L'uomo della pioggia
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L'uomo della pioggia

  1. 546 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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L'uomo della pioggia

Informazioni su questo libro

Nel gergo degli studi legali, "l'uomo della pioggia" è l'avvocato che genera i profitti più alti, il socio che porta i clienti più ricchi e le cause più remunerative. E un ¿uomo della pioggia¿ è quello che sogna di diventare, Rudy Bailor, uno studente di legge che si trova contrapposto a una delle più potenti e corrotte compagnie di assicurazioni d'America. Negli ultimi mesi di law school, Rudy viene incaricato di fornire assistenza legale gratuita a un gruppo di anziani. è qui che incontra i suoi primi clienti e si imbatte inaspettatamente in quello che sembra essere uno dei più clamorosi casi di frode assicurativa mai visti - un caso che, se concluso vittoriosamente, farebbe la fortuna di qualsiasi studio legale. Senza un soldo, senza avere un reale lavoro, senza essere ancora neppure abilitato professionalmente, Rudy si ritrova al centro di un implacabile scontro con uno dei più abili avvocati d'America e con gli interessi di una delle sue più potenti compagnie.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2013
Print ISBN
9788804423010
eBook ISBN
9788852031762

1

La mia decisione di fare l’avvocato diventò irrevocabile quando mi resi conto che mio padre odiava gli avvocati. Ero un adolescente goffo, imbarazzato dalla mia goffaggine, frustrato nei confronti della vita, terrorizzato dalla pubertà e in procinto di venire spedito da mio padre in una scuola militare per insubordinazione. Era un ex marine, convinto che i ragazzi andassero tirati su a frustate. Io avevo dimostrato di avere la lingua svelta e una certa avversione per la disciplina, e la sua soluzione fu mandarmi via. Passarono anni prima che lo perdonassi.
Era anche ingegnere e lavorava settanta ore la settimana per una società che, fra le altre cose, fabbricava scale a pioli. Dato che le scale sono per natura pericolose, la società era spesso il bersaglio di cause per danni. E siccome lui si occupava della progettazione, veniva scelto abitualmente per sostenere le ragioni della società nelle testimonianze e nei processi. Non posso dargli torto se odiava gli avvocati; ma io avevo finito per ammirarli perché gli rovinavano l’esistenza. Passava otto ore a battersi con loro, poi si buttava sui martini non appena rincasava. Niente saluti. Niente abbracci. Niente cena. Soltanto un’ora di sfoghi stizziti mentre tracannava quattro martini e finiva per addormentarsi sulla poltrona malandata. Una causa durò tre settimane e quando si concluse con la condanna della società al pagamento di un cospicuo risarcimento, mia madre chiamò un medico, e nascosero mio padre in ospedale per un mese.
Più tardi la società fallì, e naturalmente tutta la colpa era degli avvocati. Non sentii ammettere neppure una volta che forse una gestione sbagliata poteva aver contribuito al fallimento.
I liquori diventarono la vita di mio padre, e lui diventò depresso. Per anni e anni non trovò un lavoro fisso, e questo mi mandava in bestia perché ero costretto a servire ai tavoli e a consegnare pizze a domicilio per pagarmi il college. Credo di aver parlato con lui non più di due volte nei quattro anni del diploma. Il giorno dopo aver saputo che ero stato accettato alla facoltà di legge, tornai a casa tutto orgoglioso e diedi la grande notizia. Più tardi mia madre mi raccontò che mio padre era rimasto a letto per una settimana.
Quindici giorni dopo la mia visita trionfale, mio padre stava cambiando una lampadina nel locale della caldaia quando (giuro che è vero) la scala a pioli cedette, lui cadde e batté la testa. Rimase in coma per un anno in un cronicario prima che qualcuno avesse la misericordiosa idea di staccare la spina.
Qualche giorno dopo il funerale accennai alla possibilità di fare causa, ma mia madre non se la sentì. E poi, ho sempre sospettato che mio padre fosse mezzo sbronzo quando cadde. Inoltre non guadagnava, perciò, secondo le nostre leggi sul risarcimento danni, la sua vita aveva scarso valore dal punto di vista economico.
Mia madre ricevette i cinquantamila dollari dell’assicurazione sulla vita e si risposò. Un matrimonio sbagliato. Il mio patrigno è un tipo molto semplice, un impiegato postale in pensione, di Toledo. Passano gran parte del tempo a ballare la quadriglia e a girare a bordo di un Winnebago. Io mi tengo alla larga. Mia madre non mi offrì un soldo dell’assicurazione: disse che dovevano servirle per affrontare il futuro e siccome avevo dimostrato di essere capace di vivere con niente, era convinta che non ne avessi bisogno. Io avevo un avvenire brillante che prometteva lauti guadagni, lei no. Sono certo che Hank, il nuovo marito, le riempisse la testa di consigli finanziari. Un giorno la mia strada e quella di Hank s’incontreranno ancora.
Finirò la facoltà di legge fra un mese, in maggio, e in luglio darò l’esame per l’ammissione all’ordine. Non sarà una laurea con la lode anche se mi piazzerò nella metà superiore della classifica del mio corso. L’unica cosa intelligente che ho fatto nei tre anni alla facoltà di legge è stata programmare in anticipo gli esami obbligatori più difficili per prendermela comoda nell’ultimo semestre. Le lezioni di questa primavera sono uno scherzo: Diritto dello sport, Diritto dell’arte, Letture scelte dal Codice Napoleonico e la mia materia preferita, Problemi legali degli anziani.
È appunto per quest’ultima scelta che adesso sono qui, su una sedia traballante dietro un fragile tavolino pieghevole in un edificio caldo e umido, pieno di un bizzarro assortimento di appartenenti alla terza età, come amano farsi chiamare. Un cartello dipinto a mano sopra l’unica porta visibile etichetta pomposamente il posto come “Cypress Gardens Senior Citizens Building”, ma non c’è neppure l’ombra di un cipresso o di altre piante. Le pareti sono grigiastre e spoglie, se si eccettua una vecchia foto sbiadita di Ronald Reagan che sta in un angolo fra due meste bandierine, quella nazionale e quella dello stato del Tennessee. La costruzione è piccola e tetra, e si capisce subito che è stata tirata su in quattro e quattr’otto con i pochi dollari di uno stanziamento federale imprevisto. Scarabocchio su un bloc-notes e non oso guardare la folla che si avvicina lentamente tirandosi dietro le sedie pieghevoli.
Saranno una cinquantina, bianchi e neri in numero più o meno eguale, di età media non inferiore ai settantacinque: qualcuno è cieco, dieci o dodici sono su sedie a rotelle, molti hanno apparecchi acustici. Ci hanno detto che vengono tutti i giorni a mezzogiorno per un pasto caldo, qualche canzone, la visita occasionale di un candidato politico senza molte speranze. Dopo essere stati insieme per un paio d’ore rientrano a casa e contano i minuti che mancano al momento in cui potranno tornare. Il nostro professore dice che è l’avvenimento più atteso della loro giornata.
Abbiamo commesso l’errore di arrivare in tempo per il pranzo. Ci hanno fatti sedere tutti e quattro in un angolo con la nostra guida, il professor Smoot, e ci hanno osservati con attenzione mentre spilluzzicavamo il pollo di neoprene e i piselli freddi. La mia gelatina era gialla, e il particolare è stato notato da un vecchio caprone con il cognome Bosco scribacchiato sul cartellino “Salve, io mi chiamo” appuntato sul taschino della camicia sporca. Bosco ha borbottato qualcosa a proposito della gelatina gialla e io gliel’ho offerta subito assieme al pollo, ma la signora Birdie Birdsong l’ha bloccato e l’ha spinto bruscamente al suo posto. La signora Birdsong ha un’ottantina d’anni ma è molto arzilla per la sua età e si comporta come la madre, la dittatrice e il buttafuori dell’organizzazione. Si lavora la folla come il capo veterano di un comitato elettorale, distribuisce abbracci e pacche sulle spalle, chiacchiera con altre vecchiette dai capelli sfumati d’azzurro, ride con voce stridula e intanto non perde d’occhio Bosco, che evidentemente è la pecora nera del branco. Gli ha fatto la predica perché ha ammirato la mia gelatina, ma dopo pochi secondi gli ha messo davanti una ciotola piena di stucco gialliccio. Bosco l’ha mangiato con le dita tozze, e gli brillavano gli occhi.
È passata un’ora. Il pranzo procedeva come se quelle creature affamate partecipassero a un banchetto di sette portate senza la speranza di un altro pasto. Le forchette e i cucchiai tremolanti andavano avanti e indietro, su e giù, dentro e fuori come se fossero carichi di metalli preziosi. Il tempo non aveva la minima importanza. Altercavano con voce stridula quando qualche parola li eccitava. Lasciavano cadere il cibo sul pavimento e a un certo punto non ce l’ho più fatta a guardare. Ho addirittura mangiato la mia gelatina. Bosco sorvegliava con avidità ogni mio movimento. La signora Birdie svolazzava di qua e di là e cinguettava su questo e su quell’argomento.
Il professor Smoot, il tipo dell’accademico tradizionale con tanto di cravatta a farfalla, capelli a cespuglio e bretelle rosse, stava lì con l’aria sazia e soddisfatta di chi ha appena terminato un pasto squisito, e contemplava amorevolmente la scena. Poco più che cinquantenne, è un uomo mite, ma con modi di fare molto simili a quelli di Bosco e dei suoi amici. Da vent’anni insegna materie che nessun altro è disposto a insegnare, seguite da pochi studenti. Legislazione dell’infanzia, Legislazione per gli handicappati, Seminario sulla violenza domestica, Problemi dei malati di mente e, naturalmente, Diritto degli “arterio”, come viene chiamato quest’ultimo quando lui non è presente. Una volta aveva messo in programma un corso che si doveva chiamare Diritti del feto, ma aveva scatenato una tale bufera di polemiche che Smoot si era affrettato a prendersi un anno sabbatico.
Il primo giorno di lezione ci aveva spiegato che lo scopo del suo corso era farci conoscere persone vere con veri problemi legali. È convinto che tutti gli studenti che si iscrivono a legge abbiano all’inizio una certa dose di idealismo e desiderino servire il popolo; ma dopo tre anni di competizione brutale l’unica cosa che ci sta a cuore è l’assunzione presso uno studio legale dove possiamo diventare soci in sette anni e guadagnare un sacco di soldi. In questo ha ragione.
Il suo esame non è obbligatorio e all’inizio eravamo undici iscritti. Dopo un mese di lezioni noiose e di continue esortazioni a dimenticare il denaro e a lavorare gratis, ci eravamo ridotti a quattro. È un corso di nessuna importanza, con appena due ore di lezione alla settimana, e richiede pochissimo lavoro… per questo mi ha attirato. Ma se mancasse più di un mese agli esami, dubito sinceramente che resisterei. A questo punto detesto la facoltà di legge. E ho gravi preoccupazioni sull’esercizio della professione.
È il mio primo incontro con clienti veri, e sono terrorizzato. Quelli che mi stanno davanti sono vecchi e infermi, però mi guardano come se possedessi una grande saggezza. Dopotutto sono quasi avvocato, indosso un abito scuro, ho di fronte a me il tipico bloc-notes giallo sul quale traccio quadrati e cerchi, e ho la faccia atteggiata in un’espressione pensierosa e intelligente, quindi devo essere in grado di aiutarli. Seduto accanto a me al tavolo pieghevole c’è Booker Kane, un negro che a scuola è il mio miglior amico. È spaventato quanto me. Davanti a noi ci sono i cartoncini piegati con i nostri nomi scritti in pennarello nero: Booker Kane e Rudy Baylor. Rudy Baylor sono io. Vicino a Booker c’è il podio dietro il quale la signora Birdie sta strillando, e dall’altra parte c’è un altro tavolo con altri cartoncini che annunciano la presenza di F. Franklin Donaldson IV, un imbecille pieno di sé che da tre anni continua ad aggiungere iniziali e numeri romani prima e dopo il nome. Al suo fianco c’è un’autentica carogna, N. Elizabeth Erickson, una ragazza che ostenta tailleur gessati, cravatte di seta e un’aria aggressiva. Molti di noi sospettano che porti anche un sospensorio.
Smoot è dietro di noi, in piedi contro il muro. La signora Birdie sta facendo gli annunci, bollettini medici e necrologi. Strilla in un microfono collegato a un sistema d’amplificazione che funziona straordinariamente bene. Ci sono quattro grossi altoparlanti appesi negli angoli e la sua voce penetrante rimbomba ed echeggia da tutte le direzioni. Molti si tolgono gli apparecchi acustici. Per il momento nessuno si è addormentato. Oggi ci sono tre necrologi e quando la signora Birdie finisce vedo qualcuno dei presenti piangere. Dio, fa’ che non sia così anche per me. Dammi altri cinquant’anni di lavoro e di divertimenti, e poi una morte rapida nel sonno.
Sulla nostra sinistra, proprio contro il muro, la pianista si anima e sbatte i fogli da musica sul leggio di legno. La signora Birdie si considera una specie di commentatrice politica e mentre comincia a inveire contro una proposta di aumentare le tasse sui consumi, la pianista aggredisce i tasti: America the Beautiful, mi sembra. Con entusiasmo si lancia in un’esecuzione fragorosa del ritornello e i vecchietti prendono i loro libretti di inni e aspettano la prima strofa. La signora Birdie non si fa sfuggire una battuta. Adesso dirige il coro. Alza le mani, le batte per attirare l’attenzione, poi comincia ad agitarle in tutte le direzioni quando inizia il primo verso. Tutti coloro che sono in grado di farlo si alzano lentamente.
Il vociare diminuisce in modo sensazionale con la seconda strofa. Le parole sono meno familiari, e molti di quei poveretti non riescono a vedere oltre la punta del naso, quindi i libretti sono inutili. Bosco chiude di colpo la bocca ma continua a mugolare con gli occhi levati al soffitto.
Il pianoforte ammutolisce di colpo mentre i fogli cadono dal leggio e si sparpagliano sul pavimento. Fine del canto. Tutti guardano la pianista che, benedetta, brancola con le mani per aria e intorno ai piedi dov’è finita la musica.
«Grazie!» grida nel microfono la signora Birdie mentre tutti ripiombano sulle sedie. «Grazie. La musica è una cosa meravigliosa. Ringraziamo Dio che ci ha dato la bellezza della musica.»
«Amen!» ruggisce Bosco.
«Amen» ripete un altro relitto antidiluviano dall’ultima fila.
«Grazie» dice la signora Birdie. Si volta e sorride a Booker e a me. Noi ci puntelliamo sui gomiti e guardiamo di nuovo la folla. «Ora» annuncia lei con fare teatrale «veniamo al programma di oggi. Siamo lieti di avere di nuovo fra noi il professor Smoot e alcuni dei suoi studenti così bravi e belli.» Agita le mani e sorride con i denti grigi e gialli a Smoot che l’ha raggiunta in silenzio. «Non sono belli?» chiede lei, e ci indica. «Come tutti sapete» continua parlando nel microfono, «il professor Smoot insegna legge all’Università Statale di Memphis, dove ha studiato anche il mio figlio più giovane, ma senza laurearsi, e ogni anno il professor Smoot viene a trovarci con alcuni suoi studenti che ascolteranno...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. L’uomo della pioggia
  4. 1
  5. 2
  6. 3
  7. 4
  8. 5
  9. 6
  10. 7
  11. 8
  12. 9
  13. 10
  14. 11
  15. 12
  16. 13
  17. 14
  18. 15
  19. 16
  20. 17
  21. 18
  22. 19
  23. 20
  24. 21
  25. 22
  26. 23
  27. 24
  28. 25
  29. 26
  30. 27
  31. 28
  32. 29
  33. 30
  34. 31
  35. 32
  36. 33
  37. 34
  38. 35
  39. 36
  40. 37
  41. 38
  42. 39
  43. 40
  44. 41
  45. 42
  46. 43
  47. 44
  48. 45
  49. 46
  50. 47
  51. 48
  52. 49
  53. 50
  54. 51
  55. 52
  56. 53
  57. Ringraziamenti
  58. Copyright