Quando i bambini si radunarono, Ereo trovò seduto sul masso Linete, un po’ più piccolo di lui.
«Levati dal mio posto!» disse Ereo.
«Perché?» domandò l’altro.
«Perché lo dico io!» rispose Ereo, dandogli una spinta e mandandolo per terra. Linete s’alzò, rosso in faccia, e andò a sedersi lontano.
Ereo sedette sul masso. Tutti avevano visto e sentito, anche Leofanto, giunto proprio allora.
«Raccontaci la storia di Apollo!» gridarono i bambini.
In silenzio Leofanto andò a sedersi accanto a Linete, e cominciò a bisbigliare nel suo orecchio.
Tutti lo guardarono, stupiti.
«Che fai?» chiese Deta ad alta voce. «Perché racconti solo a lui?»
«Perché lo dico io» rispose Leofanto.
Ci fu silenzio. Ereo scese dal masso. Linete si alzò e andò a sedere al suo posto.
In silenzio si alzò anche Leofanto, sedette vicino al tronco, e cominciò a raccontare.
Non crediate che la vita sull’Olimpo, per Apollo, sia stata fin dall’inizio, tutta fatta di rose. Il giovane dio non sapeva ancora esercitare il suo potere, mentre Era, sua nemica da sempre, conosceva i mezzi per convincere Zeus e realizzare i suoi piani.
«Non solo il figlio di Leto ha ucciso crudelmente Pitone, il mio drago sacro, là a Delo» si lamentava la dea col marito. «Ora si aggira qui, nella sede degli dei, con arroganza da padrone e canta a squarciagola selvagge canzoni, agitando quel suo arco accecante… Crede forse che l’Olimpo sia un posto di caccia? E non allenerà la mira, prima o poi, scagliando una freccia su qualche Ninfa innocente, o ancora più su?»
La sposa di Zeus tanto disse e ridisse, che lui, più per farla tacere che per convinzione, chiamò Apollo e così parlò: «Figlio mio, occorre che tu faccia esperienza degli uomini e impari come vivono, come pensano, come si comportano… Non basta essere un infallibile arciere, o avere una voce armoniosa e potente, per essere un buon dio. Ho deciso che tu viva per qualche anno presso il re Admeto, sui monti della Tessaglia, e faccia il pastore dei suoi armenti.»
Senza far notare al padre quanto fosse strano che, per imparare i costumi degli uomini, gli toccasse andare fra le mucche, Apollo obbedì. Non gli spiaceva troppo, infatti, lasciare l’Olimpo e vedere terre nuove e aperte, dove avrebbe potuto muoversi in libertà e cacciare, come nella sua libera infanzia sull’isola di Delo.
Si presentò dunque, poco dopo, alla reggia di Fere. Il re Admeto gli assegnò una mandria di trenta vacche bianche e trenta vacche nere da sorvegliare e difendere dai ladri e dalle belve.
Benché l’incarico non gli permettesse di allontanarsi troppo, Apollo apprezzava l’aria aperta, gli ampi spazi delle valli e dei monti, e si esercitava con l’arco a colpire ogni bersaglio, tranne le vacche che gli erano affidate.
Bisogna sapere che, in una grotta del monte Cilene in Arcadia, era nato da poco Ermes, un altro figlio di Zeus. Sua madre Maia, una delle Pleiadi, aveva scoperto subito quanto fosse vivace il piccolo, che appena nato si liberò delle fasce e cominciò a camminare.
Crescendo ancora più in fretta di quanto accadeva agli dei, Ermes non stava fermo un attimo, si gettava in ogni impresa, volava veloce su terre e mari, curioso di tutto, e quando vedeva qualcosa d’interessante scendeva a guardare, a toccare, a imparare.
Un giorno tornò con un guscio di tartaruga, trovato su una spiaggia di Creta, e chiese alla madre di aiutarlo a costruire una lira come quelle che aveva sentito suonare da certi cantori nei villaggi d’Arcadia.
Maia, sperando che la musica avrebbe calmato un po’ l’inquieto ragazzino, fissò al guscio delle corde di budello di pecora, le tese con cura e insegnò al figlio come muovere le dita per ottenere i diversi suoni.
In tre giorni il giovane dio imparò a suonare la lira, e non la suonava solo nella grotta della madre, ma la portava sempre con sé nelle sue volanti scorribande.
Un giorno, passando sulla Tessaglia, Ermes vide le sessanta vacche nere e bianche sorvegliate da Apollo, e fu preso da un’incontenibile voglia di averle per sé. Siccome gli dei sapevano riconoscersi a vista, capì però che quel sorvegliante dal corpo bellissimo e robusto, con quel terribile arco d’argento nella mano, non era un semplice pastore. Occorreva fare qualcosa per allontanarlo, e impadronirsi degli stupendi animali.
Ermes spiò a lungo Apollo che, seduto a gambe incrociate su un masso, guardava le bestie al pascolo e cantava a voce spiegata, socchiudendo ogni tanto gli occhi, come per ascoltare meglio il suono della sua voce.
Ermes ebbe un’idea.
Poco dopo, dal bosco che fiancheggiava il grande pascolo, Apollo sentì venire un suono meraviglioso. Non aveva mai visto né ascoltato una lira, e quelle note lunghe, morbide, mobili, gli diedero un’emozione così forte da farlo piangere.
«Certo là c’è un dio, o una dea…» pensava. «Da nessun essere umano può venire un suono come questo.»
Scese dal masso, attraversò un tratto di pascolo ed entrò nel bosco. Il suono dolcissimo veniva da più avanti, dal folto ombroso degli alberi. Apollo accelerò il passo, con gli occhi sempre bagnati dalla commozione. Qualunque fosse la cosa, la persona, o la divinità , che produceva quel suono, voleva vederla, e ascoltarla da vicino. La musica lo chiamava, e lui camminava, quasi correva.
Ermes, saltando di ramo in ramo, si fermava a suonare un poco, per poi volare su un ramo più lontano.
Apollo non pensava più alle vacche bianche e nere di Admeto rimaste sole, abbandonate agli attacchi dei leoni o dei ladri terrestri.
Ermes, ladro celeste, invece ci pensava.
Quando ebbe trascinato Apollo abbastanza lontano, suonò un’ultima melodia struggente, appese la lira a un ramo, nascosto tra le foglie, e volando alto e veloce come il falco tornò indietro. Poi raggiunse il pascolo, spostandosi qua e là come un cane pastore alato, radunò le bestie e le spinse giù per la montagna.
Nel bosco, intanto, sfiorata dalle foglie e dal vento, la lira continuava a suonare, e Apollo a cercare. Il suono sembrava venire da ogni parte, prima vicino, poi lontano. Dopo due ore il dio, sconsolato e deluso, s’avviò per tornare al pascolo.
Quando vide che l’intero armento era scomparso, capì di essere stato ingannato. Senza nemmeno cominciare a cercare, infuriato, chiuse gli occhi e chiamò con il pensiero Artemide, la sorella cacciatrice.
I due fratelli, prima di lasciarsi, a Delo avevano fatto un patto: se uno dei due avesse avuto bisogno dell’altro, l’avrebbe chiamato con il pensiero.
«Che succede? Perché mi hai chiamata?» disse la voce roca della dea, alle sue spalle.
Apollo si voltò. Artemide, grande e chiara, con i lunghi capelli ricci attorno alla testa e l’arco sulla schiena, gli sorrideva.
Il dio raccontò in fretta quello che era accaduto. Quando ebbe ascoltato tutto, la dea fiutò l’aria e disse: «Non sono stati ladri umani a rubarti la mandria, Apollo. Se così fosse ne sentirei l’odore in qualche direzione, per quanto veloce possa essere stata la loro fuga. Poiché non lo sento, vuol dire che è stato un dio, e chissà dove sono, adesso, le vacche d’Admeto…»
«Lo chiederò a chi me lo può rivelare» dichiarò Apollo, sempre molto arrabbiato.
Volò all’Olimpo, si presentò a Zeus e raccontò quello che era successo. Il padre degli dei, strizzando gli occhi, sorrise e disse: «Proprio come i figli degli uomini, anche voi passate il tempo a farvi scherzi, figlioli miei…»
«Vuoi dire, padre, che il ladro che sto cercando è un tuo figliolo, e dunque mio fratello?» chiese Apollo.
«Va al monte Cilene, nell’Arcadia» suggerì Zeus, con un gesto della mano. «C’è una grande grotta, quasi in cima al monte… Lì troverai chi cerchi. Non chiedermi di intervenire più di quanto sto facendo: avete il senno e il potere, risolvete dunque la questione fra voi.»
Così disse Zeus, e Apollo se ne andò senza dire altro. Era impaziente non solo di scoprire chi avesse rubato le vacche, ma anche di conoscere quel fratello briccone.
Aveva anche una domanda da fargli.
Volò in Arcadia, trovò il monte, scovò la grotta di cui Zeus aveva parlato. Da nessuna parte, sui prati attorno, si vedevano vacche nere o bianche. Entrò. Maia tesseva in silenzio seduta a un grande telaio, mentre Ermes, sdraiato in una specie di culla-amaca, dormiva saporitamente.
Riconoscendo la presenza di un dio, la bella Pleiade si alzò e rimase ferma in piedi, abbassando il volto.
Convinto che non fosse lei la colpevole, Apollo
s’avvicinò alla culla-amaca e, più incuriosito che arrabbiato, sedette su un guscio di tartaruga che stava per terra, e restò per un poco a guardare il giovane dio che dormiva con espressione beata. Poi abbassò la testa, gli accostò la bocca all’orecchio, e cominciò a muggire, prima lievemente, quindi con maggior sonorità . Nelle lunghe ore di sorveglianza, al pascolo, si era allenato a imitare il verso delle mucche, da quello sottile dei vitelli a quello fondo delle bestie anziane o dei tori.
Il dio addormentato prese ad agitarsi, come per un brutto sogno, poi si svegliò. Vide Apollo che lo guardava da vicino, e rideva. Anche Maia, ferma nell’ombra vicino al telaio, stava sorridendo.
«Il suono delle mie vacche è qui, fratello» disse Apollo a bassa voce. «Ma le vacche, dove sono?»
Ermes, che l’aveva riconosciuto, rimase un attimo in imbarazzo, poi si riprese, e rispose: «Riavrai le tue bestie, fratello mio, visto che mi hai trovato: ma prima devi rispondere a una domanda.»
«Soltanto se tu, poi, risponderai a una domanda mia» disse Apollo.
«D’accordo» accettò Ermes. «La mia domanda è questa: perché un dio bello, luminoso e potente come te, un dio che possiede l’arco più prezioso mai visto e la voce più armoniosa mai sentita in cielo e in terra, se ne stava su quel monte selvaggio a fare il mandriano?»
Apollo, in poche parole, gli spiegò la faccenda di Era, Pitone e la decisione di...