Ah, chi mai al mondo ha commesso stoltezze più grandi dei compassionevoli? E che cosa al mondo ha provocato più dolore delle stoltezze dei compassionevoli?
Guai a tutti quelli che amano, se non hanno ancora un’altezza che sia superiore alla loro compassione!
Una volta il demonio mi parlò così: «Anche dio ha il suo inferno: è il suo amore per gli uomini».
E di recente l’ho sentito dire queste parole: «Dio è morto; a causa della sua compassione per gli uomini, dio è deceduto». –
ZARATHUSTRA, Dei compassionevoli (II, p. 87)
Il sacrificio del miele
– E di nuovo trascorsero lune e anni sull’anima di Zarathustra, ed egli non ne tenne conto; ma i suoi capelli diventavano bianchi. Un giorno, mentre sedeva su una pietra davanti alla sua caverna e guardava lontano in silenzio – da lì lo sguardo va fino al mare e oltre, sopra contorti abissi –, ecco che i suoi animali cominciarono a girargli attorno pensierosi e alla fine gli si misero dinnanzi.
«O Zarathustra», dissero, «scruti in cerca della tua felicità?»
– «Che importa la felicità!» egli rispose, «da tempo non miro più alla felicità, miro alla mia opera.» – «O Zarathustra», ripresero a parlare gli animali, «lo dici come uno che di bene ne ha anche troppo. Non stai forse in un lago di felicità azzurro come il cielo?» – «Voi, burloni maliziosi», rispose sorridendo Zarathustra, «come avete scelto bene il paragone! Ma io so anche che la mia felicità è pesante e non è come acqua scorrevole di sorgente: mi preme e non vuole andarsene da me e si comporta come la pece fusa.»
Allora gli animali girarono ancora pensierosi intorno a lui e ancora una volta gli si misero davanti. «O Zarathustra», dissero; «da questo deriva il fatto che tu ti fai sempre più giallo e scuro, sebbene i tuoi capelli vogliano apparire bianchi e simili al lino? Ecco, sei seduto nella tua pece!» –
«Che dite, animali miei», disse Zarathustra, ridendone, «davvero ho bestemmiato a parlare di pece. Quello che succede a me, succede a tutti i frutti che maturano. È il miele che nelle mie vene fa più denso il sangue e ancor più silenziosa la mia anima.» – «Sarà così, Zarathustra», risposero gli animali e gli si strinsero attorno; «ma oggi non vuoi salire su un’alta montagna? L’aria è tersa e oggi, del mondo, si può vedere più che mai.» – «Sì, animali miei», egli ribatté, «voi mi consigliate in maniera eccellente e conforme al mio cuore: oggi voglio salire su un’alta montagna! Ma fate in modo che là io abbia del miele a portata di mano, dorato miele di favo, giallo, bianco, buono, fresco come ghiaccio. Perché sappiate che lassù voglio fare il sacrificio del miele.» –
Ma quando Zarathustra fu in cima alla montagna, mandò a casa gli animali che lo avevano accompagnato, e si ritrovò da quel momento solo: – allora rise proprio di cuore, si guardò attorno e parlò così:
Avere parlato di sacrifici e di sacrifici del miele è stata solo un’astuzia del mio discorso e, davvero, un’utile stupidaggine! Quassù posso già parlare più liberamente che davanti a caverne di eremiti e ad animali domestici di eremiti.
Quale sacrificio! Io sperpero ciò che mi viene donato, io sperperatore dalle mille mani: come potrei ancora chiamare ciò – sacrificio!
E quando espressi il desiderio del miele, desideravo solo un’esca, il dolce miele vergine, denso come una pappa, di cui sono golosi anche orsi brontoloni e strani uccelli che borbottano cattivi:
– la migliore esca, quale occorre ai pescatori e ai cacciatori. Perché se il mondo è come una foresta oscura piena di bestie e un giardino di delizie per tutti i cacciatori selvaggi, esso mi sembra piuttosto, ancora di più, un mare ricco e popolato di abissi,
– un mare pieno di pesci e crostacei dai molti colori, di fronte al quale anche agli dèi potrebbe venire voglia di farsi pescatori e di gettarvi le reti: tanto ricco è il mondo di cose mirabili, grandi e piccole!
Specialmente il mondo degli uomini, il mare degli uomini: in esso ora getto la mia dorata canna da pesca e dico: schiuditi, abisso degli uomini!
Schiuditi e gettami i tuoi pesci e i tuoi granchi scintillanti! Con la mia esca migliore voglio oggi adescare per me i più bizzarri pesci umani!
– la mia stessa felicità getto lontano in tutte le vastità e lontananze, fra levante, mezzogiorno e ponente, per vedere se molti pesci umani non impareranno ad abboccare, dibattendosi, alla mia felicità.
Finché, abboccando al mio aguzzo amo nascosto, non siano costretti a salire alla mia altezza, i variegati pesciolini degli abissi, su, fino al più malvagio di tutti i pescatori di uomini.
Questo, infatti, io sono dal profondo e dal principio, trainando, traendo verso di me, portando in su, allevando, uno che tira, un coltivatore, un maestro severo, che una volta disse non invano a se stesso: «Diventa quello che sei!».
Così d’ora in poi gli uomini vogliano venire in alto da me: perché attendo ancora i segni che è giunto il tempo della mia discesa, e ancora non scendo tra gli uomini, come dovrò fare.
Questo io attendo qui, astuto e beffardo, su alti monti, non impaziente, non paziente, piuttosto come uno che ha disimparato anche la pazienza – perché non “tollera” più.
Il mio destino, infatti, mi lascia tempo: mi ha forse dimenticato? O se ne sta seduto dietro un grande masso all’ombra ad acchiappare le mosche?
E davvero, io gli sono grato per questo, al mio eterno destino, che non mi incalzi e prema e mi lasci il tempo per burle e cattiverie: tanto che oggi io sono salito su questa alta montagna a irretire pesci.
È mai successo a un uomo di irretire pesci su un’alta montagna? E se anche è una sciocchezza ciò che io voglio e faccio quassù: pur sempre meglio questo che stare là sotto a farmi maestoso nell’attesa, e verde e giallo –
– uno che sbuffa, dandosi delle arie, incollerito, nell’attesa, una sacra tempesta mugghiante dai monti, un impaziente che grida giù nelle valli: «Udite, o vi frusto col flagello di dio!».
Non che io abbia per questo del rancore verso questi collerici: sono ben capaci di farmi ridere! Già non possono fare a meno di essere impazienti, questi grandi tamburi chiassosi, che possono avere la parola oggi o mai più!
Ma io e il mio destino – noi non parliamo all’oggi, e neppure parliamo al mai: abbiamo già pazienza e tempo, e tempo in abbondanza per parlare. Perché un giorno esso dovrà venire e non potrà passare oltre.
Chi dovrà venire un giorno e non potrà passare oltre? Il nostro grande azzardo, cioè il nostro grande lontano regno dell’uomo, il regno di Zarathustra, di mille anni – –
Quanto lontana può essere questa “lontananza”? che mi importa! Ma per questo essa non è per me meno sicura –, con entrambi i piedi io rimango saldo su questo fondamento,
– su un eterno fondamento, di dura roccia originaria, su questo che è il più duro e il più alto dei monti, sul quale convergono tutti i venti come sul confine atmosferico, chiedendo dove? e donde? e verso dove?
Qui ridi, ridi, mia luminosa salutare cattiveria! Dalle alte montagne getta in basso la tua scintillante risata beffarda! Adesca per me col tuo scintillio i più bei pesci umani!
E ciò che in tutti i mari mi appartiene, ciò che in tutte le cose è in-me-e-per-me – pescalo per me, portalo su in alto da me: io, il più maligno di tutti i pescatori, questo sto aspettando.
Fuori, fuori, mio amo! Dentro, in giù, in basso, esca della mia felicità! Stilla la tua rugiada più dolce, miele del mio cuore! Dai un morso, mio amo, al ventre di ogni nero travaglio!
Fuori, fuori mio occhio! Oh, quanti mari tutt’intorno a me, quali albeggianti futuri degli uomini! E sopra di me – quale rosea quiete! Quale silenzio senza nubi!
Il grido di aiuto
Il giorno seguente Zarathustra sedeva di nuovo sulla sua pietra davanti alla caverna, mentre fuori gli animali andavano vagando per il mondo in cerca di nuovo cibo da portare a casa – anche di nuovo miele: poiché Zarathustra aveva consumato e sperperato il vecchio miele fino all’ultimo granello. Ma mentre se ne stava lì seduto in quel modo, con uno stecco in mano a disegnare per terra l’ombra della sua figura, meditando, e certo non su di sé e la sua ombra – ecco che a un tratto fu preso da spavento e trasalì: poiché aveva scorto accanto alla sua ombra un’altra ombra ancora. E come si fu rapidamente guardato intorno e si fu levato in piedi, ecco che accanto a lui stava l’indovino, lo stesso al quale un giorno aveva dato da mangiare e da bere alla sua tavola, colui che aveva proclamato la grande stanchezza, insegnando: “Tutto è indifferente, niente vale la pena, il mondo è senza senso, il sapere soffoca”. Ma il suo volto si era nel frattempo trasformato; e quando Zarathustra lo guardò negli occhi, il suo cuore ebbe un’altra volta un moto di spavento: tanti cattivi presentimenti e fulmini grigio cenere correvano su quel viso.
L’indovino, che aveva percepito ciò che accadeva nell’animo di Zarathustra, si passò la mano sul volto, come se volesse rimuoverlo; lo stesso fece anche Zarathustra. E quando entrambi in silenzio si furono in tal modo ripresi e fatti forza, si porsero le mani in segno di volersi riconoscere.
«Sii a me benvenuto», disse Zarathustra, «tu che predici la grande stanchezza, non devi essere stato invano ospite una volta alla mia tavola. Mangia e bevi anche oggi da me e concedi a un vecchio soddisfatto di sedere a tavola con te!» – «Un vecchio soddisfatto?», rispose l’indovino scu...