Parli sempre di corsa
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Parli sempre di corsa

  1. 112 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Parli sempre di corsa

Informazioni su questo libro

Parli sempre di corsa non è semplicemente un libro sulla corsa. È un libro molto intimo e autobiografico, in cui Linus racconta cosa gli succede nella mente, nel cuore e nell'anima quando smette i panni del deejay ed esce a fare una sgambata. Ci sono le tabelle, i carboidrati, le scarpe nuove, la Maratona di NewYork. C'è l'ossessione per i chilometri misurati con la precisione di un geometra svizzero, il cardiofrequenzimetro, la playlist sull'iPod e quel senso di eroica fratellanza con una marea di sconosciuti che faticano al suo fianco. Ma tutti questi luoghi comuni del corridore amatoriale sono come un tappeto musicale su cui Linus fa scorrere la sua voce per raccontare un universo di sentimenti, persone e aneddoti che ha raggiunto perché si è messo a corrergli dietro. Un universo personalissimo e molto avvincente, che l'ha cambiato nel profondo. Queste pagine intense raccontano la nascita di una passione che gli ha sconvolto la vita, migliorandola radicalmente, tanto da non poterne più fare a meno.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2013
Print ISBN
9788804612131
eBook ISBN
9788852031908

Linus

PARLI
SEMPRE DI CORSA

Mondadori
  • Dello stesso autore
    • E qualcosa rimane
    • Qualcuno con cui giocare

Parli sempre di corsa

I

La grossa e complicata radiosveglia è quella classica di tutti gli alberghi americani; mentre la fisso confuso, trovo il tempo di pensare che è un oggetto ormai fuori moda nell’epoca dei computer e dei telefonini. Il display però è digitale e luminosissimo, le tante bacchette fluorescenti compongono le quattro cifre che ho chiesto la sera prima: 4.55.
Cinque minuti dopo, mentre indugio sotto le coperte, le sveglie di tutte le altre camere dell’albergo cominciano a suonare all’unisono. Per sicurezza probabilmente la direzione sveglierà anche qualche anziana coppia dell’Iowa o del South Carolina, venuta in città a ricordare il viaggio di nozze di cinquant’anni prima. Sono a New York, Hotel Parker Le Meridien, 57ª Strada, meno di un chilometro dal parco. È lo stesso dove avevo alloggiato sette anni fa, ai tempi della mia prima maratona.
Ho lasciato le tende aperte sperando che a svegliarmi fosse qualcosa di meno elettronico, ma fuori è ancora buio, nonostante gli uffici del palazzo di fronte abbiano come sempre quasi tutti le luci accese. L’orario della sveglia l’ho calcolato a ritroso: la gara parte alle 9.40 (sono nella prima wave), alle 7.30 chiudono (dicono) i cancelli di Fort Wadsworth, i bus dell’organizzazione partono alle 6 dallo Sheraton qui dietro, devo fare un minimo di colazione e soprattutto andare in bagno, quindi le 5. Non si scappa.
Ogni volta, la notte prima di una maratona, mi sento come Marco Tardelli ai Mondiali dell’82: non chiudo occhio per l’agitazione, più legata in realtà alle complicazioni del prima che alla fatica del durante. Così, quando finalmente è ora di alzarmi, sono appena caduto nel sonno più profondo.

II

Tutto mi sarei aspettato dalla vita tranne che fare di “quello che parla alla radio” una professione. Non che conosca qualcuno che a sei anni sperasse di fare il pompiere e poi lo sia diventato davvero o che, crescendo, abbia mantenuto la stessa, inevitabile simpatia infantile che abbiamo avuto tutti per trenini e scavatori. Quand’ero bambino, ma anche fino all’adolescenza, la domanda “Cosa vorresti fare da grande?” non era contemplata. Semplicemente, pensavo che avrei fatto quello che sarei riuscito a fare.
Non sapevo, incredibile, che con il mio esempio avrei contribuito a rovinare la vita di tanti genitori, i cui figli hanno ormai capito da tempo che la parola “lavoro” non per forza si deve associare a termini come “noia” e “fatica”.
Vagli a spiegare (ai figli, intendo) che quello dove giocano quelli come me è un campionato nel quale si parte in tantissimi ma dove si arriva veramente in pochi, un campionato con una Serie A con quattro squadre in croce.
Comunque, sono riuscito a fare il disc jockey pur senza averne mai avuto l’ambizione, anche perché quando avevo l’età per sognare questo era un lavoro che non esisteva.
Certo, casa mia era come quella di Woody Allen in Radio Days, il grosso apparecchio in bachelite sempre acceso, con mio padre che seguiva gli sceneggiati e i notiziari e mia madre i programmi musicali. Io e i miei fratelli al massimo cercavamo di snidare fra i transistor gli omini di cui sentivamo le voci.
Fino a quando non li ho trovati per davvero, ma in maniera del tutto casuale. E quando sono diventato uno di loro, non ho più smesso. Tutto qui. I primi tempi, quando parlare alla radio voleva dire imitare il modo in cui lo facevano quelli più bravi di me, il mio difetto principale era che parlavo sempre di corsa. Nel senso che parlavo troppo velocemente, un po’ forse perché così si usava e un po’ per colpa della mia insicurezza di adolescente o poco più.
Le parole mi uscivano dalla bocca prima ancora che il cervello avesse avuto il tempo di plasmarle e metterle nel giusto ordine, come una bolla di vetro che sfugga improvvisa e incasinata dal cannello dell’artigiano, uno scarabocchio al posto di un gioiello.
Una cosa banale ma che ricordo sempre come un piccolo incubo è che quando dovevo dire che ore fossero non riuscivo a sincronizzarmi con il movimento delle lancette e ogni volta mi incartavo.
Tanti anni dopo, questa cosa del “parli sempre di corsa” sembra la mia nemesi, anche se travestita da gioco di parole.
Dire “non è vero che parlo sempre di corsa” mi fa sentire come quei protagonisti tragici di certi brutti film che non riescono a sfuggire al proprio destino di persona violenta.
“È lui che mi ha provocato, io non volevo!” gridano, coprendosi il volto sotto i flash dei fotografi mentre la polizia li porta via. Io sono così, se mi provocate non mi tiro indietro, se mi fate una domanda sulla corsa ne parlerei per ore.
“Ma non sono mai io a cominciare!”
Di buono c’è però che, adesso, non mi sento più in colpa, anzi. Non c’è gara, ufficiale o di quartiere, con quattro gatti o affollatissima, in cui non mi senta gridare o sussurrare (a seconda del carattere di chi mi apostrofa): “È per colpa tua che sono qui!”.
Detto con un sorriso che, da solo, è il più grande dei grazie.

III

Sono arrivato a New York come sempre il giovedì pomeriggio, un filo più tardi rispetto a tutti quelli che viaggiano con i pacchetti turistici e che approfittano dell’avventura sportiva per legarci qualche giorno in quella che rimane comunque la città più affascinante del mondo.
Starci qualcosa in meno mi aiuta a non rimanere vittima del fuso orario. Riesco quindi a tornare in Italia senza troppi contraccolpi. In più, la conosco abbastanza bene da sapere quanto sia pericoloso cedere al piacere di girarla in lungo e in largo. Pericoloso per le gambe, oltre che per la carta di credito.
Così facendo, poi, riduco al minimo l’assenza dal lavoro: manco giovedì, venerdì, lunedì e il martedì mattina sono già in onda, direttamente dall’aeroporto. Stonato ed eccitato come un bambino dopo una giornata al mare.
Il risultato però è che il programma del weekend è inevitabilmente isterico: nel mio ruolo di improbabile ambasciatore della corsa devo fare la foca ammaestrata e girare da un pranzo all’altro, da un brindisi all’altro, da una foto di gruppo all’altra.
In più, la città è invasa da quasi quattromila italiani che sono lì solo per la maratona e ognuno di quelli che incontro mi farà la stessa domanda, prima o poi:
“In quanto la fai?”.
“Quanto hai fatto?”
Per la seconda la cordialità della risposta è ovviamente legata all’andamento della gara, per la prima ho imparato a glissare e a usare il basso profilo.
Cosa che quest’anno mi riesce abbastanza bene.
Lo confido solo agli amici più intimi, quasi me ne vergognassi.
Non ne ho nessuna voglia.
Non ho voglia di correre, di faticare, di stancarmi, di soffrire.
Insomma, non ho voglia di maratona.
Forse perché, dopo otto edizioni consecutive, so quanto è pesante la domenica che ci aspetta.
O forse perché sono ancora ferito dalla delusione di Berlino.
20 settembre, poco più di un mese prima.
Un’intera estate passata a sudare ben più delle proverbiali sette camicie, correndo negli orari più improbabili per tenere fede alle mie tabelle nonostante il caldo implacabile, e poi il sogno era evaporato miseramente al trentesimo chilometro, complice la solita caviglia dolorante, un paio di scarpe da presuntuoso e una giornata, anche quella, di caldo inusuale, specie in Germania a fine settembre.
Nei miei programmi, Berlino avrebbe dovuto essere la gara da correre sul serio, magari scendendo finalmente sotto le tre ore e trenta, e New York, a quel punto, l’avrei corsa solo per il gusto di esserci.
Invece eccomi qua, con il terrore di fermarmi un’altra volta e la necessità di dover trovare una risposta per tutti quelli che mi chiederanno: “Quanto hai fatto?”.

IV

C’è un momento preciso in cui le cose cambiano. Così, di punto in bianco. Fino al giorno prima eri in un modo, di colpo il tuo punto di vista è un altro. Nei bambini è più facilmente avvertibile, specie da noi che passiamo buona parte del tempo a osservarli: a sette anni mio figlio mangiava solo spinaci, poi un giorno, all’improvviso, non ne ha più voluto sapere. Per un po’ abbiamo continuato a prepararglieli, con lui che ci guardava come degli stupidi carnefici:
«Non mi piacciono, perché continuate a darmeli?»
«Perché fino all’altro giorno erano il tuo piatto preferito.»
È questo il punto.
Oppure, ti sembra che tuo figlio rimarrà l’unico al mondo a non saper andare in bicicletta e il giorno dopo parte e non ha più bisogno di te che ti spacchi la schiena correndogli dietro con la mano sotto il sellino.
Che, detto tra noi, è uno dei momenti più belli per un genitore.
Per un genitore e per la sua schiena.
Lui pedala felice verso il destino (che di solito ha l’aspetto della macchina del tuo vicino di casa, parcheggiata sotto la sua finestra con lui che proprio in quel momento si è sporto dal davanzale per fumarsi una sigaretta) e tu, finalmente, puoi tornare ad allacciarti le scarpe.
Però questi siamo noi che guardiamo gli altri: a meno che non si tratti della nuova pettinatura di vostra moglie (di cui, diciamolo, è impossibile accorgersi, visto che si spettina, piangendo, nell’istante in cui esce dal parrucchiere) è facile rendersi conto dei cambiamenti quando si è spettatori, molto meno nel ruolo dei protagonisti.
Prendete me e la corsa. Correvo da tre o quattro anni, e quasi solo grazie alle capacità persuasive del mio amico Aldo Rock. Che, come forse saprete, è uno strano e misterioso personaggio. Metà Uomo della Strada e metà Superman. O meglio, Ironman. Uno che ha dedicato la prima parte della sua vita al Rock (da qui il nickname) e l’altra metà al “Rollin’”, al rotolare come la pietra della canzone di Bob Dylan per le strade del mondo. Sempre senza allenarsi, sempre arrivando alla partenza un minuto dopo lo sparo. Preparando il triathlon con fugaci incursioni in palestra: venti minuti di corsa sul tappeto, venti di cyclette e venti di piscina. Sufficienti (secondo lui...) per partire alla volta di San Diego, Klagenfurt o dovunque lo portasse il cuore. Se il triatleta è tutto razionalità, Aldo è solo volontà. Quella con la quale, completamente a digiuno di corsa, già alla nostra seconda uscita voleva portarmi alla Marathon des Sables.
Per fortuna ero riuscito a contenerlo entro i più modesti confini del XXV Apri...

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