Sei uscito e già cammini, puledro ingessato, nelle aule del Palazzo di Giustizia.
Il thermos è sul comodino, accanto ai giornali e ai biscotti alla crusca, nel lettore cd il Secondo concerto per pianoforte e orchestra di Rachmaninov.
Pensi sempre a tutto, tu.
L’abito nero penzola dall’anta dell’armadio come un corpo a digiuno, accanto ai collant e alle décolleté Manolo Blahnik che mi hai regalato ieri. Costano troppo, ti ho detto, e hanno il tacco a stiletto, da ragazza cattiva. Il solitario brilla, all’anulare. Ti meravigli che lo tenga anche per dormire quell’anello prezioso che mi donasti a un anno dalla cena in cui ci incontrammo, ma ne sei fiero perché ti piacciono i simboli.
Il letto sfatto è un cratere muto. Mi sfida la cavità dell’ansa ancora tiepida che hai lasciato, mentre il pianista prelude ai fiati che addestreranno il suo malore sui tasti dello Steinway. Oggi sono di corta, giorno di riposo, non ho perimetri dentro i quali muovermi senza sbandare. Ci sarebbe l’appuntamento con l’estetista alle dieci. Farsi bella è un imperativo, con te, che lo sei per natura e conosci il potere dei tuoi capelli folti che cadono a piombo e lambiscono la nuca bianca.
La busta è sullo scrittoio. Se lo tengano così, hanno redattori stipendiati per le sviste e i refusi. Non venderò molte copie, mi sono tolta uno sfizio. Niente film tratto da, questa volta. Le storie dei bambini sono impopolari e tristi se non le ammortizzi con il lieto fine.
Il caffè si seda, ancora caldo. Il Secondo movimento è bonario come la tua assenza, gli ostinati del pianoforte sono armonici e trasparenti. Stendo le braccia intorpidite verso il soffitto della stanza che non distingue più i nostri fruscii.
Difettato, Nicola. È difettato l’interruttore del mio comodino. Non siamo stati capaci di chiamare un elettricista che lo sintonizzasse con il tuo. Sono settimane che leggiamo qualche pagina a turno, una scusa per strusciarmi su di te e scomporre lo sfrigolio della rivista che leggiucchi negligente.
È che i guasti li avverti nei momenti più insensati: mentre sbatti un uovo, ti spalmi sulla faccia una maschera idratante, ti spruzzi gli occhi gonfi e non ti ricordi più nemmeno perché hai pianto, perché tutto si confonde Nic, i giorni felici e quelli noiosi, i tentativi e le rivelazioni. Le squame di una luna sbilenca e gli abbracci interrotti dal telefono.
Gabriella sostiene che con gli impacchi di camomilla il gonfiore si assorbe. L’aroma aspro si diffonde dal thermos con l’eco del tuo dopobarba che stuzzica le narici come un lezzo, ma un odore è solo un odore, non l’ennesima occasione per sfruttare il ricordo del tuo tocco distratto sul mio seno.
Non mi hai avvertita, Nic, che il guasto fa udire la sua afonia quando compi gesti che necessitano, per definizione, di ripetitività. In quei precisi istanti, mentre sei perplessa davanti al dito inguainato di crema e ti chiedi perché continui a sprecare cadenze per appiattire una ruga, il buco si allarga, le voci braccano le incavature del cervello senza consolare con la titubanza degli archi consumati dal lato delle corde acute, stelle filanti appese al cielo di questa cella.
Provo a chiamarti. In tribunale il cellulare non prende, il pianista rigonfia il Terzo movimento, schiaffeggia la tastiera come acqua sporca e io digito il tuo numero, ascolto il ninnìo della suoneria a vuoto.
Voglio sentire se lo schianto dell’impotenza è ancora vivido.
Lo è, Nicola, e trascina con sé le filamentose ragnatele della solitudine, inospitale asilo della mia follia.
Immobile nel letto, imbragata nella camicia di forza del mio giorno di libertà, non so che farmene di una libertà che disorienta, deserto dalle dune gibbose che si confonde con i tuoi fianchi morbidi, consumati dalle mie carezze.
Assordano le voci quando sei libera, mentre il clarino irrompe appuntito e liquefa i polpastrelli del solista.
Perché non hai capito, Nicola, che l’affanno verso l’amore puro accoglie in sé la certezza del fallimento?
Lo hai sempre saputo che fuori da te non esisto e non so dove andare. Mi costringi a stare qui mentre muovi le tue giovani ossa nei marmorei corridoi del tribunale. Assecondi le regole tu, ami la circoscritta definizione di Bach e lasci a me, sperduta nel riflesso di un vetro rotto, la stravagante ruvidità di Rachmaninov.
Suonava lo stesso pianoforte quel giorno, amore mio, quando ti dissi: «Non posso. Sono guasta».
E tu, con l’asfissiante certezza dei tuoi occhi stanchi di rammarichi, hai biascicato che no, non ero una mela guasta, ma «una scrittrice che trova nella vita gli stimoli per continuare a deliziare i suoi lettori».
“Deliziare”, che parola idiota.
Era inverno, Nicola. Mi portasti a Mosca, ricordi? Irridevi i miei crucci da bambina tirandomi palle di neve, soffici ali di angelo che si squagliavano sui rossori di guance disegnate nell’illusione.
Ti ho odiato per quella frase.
E per tutte le tue risposte dosate, prudenti, argute, puntuali. Liofilizzate. Rigorose, certo. Ma inadatte. E gremite dell’immenso amore che offrivi, amore mio, sbagliando ogni volta idioma.
Perché non hai allontanato come il faro di Balbec il momento in cui guardarti era vedere qualcosa di mai visto e da sempre atteso?
Stanno in cantina, le voci, Nic. Parlano la prediletta lingua del passato che non abbiamo riconosciuto. Là, ricordi? Nel luogo dove avremmo dovuto incontrarci un giorno e non ci vedemmo, distratti dalle onde di quel mare adirato, nella notte gelata in cui davanti al corpo di tuo padre perdesti tutte le tue lacrime. Perché quella gente si perde, amore mio. E non si ritrova nel mormorio di una donna che cerca vincoli solo in ciò che se ne va. Né con un uomo che trova salvezza nella pianura dipinta a tempera da un bambino.
Le voci sono incanto, amore mio. Stregati sortilegi, come la ninnananna che Brahms ti cantò quella notte, quando volevi a tutti i costi riaprire i suoi occhi per dimostrare che era ancora vivo e lui invece restava inerte, nel suo completo grigio e cravatta nera e camicia con iniziali.
E tua madre, diritta dietro le tue spalle mingherline da piccolo marinaio, non toccava quell’uomo, glabro e addormentato sul marmo, perché non lo aveva mai amato.
Dormisti ancora, dopo quella notte, cullato dalla barca lenta, cercando le tue lacrime nel mare che ti aveva generato.
Ma non le trovasti più.
MINISTERO DELL’INTERNO
DIPARTIMENTO DELLA PUBBLICA SICUREZZA
DIREZIONE CENTRALE DELLA POLIZIA CRIMINALE
SERVIZIO POLIZIA SCIENTIFICA
GABINETTO REGIONALE
PER LA LOMBARDIA MILANO
Sprot. OPR. 1676-A/2002
Prot. Nr. 1676-A/2002
Oggetto: Fascicolo dei rilievi tecnici eseguiti in data 26 marzo 2002
In occasione del rinvenimento dei cadaveri di Rovati Nicola, nato a Milano il 26 giugno 1961, e di Solari Vera, nata a Milano il 10 gennaio 1948, attinti da colpi di arma da fuoco.
Milano, via Lomazzo nr. 31
ALLA SQUADRA MOBILE – 3a SEZ. MILANO
Per visione e inoltro all’A.G. competente, si trasmette il fascicolo dei rilievi tecnici effettuati da personale specializzato di questo ufficio, in occasione del sopralluogo indicato in oggetto.
Il Dirigente
Primo dirigente Polstato
Dr. Federico De Lentis
Dott.ssa Elena Tatarella
L’anno duemiladue addì 26 del mese di marzo alle ore 22.40 circa in Milano, la sottoscritta Prudenzio Anna, Agente scelto della Polizia di Stato, in qualità di videofotosegnalatore in servizio presso il Gabinetto Regionale di Polizia Scientifica della Questura di Milano, su richiesta della 3a Sezione della locale Questura e per disposizione superiore, si è recata in via Lomazzo 31, per eseguire i rilievi tecnici in occasione del rinvenimento dei cadaveri di Rovati Nicola, nato a Milano il 26 giugno 1961, e di Solari Vera, nata a Milano il 10 gennaio 1948, attinti da colpi di arma da fuoco. Erano presenti al sopralluogo il Sostituto Procuratore dottor Pasquale Longaretti, la dottoressa Aurora Broni in qualità di medico legale, il dottor Gianfranco Perilli della 3a Sez. della Squadra Mobile e personale dell’U.P.G. (Volante Duomo e Tevere Uno).
Si precisa che alle successive 23.05 circa giungeva sul posto, in ausilio della scrivente, l’Agente della Polizia di Stato Federici Roberto.
Giunta al piano terra sito a destra del portone d’ingresso dello stabile, si provvedeva a entrare nell’appartamento utilizzando le chiavi fornite dalla custode, Tortoli Piera, nata a Taranto il 30 settembre 1936, residente a Milano, in via Lomazzo n. 31, la quale riferiva di essersi portata poco prima presso la porta di ingresso sita al piano terreno, per verificare lo stato di salute degli occupanti, il Rovati Nicola e la Solari Vera in oggetto generalizzati. All’appartamento si accede attraverso una porta blindata, a doppio battente, in legno marrone con l’apertura verso l’interno, munita di tre serrature, che trovavamo chiusa. Varcata la soglia si osservava un salone di ampie dimensioni, a forma rettangolare. Giova precisare che l’accesso all’interno era parzialmente ostacolato dai due cadaveri rinvenuti in prossimità dell’ingresso.
IL SALONE: a destra si osservano tre ampie finestre. Le stesse non sono visibili perché coperte da tende di grandi dimensioni di colore panna. Sul lato destro della parete anteriore si osserva uno specchio a muro di piccole dimensioni di forma rettangolare. Sul lato sinistro si trova una libreria lunga circa metri 4,20, dietro la quale si accede a un corridoio sul quale si affacciano numero tre porte di accesso a due stanze da letto e un bagno. Di fronte alla porta di ingresso, a distanza di circa metri 7 dai due corpi una scala in legno conduce a un ballatoio delimitato sul lato verso il salone da una ringhiera in ferro verniciato di grigio. Sul pavimento a ridosso della porta veniva rinvenuta un’ogiva, presumibilme...