
- 252 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Per cause innaturali
Informazioni su questo libro
Una barca si arena sulle coste del Suffolk. A bordo c'è il cadavere del famoso giallista Maurice Seton. Le mani gli sono state mozzate: un macabro dettaglio che lo stesso Seton aveva inserito nel progetto del suo nuovo libro. Suo malgrado l'ispettore Adam Dalgliesh, in vacanza nella regione, viene coinvolto nel caso dagli amici e dai vicini di casa del morto. Un gruppetto di persone rispettabili. In apparenza. Ma con troppi segreti e troppi rancori nascosti. Una nuova, inquietante sfida all'acume investigativo di Dalgliesh. Un drammatico puzzle di indagini e di indizi. L'ennesimo capolavoro, d'alta scuola anglosassone, di P.D. James.
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Informazioni
Print ISBN
9788804364450eBook ISBN
9788852035739P.D. JAMES
PER CAUSE
INNATURALI
Traduzione di Anna Solinas

L’editore ha ricercato con ogni mezzo i titolari
dei diritti di traduzione senza riuscire a reperirli:
è ovviamente a piena disposizione per l’assolvimento
di quanto occorra nei loro confronti.
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Per cause innaturali
1
Il cadavere senza mani giaceva in fondo alla chiglia di una piccola lancia a vela che andava alla deriva proprio di fronte alla costa del Suffolk. Era il corpo di un uomo di mezza età, un cadaverino azzimato; in luogo di sudario, un vestito scuro a righine conferiva al corpo magro del morto l’eleganza che aveva avuto da vivo. Le scarpe fatte a mano erano ancora lucide eccetto per qualche spellatura sulle punte, la cravatta di seta era annodata al di sotto dello sporgente pomo d’Adamo. Si era vestito correttamente per la città, questo sfortunato navigatore, non per questo mare deserto, non per questa morte.
Era il primo pomeriggio di un giorno di mezzo ottobre e gli occhi invetriati erano rivolti a un cielo di un azzurro sorprendente, attraverso il quale il leggero vento di sud-ovest trascinava pochi brandelli strappati di nuvole. Lo scafo di legno privo di albero e di scalmi rimbalzava dolcemente sulle onde del Mare del Nord così che la testa si muoveva rotolando come in un sonno agitato. Era stato un viso impersonale anche in vita e la morte non gli aveva dato altro che una pietosa vacuità. I capelli biondi crescevano radi sopra una fronte alta e protuberante, il naso era così stretto che la linea bianca dell’osso sembrava voler forare la pelle; la bocca, piccola e dalle labbra sottili, si era aperta rivelando due incisivi sporgenti che davano al viso l’espressione arrogante di una lepre morta.
Le gambe, ancora stecchite per il rigor mortis, erano incastrate da una parte e dall’altra del centro chiglia e gli avambracci erano appoggiati sul traversino. Le mani erano state tagliate all’altezza del polso. Non era uscito molto sangue. Su ciascun avambraccio il gocciolio del sangue aveva tessuto una ragnatela nera tra i peli biondi e il traversino era macchiato come se fosse stato usato da tagliere. Ma era tutto; il resto del corpo e le assi della lancia non presentavano traccia di sangue.
La mano destra era troncata di netto e la terminazione ricurva del radio brillava bianca nel moncherino; ma la sinistra era stata tagliata alla bell’e meglio e le schegge ineguali dell’osso, acuminate come aghi, uscivano dalla carne rientrante. Le maniche della giacca e i polsini della camicia erano stati arrotolati per il macello e un paio di gemelli d’oro con le iniziali ciondolavano, scintillando quando nel loro lento oscillare li colpiva un raggio del sole autunnale.
La lancia, scolorita e scrostata, andava alla deriva come un giocattolo abbandonato sul mare quasi vuoto. All’orizzonte il profilo biforcuto di una cabotiera si dirigeva sulle rotte di Yarmouth; non c’erano altre imbarcazioni in vista. Verso le due un punto nero attraversò velocemente il cielo, diretto a terra, lasciandosi dietro una scia leggera e l’aria fu lacerata dal rombo dei motori. Poi il boato svanì a poco a poco e di nuovo non ci fu altro rumore se non lo sciacquio dell’acqua intorno alla barca e ogni tanto il grido di un gabbiano.
Di colpo la lancia beccheggiò con violenza, poi si assestò, girando lentamente su se stessa. Come se sentisse la forza d’attrazione della corrente di terra cominciò a muoversi più deliberatamente. Un gabbiano dalla testa nera, che si era posato con leggerezza sulla prua e vi era rimasto, immobile come una polena, si alzò in volo ruotando con alte strida intorno al corpo. Lentamente, inesorabilmente, con l’acqua che danzava a prua, la barchetta portò a terra il suo terribile carico.
2
Quello stesso giorno poco prima delle due l’ispettore capo Adam Dalgliesh fermò senza rumore la sua Cooper Bristol nello spiazzo erboso davanti alla chiesa di Blythburgh e un momento dopo entrò dalla porta della cappella nord nel freddo biancore argentato di uno dei più begli interni di chiesa del Suffolk. Era diretto al promontorio di Monksmere, subito a sud di Dunwich, dove avrebbe trascorso dieci giorni di vacanza autunnale presso una zia nubile che era la sua unica parente, e questa era l’ultima tappa del viaggio. Aveva lasciato l’appartamento nella City prima che Londra si svegliasse e invece di prendere la strada diretta per Monksmere, che passava da Ipswich, a Chelmsford si era diretto a nord, per entrare nel Suffolk a Sudbury. Aveva fatto colazione a Long Melford e voltato poi verso ovest a Lavenham, per godere a proprio agio il verde e l’oro di questa contea così poco deturpata dalla civiltà moderna. Il suo umore sarebbe stato perfettamente in sintonia con la bella giornata se non fosse stato per un pensiero che tornava con persistenza a tormentarlo. Aveva di proposito rimandato a questa vacanza una decisione personale. Prima di ritornare a Londra doveva finalmente decidere se chiedere a Deborah Riscoe di sposarlo.
Illogicamente, la decisione gli sarebbe rimasta più facile se non avesse saputo con tanta certezza quale sarebbe stata la risposta. Ciò addossava a lui l’intera responsabilità di decidere se cambiare l’attuale soddisfacente status quo (soddisfacente per lui, a ogni modo, e del resto si poteva ben supporre che anche Deborah fosse più felice adesso di un anno fa) con una catena che tutti e due, come egli sospettava, avrebbero considerato inscindibile qualsiasi fosse la riuscita. Poche coppie sono infelici come quelle troppo orgogliose per ammettere la propria infelicità. Alcuni dei rischi li conosceva. Sapeva che a lei non piaceva il suo lavoro, che ne era irritata. Ciò non era affatto strano né, di per se stesso, importante; il lavoro l’aveva scelto lui e non aveva mai chiesto a nessuno approvazione o incoraggiamento. Ma era una prospettiva avvilente pensare che ogni servizio a tarda ora, ogni emergenza avrebbero potuto essere preceduti da una telefonata di scuse. Camminando avanti e indietro sotto il meraviglioso soffitto a travi scoperte e aspirando l’odore, tipico delle chiese anglicane, di cera da lucidare, fiori e vecchi, umidi libri di salmi, gli balenò l’idea che aveva ottenuto ciò che voleva quasi nello stesso istante in cui aveva sospettato di non volerlo più. Questa esperienza è troppo frequente per poter cagionare a un uomo intelligente una delusione di lunga durata, ma tuttavia aveva il potere di turbarlo. Non era la perdita della libertà che lo tratteneva; quelli che strillavano di più per questo erano di solito i meno liberi. Molto più difficile da affrontare era la perdita della privacy. Anche la perdita della privacy personale era dura da accettare. Facendo scorrere le dita sul leggio intagliato del quindicesimo secolo provò a immaginare la vita nell’appartamento a Queenhithe con Deborah sempre accanto, non più la visita attesa con ansia ma parte della sua vita, una parente stretta legalmente riconosciuta con tanto di bollo.
Era stato un brutto periodo a Scotland Yard, per dover anche affrontare dei problemi personali. Vi era stata recentemente una riorganizzazione ad alto livello che si era risolta nell’inevitabile rottura delle correnti e della routine e nel previsto monte di lamentele e dicerie. E il lavoro incalzante non aveva lasciato requie. La maggior parte dei funzionari più anziani lavorava già quattordici ore al giorno. Il suo ultimo caso, ormai risolto, era stato particolarmente noioso. Era stato ucciso un bambino e le indagini si erano trasformate in una caccia all’uomo del tipo che più gli spiaceva e a cui meno era adatto per temperamento: una faccenda di tenace e continuo controllo di fatti condotta sotto i riflettori della stampa e intralciata dal terrore e dall’isterismo del vicinato. I genitori del bambino si erano aggrappati a lui come gente che stia per affogare, anelando di ricevere consolazione e speranza, ed egli sentiva ancora su di sé il peso quasi fisico del loro dolore e del loro senso di colpa. Era stato costretto a essere contemporaneamente consolatore e padre confessore, vendicatore e giudice. Non c’era niente di nuovo in questo per lui. Non aveva sentito alcuna partecipazione personale al loro dolore e questo distacco era stato, come sempre, la sua forza, mentre per altri suoi colleghi alle prese con lo stesso delitto avrebbe potuto esserlo la rabbia, l’intensità dell’indignazione. Ma la tensione dell’indagine era ancora in lui e ci voleva ben altro che il vento di un autunno nel Suffolk per spazzargli via dalla mente certe idee. Una donna ragionevole non si sarebbe aspettata una proposta di matrimonio nel corso di questa indagine, e Deborah non c’era cascata. Che poi egli avesse trovato il tempo e l’energia per terminare il suo secondo volume di versi pochi giorni prima dell’arresto era una cosa che entrambi avevano passato sotto silenzio. Lo aveva sgomentato ammettere che persino l’applicazione di un talento da dilettante poteva diventare una scusa per l’egoismo e la pigrizia. Non si era piaciuto molto ultimamente, ed era forse troppo ottimistico sperare che questa vacanza gli avrebbe fatto cambiare parere.
Mezz’ora dopo chiuse silenziosamente dietro di sé la porta della chiesa e affrontò le poche miglia che ancora mancavano a Monksmere. Aveva scritto alla zia che probabilmente sarebbe arrivato alle due e mezzo; se tutto andava bene sarebbe stato puntualissimo. Se, come al solito, la zia usciva di casa alle due e mezzo avrebbe visto la Cooper Bristol mentre superava il promontorio. Pensò affettuosamente alla sua figura in attesa, alta e spigolosa. C’era ben poco di insolito nella sua storia, che lui per la maggior parte aveva indovinato cogliendola a volo da bambino dai brandelli delle incaute conversazioni della madre, o l’aveva semplicemente saputa come uno dei fatti certi della sua infanzia. Il fidanzato era morto al fronte nel 1918, sei mesi prima dell’Armistizio, quando lei era ancora una ragazza molto giovane. La madre era stata una bella donna delicata e viziata, la peggior moglie possibile per un erudito pastore di campagna, come lei stessa sovente ammetteva, evidentemente pensando che tale sincerità giustificasse e scusasse in anticipo le susseguenti manifestazioni di egoismo e prodigalità. Non le piaceva veder soffrire gli altri, dal momento che ciò li rendeva momentaneamente più interessanti di sé, quindi decise di prendere molto a cuore la morte del giovane capitano Maskell. Qualsiasi pena stesse soffrendo la figlia, una ragazza sensibile, taciturna e parecchio difficile, doveva risultare evidente che la madre soffriva ancora di più. Tre settimane dopo l’arrivo del telegramma morì di influenza. Non è chiaro se intendesse spingersi fino a questo punto, comunque sarebbe stata soddisfatta del risultato. Il marito, pazzo di dolore, dimenticò in una notte le irritazioni e le ansietà del suo matrimonio per ricordare solo la gaiezza e la bellezza della moglie. Era impensabile che si risposasse, naturalmente, e infatti non lo fece. Jane Dalgliesh, alla cui perdita nessuno ora aveva tempo di pensare, prese il posto della madre come padrona della canonica e restò col padre, finché non fu collocato a riposo nel 1945 e poi fino alla sua morte dieci anni dopo. Era una donna molto intelligente, e se trovò insoddisfacente la routine annuale di faccende domestiche e attività parrocchiali, prevedibile e inevitabile come l’anno liturgico, non lo disse mai. Il padre era tanto convinto dell’estrema importanza della propria vocazione che non gli venne mai in mente che al servizio di essa le doti di chicchessia potessero risultare sprecate. Jane Dalgliesh, rispettata ma mai amata dai parrocchiani, faceva quel che c’era da fare, e si consolava con lo studio dell’ornitologia. Gli studi fondati su meticolose osservazioni che pubblicò dopo la morte del padre le procurarono una certa notorietà; e col tempo quello che la parrocchia aveva chiamato con indulgenza “il piccolo hobby della signorina Dalgliesh” fece di lei uno degli ornitologi dilettanti più stimati. Cinque anni prima aveva venduto la casa nel Lincolnshire e aveva acquistato Pentlands, una casa di pietra all’estremità del promontorio di Monksmere. Qui Dalgliesh andava a trovarla almeno due volte all’anno.
Non erano solo visite di dovere, benché egli si sarebbe sentito responsabile nei suoi riguardi, se non fosse stata così evidentemente autosufficiente che a volte anche provare affetto per lei sembrava una specie di offesa. Ma l’affetto c’era davvero e tutti e due lo sapevano. Già anticipava con la fantasia il piacere di rivederla e le note delizie di una vacanza a Monksmere.
Ci sarebbe stato un fuoco di legna nel grande camino, e davanti la poltrona dall’alto schienale che faceva parte dello studio di suo padre nella canonica dove egli era nato, ricoperta di cuoio che aveva odore d’infanzia. Ci sarebbe stata la camera arredata sommariamente, con la vista sul mare e il cielo, un letto comodo anche se stretto con lenzuola dal tenue odore di lavanda e fumo di legna, acqua calda in abbondanza e una vasca da bagno abbastanza lunga da permettere a un uomo alto sei piedi e due pollici di stendersi comodamente. Anche la zia era alta sei piedi e aveva un gusto maschile per le comodità indispensabili. Prima ancora, davanti al fuoco, avrebbero preso il tè con pane tostato, burro e pâté di carne fatto in casa. E soprattutto non ci sarebbero stati cadaveri, né se ne sarebbe parlato. Egli sospettava che Jane Dalgliesh giudicasse assai strano per un uomo intelligente l’aver scelto di guadagnarsi da vivere arrestando assassini, e non era donna da fingere per educazione un interesse che non provava. Non esigeva niente da lui, nemmeno l’affetto, e per questo era l’unica donna al mondo con cui egli era completamente in pace. Sapeva esattamente ciò che gli avrebbe offerto la vacanza. Avrebbero camminato insieme, spesso in silenzio, sulla striscia bagnata di sabbia compatta, tra la schiuma delle onde e il rialzo sassoso della spiaggia. Le avrebbe portato gli arnesi per i suoi schizzi, lei sarebbe andata un po’ avanti, le mani affondate nelle tasche della giacca, cercando di scoprire in quale punto della pietraia si fossero posate le sassicole, a malapena distinguibili dai ciottoli, o seguendo con lo sguardo il volo della rondine marina o del piviere. Sarebbe stato un soggiorno tranquillo, riposante, assolutamente non impegnativo; ma, trascorsi i dieci giorni, sarebbe tornato a Londra con un senso di sollievo.
Al momento stava attraversando la foresta di Dunwich; le scure piantagioni di abeti della Commissione Forestale fiancheggiavano la strada. Gli pareva di sentire l’odore del mare; la salsedine trasportata dal vento era più penetrante dell’odore amaro degli alberi. Il cuore gli si sollevò: si sentiva come un bambino che torna a casa. Ora la foresta finiva; una rete metallica separava il triste e cupo verde degli abeti dai colori di acquerello dei campi e delle siepi. Poi finirono anche questi. Stava attraversando adesso le ginestre e l’erica della brughiera verso Dunwich. Quando giunse al villaggio e voltò direttamente su per la salita che costeggiava il muro di recinzione del convento francescano in rovina, sentì strombazzare un clacson e una Jaguar lo incrociò a gran velocità. Riuscì a intravedere una testa nera e una mano alzata in segno di saluto prima che l’automobile sparisse con un altro suono di clacson per addio. Dunque Oliver Latham, il critico teatrale, era in campagna per il fine settimana. Molto probabilmente ciò non avrebbe causato alcun disturbo a Dalgliesh, dato che Latham non veniva nel Suffolk in cerca di compagnia. Come il suo vicino, Justin Bryce, usava il proprio cottage come un’evasione da Londra e forse dalla gente, anche se veniva a Monksmere meno sovente di Bryce. Dalgliesh l’aveva incontrato un paio di volte e aveva scoperto in lui un’inquietudine e una tensione che trovavano una rispondenza nel proprio carattere. Era nota la sua passione per le auto veloci e la guida veloce e Dalgliesh aveva il sospetto che proprio nei tragitti da e per Monksmere egli trovasse uno sfogo liberatorio. Era difficile immaginare per quale altro motivo continuasse a tenere il cottage. Ci veniva di rado, non ci portava mai donne, non si interessava di ammobiliarlo e lo usava soprattutto come base delle sue pazze corse per il distretto, tanto violente e irrazionali da sembrare quasi aberrazioni.
Quando il Rosemary Cottage apparve sulla curva, Dalgliesh accelerò. Non aveva molte speranze di passarvi davanti inosservato, ma almeno poteva farlo a una velocità che rendesse inopportuna una fermata. Mentre sfrecciava fece in tempo a vedere con la coda dell’occhio un viso affacciato a una finestra del piano superiore. D’altronde bisognava aspettarselo. Celia Calthrop si considerava la decana della piccola comunità di Monksmere e si era attribuita determinati doveri e privilegi. Se i vicini erano tanto sconsiderati da non tenerla informata dei movimenti loro e dei loro ospiti, era disposta a darsi da fare per scoprirli da sé. Captava facilmente l’avvicinarsi di un’automobile, e la posizione del suo cottage, situato proprio dove la pista accidentata del promontorio si immetteva nella strada di Dunwich, le forniva ogni opportunità di tenere le cose sotto controllo.
La signorina Calthrop dodici anni prima aveva acquistato il granaio di Brodie, ribattezzandolo Rosemary Cottage. L’aveva avuto per pochi soldi e, con una cortese ma persistente mobilitazione della manodopera locale, l’aveva, sempre con pochi soldi, trasformato dal simpatico, benché malconcio, casolare di pietra che era, alla romantica casa ideale delle sue lettrici. Era spesso descritto sulle riviste femminili come “la deliziosa residenza nel Suffolk di Celia Calthrop, dove, nella pace della campagna, la scrittrice compone i deliziosi romanzi che tanto appassionano le nostre lettrici”. All’interno il Rosemary Cottage era molto confortevole, alla sua maniera pretenziosa e priva di gusto; all’esterno aveva tutto ciò che la proprietaria riteneva adatto a un villino di campagna, il tetto di paglia (deplorabilmente costoso da rendere sicuro e mantenere in ordine), l’orto di piante aromatiche (piuttosto sinistro a vedersi: la signorina Calthrop non aveva la mano felice con le piante aromatiche), il laghetto artificiale (maleodorante d’estate) e la colombaia (dove i colombi rifiutavano ostinatamente di appollaiarsi). C’era pure il bel praticello liscio sul quale d’estate era invitata al tè la comunità degli scrittori, come diceva Celia. Dapprima Jane Dalgliesh era stata esclusa dagli inviti, non perché non pretendesse d’essere una scrittrice, ma perché era una anziana e solitaria zitella e perciò, nella scala di valori della signorina Calthrop, un fallimento sul piano sociale e sessuale, degno solo di una condiscendente gentilezza. Poi la signorina Calthrop scoprì che la sua vicina era considerata una donna celebre da persone molto qualificate a giudicare, e che gli uomini ospitati a Pentlands in barba ...
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