L’11 dicembre del 2011 a Roma il cielo era scuro e compatto: la pioggia, attesa sin dalle prime ore della mattina, aveva iniziato a cadere intorno a mezzogiorno, proprio mentre i musicisti facevano le prove. Dietro al grande palco c’erano stati attimi di scoramento. Era una domenica difficile quella e le donne che avevano organizzato la manifestazione lo sapevano. Tornavano a manifestare dieci mesi dopo aver riempito le piazze d’Italia al grido di «Vogliamo un paese che rispetti le donne» e «Se non ora quando». Di fronte a loro ora c’era uno scenario completamente diverso: un nuovo governo, un paese piegato dalla crisi economica e scoraggiato. Quel giorno in piazza non ci sarebbe stata la stessa folla della prima volta, lo sapevano bene: ma la pioggia certo non aiutava.
Pochi minuti prima dell’inizio, le gocce cessarono: la musica partì e subito dopo la sfilata di ospiti sul palco. Studentesse, precarie, economiste, musiciste: tutte a dire che l’Italia non poteva ripartire senza le sue donne, che era il momento degli impegni concreti. La piazza lentamente si riempì, gli applausi aumentavano di minuto in minuto. Quando giunse il turno di Khalida El Khatir, un raggio di sole riuscì, chissà come, a uscire fuori. Ai piedi delle scalette che portavano al palco, Khalida fece un bel respiro: aveva una grossa responsabilità quel giorno, parlava a nome di migliaia di giovani nati in Italia o arrivati qui da piccoli: italiani come lei, eppure invisibili per lo stato e le istituzioni. Adolescenti, studenti universitari, lavoratori precari: tutti in attesa, come lo era stata a lungo lei, di essere riconosciuti come cittadini.
Con voce decisa la giovane iniziò a leggere il suo discorso: «Grazie a tutte voi per avermi invitata qui oggi. E grazie al nostro presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che con coraggio e determinazione continua a difendere il diritto alla cittadinanza italiana di chi nasce in Italia da figli di immigrati. Sono qui per parlare in nome dei cosiddetti «figli della Seconda generazione», i nuovi italiani: sono qui per dire ad alta voce e con orgoglio che, nonostante la Lega Nord, le sagre padane e tutti gli imprenditori della paura che in questi ultimi anni hanno alimentato fobie, noi dell’Italia siamo e rimaniamo follemente innamorati. Non potrebbe essere diversamente perché questo è il paese dove siamo nati e cresciuti, di cui abbiamo amato la storia e la cultura, in cui i nostri padri hanno potuto vedere realizzati alcuni dei loro sogni. Questa terra è anche la nostra: e noi non ci stiamo a fare la parte dei figli di nessuno. Siamo figli dell’Italia e questo l’Italia ce lo deve riconoscere».
Una pausa, e dalla piazza partì il primo applauso. Khalida non si scompose: «Cittadinanza significa mobilitarsi in prima persona per il cambiamento della propria condizione e del proprio contesto, attivarsi per decidere sul proprio presente e sul futuro comune che ci attende. Significa partecipazione, responsabilità, condivisione e soprattutto uguaglianza. E allora non si capisce perché oggi si impedisce a chi nasce in questo paese [e ci vive] per diciotto lunghi anni di essere uguale a tutti gli altri. La legge attuale ci dice che si è italiani perché di sangue italiano. Ora, nel 2011, vorrei che qualcuno ci spiegasse che senso ha parlare ancora di sangue italiano o sangue arabo. Sangue cinese o sangue rumeno. A mio figlio Adam, nato a Roma da due nuovi italiani di origine marocchina, quale sangue scorre nelle vene? Io credo che l’unico sangue sia quello umano. Questo mi hanno insegnato a scuola. E quelli che sostengono il contrario sono invitati, se ne hanno il coraggio, di andarlo a spiegare a Adam e ai suoi compagni d’asilo. Che lo spieghino alle migliaia di bambini che ormai popolano le nostre scuole e lo spieghino anche ai loro amichetti figli di italiani. Questa è una vergogna che non possiamo più tollerare».
Il cielo si aprì un po’ di più, Khalida fece una pausa e prese fiato per finire. «Carissime amiche. Per diciotto anni si rimane in Italia, il paese dove si è nati, con un permesso di soggiorno: nel paese dove si è nati. Si fanno lunghe file in questura, all’Ufficio stranieri, per chiedere il rinnovo di questo permesso. A quattordici anni si lasciano le proprie impronte digitali. E a diciotto finalmente si può chiedere di diventare cittadini italiani. Nel frattempo per chi nasce in Italia non vi è alcuna certezza sul futuro e si vive nella discriminazione. Non ci si può immaginare né avvocati, né giornalisti. Magistrati, poliziotti, impiegati pubblici, diplomatici, insegnanti e persino autisti dell’autobus. Tutte professioni riservate a chi ha la cittadinanza italiana. E quante volte i figli di immigrati nati in Italia non partono per la gita scolastica a Parigi o Londra perché il permesso di soggiorno è scaduto o in fase di rinnovo. E allora mi rivolgo a tutte le mamme italiane che ogni mattina accompagnano i loro figli a scuola insieme ai tanti altri bambini figli di genitori non italiani. La battaglia per riconoscere questo diritto è anche la vostra battaglia: quei bambini amici dei vostri figli sono innanzitutto figli di questo paese. Spero davvero con tutto il mio cuore che finalmente questa ingiustizia venga eliminata. Che la nuova domanda sia “Come ti chiami?” e non più “Da dove vieni?”. Che la nuova Italia vada finalmente fiera di un diverso modello di convivenza. Noi nuovi italiani e nuove italiane non ci rassegneremo. E insieme a tutte voi questo benedetto paese lo cambieremo!»
La piazza accolse l’intervento con un grosso applauso. Quando Khalida scese dal palco, ad aspettarla c’erano le amiche di «Filomena», l’associazione di don...