Il taglio del bosco
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Il taglio del bosco

Racconti lunghi e romanzi brevi

  1. 588 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Il taglio del bosco

Racconti lunghi e romanzi brevi

Informazioni su questo libro

Il taglio del bosco è una raccolta di nove "racconti lunghi e romanzi brevi" costruita attorno a quello eponimo, che Cassola stesso giudicava il proprio testo migliore. Opera dalla genesi complessa, uscita da Einaudi nel 1959 e mai più ripubblicata, costituisce un momento di riflessione cruciale e di svolta nella produzione di Cassola. È proprio il racconto Il taglio del bosco a fare da spartiacque tra la fase "subliminare" dei primi tre testi e quella più matura, realista, degli ultimi cinque, nella quale si avverte il respiro del grande romanziere, l'autore di Fausto e Anna e La ragazza di Bube. La raccolta, nel suo insieme, appare quindi come una sorta di precipitato del passato e di anticipazione del futuro, un'opera nodale di dolente forza poetica che delinea al contempo uno spaccato della società italiana in un'epoca di forti cambiamenti letterari e civili. E si legge come autobiografia artistica e spirituale di uno scrittore attento a cercare nei destini ordinari della vita il significato dell'esistenza e, nei fatti dei propri tempi, la verità della storia.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2013
Print ISBN
9788804612063
eBook ISBN
9788852032189

Un matrimonio del dopoguerra

PROLOGO
I
Tutto era accaduto molto rapidamente. Stavano mangiando il rancio seduti sullo zoccolo della carbonaia; la guida era venuta a mettersi accanto a loro e aveva detto della richiesta del comitato per un’azione in città. Certamente, aveva aggiunto, il comandante cercherà qualcuno che si offra volontario.
«Si va noi due?» aveva detto Pepo a Ottorino.
Ottorino lì per lì non aveva risposto nulla, ed ecco, era intervenuto Testina:
«Vengo anch’io.»
Non avevano nemmeno finito di mangiare e, con le gavette in mano, erano andati su per il viottolo al capanno del comandante.
Mario aveva già finito di mangiare e stava fumando una sigaretta. La fumava nell’interno del capanno per non essere visto; già qualcuno si era lamentato, per via delle sigarette. Perciò li accolse sgarbatamente:
«Che volete?» disse.
«Siamo venuti a offrirci volontari per l’azione» rispose Pepo.
«Ora si vede» disse Mario. Egli non aveva ancora deciso se aderire o no alla richiesta del comitato. I tre la presero per una risposta affermativa e le ore del pomeriggio le impiegarono a prepararsi. Si fecero anche la barba. Lasciarono il campo prima del secondo rancio. All’ultimo momento, Mario li richiamò dicendo: «Prendete». Tirò fuori tre pacchetti di sigarette e ne diede uno per ciascuno. Fu allora che Pepo, e certamente anche gli altri due, provarono un senso di freddo.
Così da principio non scambiarono una parola. Camminavano in fila indiana, la guida avanti, loro tre dietro. Il viottolo era stretto e sassoso; solo nei punti in cui avvallava ci cresceva in mezzo l’erba. A un certo punto si biforcò. «Di qua!» disse Pepo, ma la guida senza voltarsi fece segno di no. Ora camminavano in salita; rallentarono l’andatura.
La salita finì e finì anche la macchia; la vista si aprì all’improvviso, amplissima: proprio in faccia a loro, nell’aria grigia, leggermente brumosa, si vedeva Volterra, una lunga linea di case sull’altura.
Scesero per la tagliata fresca. La ramaglia che ingombrava il suolo costringeva a fare attenzione a dove si metteva il piede. Attraversarono obliquamente la tagliata e infilarono un viottolo chiuso tra due pareti di bosco. Quando finalmente il bosco diradò, era buio. Sulla sinistra era spuntata la stella di Venere; parecchi lumi punteggiavano l’oscurità della campagna.
«Ma dove siamo finiti?» domandò Pepo.
«Sotto Ariano» rispose la guida fermandosi. «Quella è la strada della fattoria» aggiunse indicando una striscia bianca.
«Ma non ci sono i militi alla fattoria?» intervenne Ottorino.
«Noi tanto passiamo al largo.»
Scesero nel letto di un torrentello, risalirono la scarpata, e furono sulla strada. Gli scarponi chiodati risuonavano sulla massicciata. Pepo ancora non si raccapezzava:
«Ma dove rimane Ariano? Di qua o di là?»
«Ehi,» disse Testina, che era rimasto indietro «non ci si potrebbe fermare a mangiare?»
«Prima facciamo la salita,» rispose Ottorino «che a stomaco pieno si cammina male.»
«Facciamoci almeno una fumatina.»
«Giusto, una fumatina»; quasi se l’erano dimenticate quelle sigarette. Sedettero sul bordo del campo. Cimino, la guida, tirò fuori la scatola del tabacco e le cartine, ma Pepo volle che prendesse una Nazionale. Cimino dapprima rifiutò:
«Tenetene di conto, ragazzi, non le fumate tutte stasera... Domani vi faranno comodo.» Ma poi finì con l’accettare.
«La sigaretta, la dànno ai condannati a morte» osservò Ottorino. Ottorino non fumava; la sua razione, se l’erano spartita i compagni.
«Come sarebbe a dire?» domandò Testina.
«Io mi ci sono anche ritrovato» continuò Ottorino senza badargli. «Erano in due, li voltarono contro la fossa e poi gli misero in bocca una sigaretta accesa.»
«Ma dove?» fece Testina.
«A Mostar, in Jugoslavia.»
«E chi erano?»
«Due partigiani, no?» rispose Pepo per Ottorino. A lui quel fatto Ottorino gliel’aveva già raccontato; tuttavia chiese: «Che impressione fa veder fucilare un uomo?».
«Una brutta impressione, te lo dico io. Io, mi ricordo, stetti un giorno senza poter mangiare.»
«Eh,» sentenziò Cimino «dev’essere una cosa...»
Per un po’ fumarono in silenzio. L’aria era scura, tiepida; non tirava un filo di vento. Pepo si sdraiò per fumare guardando il cielo.
«E se domani ci prendessero e toccasse a noi di essere fucilati?» disse Testina.
«Tutto può essere» fece Cimino tranquillamente. Cimino era un giovanotto alto e grosso; aveva solo qualche anno più di loro, che erano tutti e tre del ’21; eppure pareva un uomo fatto, aveva quasi l’apparenza di una persona anziana. Forse perché era sposato e con tre figlioli. «Andiamo, via» disse spengendo la cicca e riponendola nella scatola del tabacco. Anche gli altri conservarono la cicca: con cinque cicche, ci si faceva un’altra sigaretta.
Erano a metà salita quando sentirono scampanellare.
«Buttiamoci da questa parte» fece Cimino; e saltò giù dal muro.
«E chi vuoi che sia» disse Testina.
«Ma è sempre meglio non farci vedere» ribatté Pepo.
Uno dopo l’altro si buttarono di sotto. Il muro era alto, ma la terra soffice del campo lavorato attutiva la caduta. Pepo e Ottorino caddero in piedi, Testina finì seduto e rimase in quella posizione. Dopo una diecina di secondi, sul loro capo passò il vento e il rumore di una bicicletta. Il campanello tintinnava.
«Dev’essere Pio» disse Cimino raddrizzandosi.
«Chi Pio?»
«Il figliolo del mugnaio» rispose Cimino laconicamente.
Quando furono in cima alla salita scòrsero sulla sinistra, quasi alla loro altezza, i fari di una macchina.
«E quella?» disse Pepo. «Viene verso di noi.»
«Ma no, è sulla statale» gli disse Ottorino.
«Sarà una macchina tedesca?»
Cimino si voltò:
«È probabile» rispose. «Ne passano in continuazione.»
I fari diventarono uno solo, poi il fascio di luce sparì. Ricomparve più lontano.
«Sarebbe un bel fatto,» disse Pepo «appostarsi sulla strada e la prima macchina tedesca che passa, una scarica, e via.»
«Gli faresti assai, con la rivoltella» ribatté Ottorino.
«Ma se avessimo portato il fucile mitragliatore...»
«Ora però ci si potrebbe anche fermare a mangiare» disse Testina.
Tirarono fuori le provviste. Cimino stese la spessa fetta di prosciutto sul pane e via via che ammorsava il pane si tagliava un pezzetto di prosciutto con un coltellino.
«Si vede che hai fatto il barrocciaio» disse Testina, e si mise a ridere. «I barrocciai,» aggiunse rivolto ai compagni «non sanno mica mangiare nel piatto. Mettono la carne sul pane, e poi, col coltello, un pezzetto di carne, un boccone di pane...»
«È una vita di sacrificio» disse Cimino a bocca piena.
«Però questo prosciutto» cominciò Pepo. «Se ci fosse abbondanza anche di sigarette, ci metterei la firma, di fare il partigiano per tutta la vita.»
«Dici così perché ci siamo da un mese soltanto» fece Ottorino. «Vedrai, se la cosa continua un pezzo, che ha tempo di venirti a noia.»
«A me è già venuta a noia» disse Testina. Quando ebbe finito di mangiare, tirò fuori le sigarette.
«Ma poi non se ne fuma più, intesi?»
«Niente più sigarette finché non arriviamo a casa» promise Testina.
«Perché, credi di andartene a dormire a casa?»
«E dove, allora?»
«Che dici, io abito nel vicolo di piazza, vado proprio a dormire a casa.»
«Io ci vado a casa. Tanto, è subito dopo la porta.»
«Tu vieni dove ti conduco io» intervenne Cimino.
«E dove mi conduci?»
«Al capanno di Donato.»
«Hai detto mi porti al Grand Hôtel. Io me ne vado, ma a casa.»
«No, tu fai quello che ti dico io.»
«Smettetela» disse Pepo. «Tu, se hai un po’ di cervello, vieni a dormire con noi» aggiunse rivolto a Testina.
Cimino, stavolta, non volle accettare la sigaretta. Forse era adirato con Testina e, indirettamente, con tutti e tre. Come più anziano, si considerava il capo del gruppetto. Stava in mezzo alla strada, con le mani nelle tasche dei pantaloni; lasciò passare qualche minuto, poi disse: «Andiamo». Gli altri erano sempre a metà della sigaretta e non accennarono nemmeno ad alzarsi. «Andiamo» ripeté Cimino, e si avviò per conto suo.
«Passami il vino» disse Testina.
Pepo si sfilò la borraccia e gliela porse.
«Andiamo, via,» fece Ottorino alzandosi «sennò sembra che non vogliamo andar con lui.»
«Io ne ho già le scatole piene» disse Testina. «Tu ne vuoi?» e scosse la borraccia in direzione di Ottorino. Ottorino fece segno di no. «Questi comunisti,» riprese Testina «son peggio dei gerarchi. Mi sembra d’esser tornato ai tempi della GIL.»
«E tu, allora? Non sei comunista?»
«Volevo dire... i dirigenti. Cominciando da Mario» aggiunse dopo un po’. «Voglion comandare tutto loro. Sembrano, Dio buono...»
«Qualcuno bisogna pure che comandi» osservò Pepo.
«Io la gente boriosa non l’ho mai potuta soffrire» rispose Testina.
Raggiunsero Cimino, poi continuarono tutti e quattro insieme. Passarono davanti a una casa immersa nel silenzio e nel buio. A una seconda casa un cane si mise ad abbaiare furiosamente. Gli rispose, chissà da dove, un altro cane; più lontano, si sentì pure abbaiare.
«Come sono i cani» osservò Testina. «Basta che uno si metta ad abbaiare, gli risponde un altro, un altro... è tutta una catena.»
Pepo era pensieroso. Quei latrati nella notte gli facevano un’impressione strana... Era strano che egli si trovasse lì, in quei luoghi che gli erano familiari, per essere stati in passato la mèta di merende e passeggiate, armato, con due compagni, in procinto di compiere un’azione... Avrebbe voluto dirlo agli altri, per sapere se anch’essi lo trovavano strano; ma non sapeva come dire. Alla fine si rivolse a Cimino:
«È da queste parti il podere di Ferravilla?»
«Ci siamo passati prima» rispose Cimino. «No, non dov’era il cane, dov’era la fila di cipressini...»
«È strano» disse Pepo. «Non l’avevo riconosciuto. Oh, di’,» fece senza rivolgersi a nessuno in particolare «io a Ferravilla ci conoscevo il contadino... Ci son venuto tante volte, quando ero ragazzo.»
«Io da queste parti mi sembra di non esserci mai venuto» disse Ottorino.
«Ti ci voleva la vita partigiana, eh? per levarti dal Corso. Oh, ragazzi,» continuò Testina «ma questo qui, a qualunque ora del giorno, lo trovavi sempre nel Corso: a veder passare le ragazze.»
Cominciarono a prendere in giro Ottorino. Cimino andava avanti per conto suo, senza metter bocca in quei discorsi e senza far eco alle risate. Non capiva i loro discorsi, non capiva cosa ci trovassero di divertente. Lui non rideva mai, era sempre serio, sempre accigliato.
Da ultimo Testina diede una spinta a Ottorino facendolo finire nel campo. Ma cominciò una nuova salita, che riportò il silenzio e l’ordine nella compagnia.
Ormai erano proprio sotto Volterra; se ne vedeva la mole buia, incombente sulle loro teste. Arrivarono sotto la statale proprio nel momento in cui passava una macchina; la luce dei fari tagliò l’oscurità, un debole riverbero investì anche loro. «È meglio prendere di qua» disse Cimino, e piegò per un campo coltivato a grano. Gli scarponi affondavano nella terra molle. Si trovarono improvvisamente davanti a una casa. «Ora zitti» disse Cimino.
Testina, tanto per disobbedirgli, disse:
«Ragazzi, vi piacerebbe incontrare il maresciallo?»
«Mi piacerebbe sì,» rispose Pepo «che mi ha mandato i carabinieri a casa.»
«Zitti» ripeté Cimino.
Testina si voltò per dire qualche altra cosa; e in quella vide dietro la mole buia del Monte Voltrajo un chiarore intenso. «Ehi, ragazzi, la luna» fece abbassando involontariamente la voce.
Tutti e tre si fermarono a guardare quel chiarore intenso, splendente dietro la mole nera del monte. La vasta campagna non era più buia, si distinguevano le successive ondulazioni.
«Volete venire?» disse Cimino che era tornato indietro.
«Aspetta, ci si riposa un minuto.»
Pepo guardava intensamente quel chiarore come per trarne un presagio.
II
La mattina, svegliandosi, Pepo stentò a rac...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Il taglio del bosco
  3. Introduzione di Manlio Cancogni
  4. Cronologia
  5. Bibliografia essenziale
  6. Nota al testo
  7. IL TAGLIO DEL BOSCO
  8. Baba
  9. Rosa Gagliardi
  10. Le amiche
  11. Il taglio del bosco
  12. I vecchi compagni
  13. Esiliati
  14. La casa di via Valadier
  15. Un matrimonio del dopoguerra
  16. Il soldato
  17. Copyright