’Annunzio, tutti attestati e variamente svolti nei Taccuini del 1915, i nuclei che ordinano le prose di guerra destinate a confluire nel «comentario delle tenebre», dallo sbarramento notturno della baia di Panzano alla cruenta battaglia d’artiglieria dell’Isola Morosina («che belle “faville” ho su quell’Isola dei pioppi!», scrive insinuante ad Albertini il 23 gennaio 1916). E almeno una di esse, quella dedicata alla sortita nottetempo nel mare nemico, approda subito alla luce della stampa, non in Italia ma in Inghilterra (e quasi certamente anche oltre Atlantico, in uno dei giornali del magnate delle comunicazioni William Randolph Hearst, con cui d’Annunzio è da tempo in rapporto), sulla prima pagina del «Daily Telegraph» del 29 dicembre, con il titolo cattivante
A Poet’s Adventures. Laying Mines on an Enemy Coast. Inutilmente, poi, il 4 gennaio 1916 d’Annunzio sottopone questa «rappresentazione rapida» della guerra nella versione originale italiana all’attenzione di Albertini, sperando di vincerne la prudenza. Il 5 giugno successivo egli ne chiede la restituzione, certo per verificare la possibilità di inserire la
Notte Adriatica, come ora egli la chiama, nel testo di accompagnamento che viene approntando per la ristampa in volume della
Leda senza cigno. Ma nella
Licenza, alla fine, d’Annunzio colloca la narrazione di un altro episodio bellico, relativo al naufragio e alle operazioni di recupero del sommergibile
Jalea. E il testo emozionante sull’impresa di Panzano potrà essere accolto pressoché immutato nel
Notturno, non senza, si noti, che dall’una all’altra delle due
adventures si riproduca sostanzialmente identico un frammento caratteristico come: «Il mare s’incupisce; ma nella sua palpitazione accelerata si sente già la fosforescenza notturna. L’increspamento luccica qua e là, d’una luce interiore, come una palpebra che batta e lasci sfuggire uno sguardo misterioso. La luna nuova è come un pugnello di solfo che bruci. A quando a quando la nuvola nera del fumaiuolo la nasconde, oppure sembra trarla come una favilla fugace nella sua voluta. La vita non è un’astrazione di aspetti o di eventi, ma è una specie di sensualità diffusa, una conoscenza offerta a tutti i sensi, una sostanza buona da fiutare, da palpare, da mangiare» (
e
Rom. II, pp. 1064-5; il brano, con la debita autorizzazione del Ministero della Marina, viene anticipato in due puntate sul «Corriere della Sera», il 20 e il 22 settembre 1916). Come ha osservato Annamaria Andreoli, alle origini lo stile
coupé dell’annotazione essenziale e nervosa, quasi l’impronta digitale della scrittura notturna, è strutturalmente correlato all’esperienza diretta della guerra e al problema della sua espressione verbale, in una esplorazione a tutto campo dei generi e dei registri del discorso, a cominciare da quello «rapido» del giornalismo, per di più nella sua variante anglosassone.
Di là dagli esiti espressivi, testi quali i Tre salmi per i nostri morti mostrano come l’estetizzazione del conflitto coinvolga fin dall’inizio una mistica della morte che, offerta alle vittime predestinate del sacrificio collettivo, identifica nei caduti i membri di una comunità più reale di quella in gran parte ancora da creare della nazione in guerra. Poi il 21 dicembre 1915, nel cielo di Venezia, un banale incidente durante un volo di collaudo provoca la morte di Giuseppe Miraglia, il trentatreenne pilota comandante della Squadriglia di idrovolanti di stanza nell’isola veneziana di Sant’Andrea, col quale d’Annunzio, di lì a giorni, avrebbe dovuto compiere una temeraria impresa aerea su Zara, che i due avevano a lungo concertato e sognato insieme. Ed è come se la morte di massa avesse infine fatto irruzione, oltre che nello spazio elitario dei cavalieri del cielo, in quello più segreto e vulnerabile dell’interiorità. Con il giovane combattente, introverso, taciturno, di fine gentilezza d’animo temprata d’ironia, il poeta aveva stretto un legame intenso di compagnonnage, che si nutriva della comune passione per il rischio, vero e proprio amor fati, ma che la differenza d’età arricchiva di risonanze profonde e complesse, di nuovo nel territorio che unisce e divide la parola e l’azione. La scomparsa dell’amico provoca per contraccolpo una irrefrenabile urgenza espressiva. Già il 25 dicembre d’Annunzio confida a uno dei commilitoni di Sant’Andrea, Manfredi Gravina, il ...