La mia vita con papà
eBook - ePub

La mia vita con papà

  1. 264 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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La mia vita con papà

Informazioni su questo libro

La mia vita con papà di Maria Carla Fruttero ha il sottofondo del battito di una macchina per scrivere, un'Olivetti, verde. Ha l'odore della carta (dei libri, dei taccuini, dei fogli sparsi ovunque) e del fumo di Gitanes e Nazionali. Ha il sapore del tè freddo fatto in casa, scelto fra specialissime miscele che vengono dall'India, dall'Inghilterra, dalla Cina. Ha la tenerezza di certe letterine scritte da padre a figlia, che raccontano storie fantastiche (un grillo che si infilò in camera perché non aveva il paltò, Lucentini che brucava l'erba per ingannare una pecora...) e si chiudono con "un piccolissimo pizzicotto che non fa male". Una vita incredibile, da sogno, come una fiaba italiana dell'amico Italo Calvino.
Il 15 gennaio 2012 se ne andava Carlo Fruttero. Nei mesi che sono seguiti, la figlia Maria Carla ha iniziato a raccogliere le memorie di una vita accanto lui e a metterle in questo libro. Lei che, "nata geneticamente compromessa", educata al severo rispetto delle parole, ha con la scrittura un rapporto naturale. Il risultato è una biografia intima e ravvicinata, in cui si entra nel magico regno di uno scrittore, nel suo laboratorio professionale ed emotivo. E fra un aneddoto con nomi illustri e il ricordo di una battuta ironica o di un lampo di intelligenza, regala a tutti i lettori la sensazione di vivere privatamente un pezzo della nostra storia culturale.

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Informazioni

Maria Carla Fruttero

LA MIA VITA CON PAPÀ

Mondadori

La mia vita con papà

A Paoli, Matti, Tommi,
inevitabilmente...

Ciao papà,
come vedi ci sono cascata anch’io! Figlia d’arte che segue le orme del padre. Banale, scontato, prevedibile. Eppure non è esattamente così. Questo libro c’è perché tu l’hai voluto, il titolo è tuo e tue molte parole. Da dilettante ho cercato di fare del mio meglio, tenendo sempre a mente i tuoi insegnamenti: “Quando hai dei dubbi non aggiungere mai, taglia”.
Mi ha convinta a scriverlo la prima lettera che ho trovato tra le carte nel tuo studio: quelle favolette che da lontano inventavi per me mi hanno trascinata verso un passato che pensavo ormai remoto. E invece, riga dopo riga, storiella dopo storiella, mi sono accorta che raccontare di te, di noi e del nostro privato era forse l’unico modo per non dimenticare, per lasciarti andare.
Chiunque ti abbia voluto bene troverà in queste pagine passi privati della tua vita. Alcuni amici li hanno condivisi insieme a te, altri di te scopriranno un lato mai svelato e i tuoi dilettissimi nipoti potranno un giorno raccontare ai loro figli del nonno straordinario che hanno avuto. Ho cercato di seguire il più possibile i tuoi preziosi suggerimenti, tranne uno: i ringraziamenti che tanto odiavi qui ci saranno. Troppe persone mi hanno accompagnata, sostenuta, incoraggiata in questo viaggio e le voglio ricordare.
Per il resto mi piace immaginare che il tuo temutissimo commento (da lassù) possa essere: “Be’, in fondo in fondo, nonostante tutto, te la sei cavata...”.
Con l’infinito bene di sempre
Maria Carla, Carlotta, Carlottina, Fragolina, Bambinetta, Trappoletta
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Sono nata geneticamente compromessa. La mia vita intera è stata una continua contaminazione di geni materni e paterni ma solo oggi, seduta in questo angolo fiorentino davanti a piazza Santo Spirito, tra libri e antichi calchi di falegnameria, ne ho la definitiva certezza.
Quest’anno si chiude un capitolo della mia storia durato sette anni. Tutto è iniziato nell’estate del 2005 quando la mamma si è fratturata il femore per la seconda volta, scivolando nel bagno della nostra casa al mare.
Da quel giorno la mia vita è cambiata: certezze, priorità, obiettivi completamente stravolti. Ma questo fa parte del gioco, un’occasione per mettersi alla prova, superare i limiti, affrontare le paure, darsi interamente agli altri, senza pretendere niente in cambio, utilizzando gli ostacoli come strumenti di crescita.
Sto per compiere cinquant’anni, mia madre se n’è andata cinque anni fa, mio padre da qualche mese. Tanto per sdrammatizzare: sono diventata orfana a tutti gli effetti.
Ed è forse proprio per questo che oggi, in questo caffè, mi viene spontaneo ripensare a loro, a quello che mi hanno insegnato, trasmesso, regalato nel mezzo secolo appena trascorso. Un modo per ricordarli ma soprattutto ringraziarli, perché attraverso regole, sgridate, divieti, tenacia, ma anche letture, risate, ironia, sono finalmente diventata grande.

Prima parte

GENETICAMENTE COMPROMESSA

Sono nata a Torino, in una luminosa giornata di metà luglio. Mi hanno raccontato che fin da subito ho dato forti segnali di testardaggine, non volevo uscire dal mio rifugio per niente al mondo e ho fatto dannare mia madre, l’ostetrica e i medici fino alle nove di sera. Mio padre era fuori per lavoro e quando si presentò in ospedale la nonna Silvia, suocera da lui amatissima, gli corse incontro esclamando: “Carlo, è nata finalmente!”.
“Ah, sì?!? E come si chiama?” chiese lui.
Per anni in famiglia abbiamo riso di questo aneddoto che in realtà riassume, ora lo so, un modo di pensare e vedere la vita che mi ha in qualche modo contaminata fin dall’inizio della mia avventura nel mondo.
Il mio nome comunque fu deciso molto dopo, con tutta calma e attenta riflessione e alla fine i miei genitori scelsero “Maria Carla”, una specie di “crasi” tra il nome di mia madre, Maria Pia, e quello di mio padre, Carlo: volevano unirsi, incastrarsi, avvinghiarsi indissolubilmente a me e alla mia vita tutta.
La mamma decise di celebrare questo straordinario evento commissionando al gioielliere di fiducia un braccialetto d’oro con tanti cerchi quante le lettere del mio nome, ma sbagliò a contare e invece di dieci ne fece fare nove. Anche questo intoppo, a prima vista solo divertente, è invece il classico e inequivocabile segno della spensierata vaghezza di mia madre, un marchio inconfondibile che ha trasmesso anche a me, di cui vado fiera.
Era il 1962 e da poco mio padre aveva lasciato la casa editrice Einaudi, prestigioso marchio, dove lavorava da dieci anni e dove guadagnava ottantamila lire al mese, per intraprendere una nuova avventura a Milano, alla Mondadori.
La mamma era terrorizzata, non si capacitava di come avesse potuto lasciare “il” posto sicuro e ben remunerato proprio mentre io stavo per nascere, proprio quando la loro vita sarebbe radicalmente cambiata, proprio in un momento in cui servivano soldi sicuri e regolari. Insomma il solito marito/uomo irresponsabile ed egoista.
Papà all’epoca era un traduttore piuttosto noto, curatore di collane, tra cui “Le meraviglie del possibile”, mitica raccolta di fantascienza che ancora oggi gode di fama immortale. Per Mondadori si sarebbe occupato, insieme al suo amico Franco Lucentini, conosciuto anni prima a Parigi, di “Urania”, collana antagonista e di nascita recentissima. Un salto nel buio.
Non so cosa successe veramente tra i miei, non so quanto abbiano litigato, discusso, fatto pace, non so se intervenne la nonna o se alla fine fu la mamma a capire che papà doveva seguire il suo istinto per poter diventare quello che poi è diventato: certo l’inizio dev’essere stato difficile e pesante soprattutto per la mamma che, fragile e insicura, si trovava ad affrontare una bambina neonata e un marito pendolare tutto d’un colpo.
In quel periodo abitavamo tra la stazione di porta Susa e piazza Statuto, in via Juvarra, in un piccolo appartamento all’ultimo piano di proprietà della nonna Silvia, che a sua volta abitava al secondo, in uno molto più grande, insieme al figlio minore Marco, a zia Vittorina, zitella settantenne, e a Getta – ex balia della mamma, promossa in seguito a cuoca e tuttofare di casa –, figura straordinaria di cui ancora oggi rimpiango gli zucchini ripieni e le frittelle di mele.
La mamma passava praticamente tutte le giornate dalla nonna e io venivo cullata, coccolata, viziata in ogni modo da Getta, che invece di mettermi in riga, darmi orari o regole, soddisfaceva ogni mio desiderio e al primo strillo mi prendeva in braccio e mi chiudeva la bocca con un ricco biberon di latte. Così dopo tre, quattro mesi di questa pacchia mi ero trasformata in una neonata assolutamente ingestibile: non dormivo mai, i miei strilli erano diventati leggendari tra gli inquilini del palazzo, mio zio Marco stava rischiando la nevrosi per mancanza di sonno e mia madre era distrutta.
La nonna decise allora di intervenire drasticamente e dopo lunghi colloqui, telefonate, informazioni ricevute da amiche, ingaggiò una Fräulein tedesca, Anita, che avrebbe avuto l’arduo incarico di raddrizzarmi una volta per tutte.
Di lei non ricordo nulla. Mia madre mi ha poi raccontato che Anita non solo era riuscita perfettamente nel suo compito, ma l’aveva fatto talmente bene che non volevo più staccarmi da lei, e quando la mamma veniva ad abbracciarmi o a cullarmi, strillavo come un’ossessa, rifiutandola categoricamente. Ovvio che non potesse durare a lungo – la rivalità tra madre e balia è uno dei temi più scottanti della psicologia “genitoriale” –, e infatti al compimento del mio secondo anno Anita se ne andò.
C’è però una versione più romantica secondo cui Anita si innamorò, ricambiata, di mio zio Marco, all’epoca poco più che ventenne e un po’ scapestrato. La nonna per evitare strascichi peggiori, come un prematuro matrimonio, fu costretta ad allontanare, seppur con garbo e gentilezza, la povera fanciulla che tornò in Germania.
Comunque siano andate le cose, io avevo perso la mia tata che mi aveva amata e cresciuta e a cui mi ero profondamente affezionata.
Insomma, stavo subendo il primo trauma della mia ancor breve vita e non avevo neanche gli strumenti per elaborarlo...
Nel frattempo avevamo traslocato e ci eravamo trasferiti in corso Cairoli, a due passi da piazza Vittorio e da casa di Franco, al quinto e ultimo piano, in un appartamento grande, luminoso, con una vista spettacolare sul fiume e sulla collina, dove avevo una camera dei giochi sterminata tutta per me in cui, seduta per terra, montavo e smontavo i cubi delle costruzioni e sfogliavo i libri di Richard Scarry per ore.
I ricordi dei miei primi anni di vita derivano perlopiù da racconti di famiglia e vecchie foto: Getta che mi spinge sull’altalena, la mamma che mi infila un buffo colbacco, papà che mi insegna a camminare tirandomi con una specie di guinzaglio.
Poi arrivò il tempo dell’asilo, naturalmente privato, naturalmente di suore. E poi finalmente le elementari.
Al Sacro Cuore, quella era la scuola, trascorrevo le mie giornate fino alle quattro del pomeriggio. Un pulmino veniva a prendermi a casa la mattina e la mamma mi recuperava all’uscita.
Questo prevedeva che pranzassi alla mensa – in linguaggio suoresco “il refettorio” –, un enorme stanzone sotterraneo con un soffitto altissimo e finestre a livello marciapiede; ricordo il pavimento di graniglia gialla, i muri scrostati, i lunghi tavoloni di legno, il rimbombo assordante di urla e risate e soprattutto l’odore di stantio, di minestrone e cipolla che si appiccicava inesorabilmente alle divise, alle cartelle, ai capelli.
Il cibo era ovviamente quello standard delle suore: pasta scotta, molliccia, mal condita, carne tipo suola di scarpa, cavoli e spinaci, uova alla coque raccapriccianti.
L’unica cosa mangiabile erano i panini all’olio che rubavo e infilavo nella tasca della gonna. Tutto il resto o lo lasciavo nel piatto o lo cedevo a qualche compagno famelico e di bocca buona.
Il prescelto di solito era Guido, un bambino che aveva sempre il moccio al naso e che mi diceva sempre cose sgradevoli, ma copiava volentieri i miei dettati o le mie operazioni di matematica. Non mi era simpatico, ma avevamo raggiunto un tacito accordo: io lo lasciavo copiare e lui faceva sparire il mio cibo.
Questo trucco mi risparmiava le umilianti punizioni delle suore (“Il cibo non si avanza, non si butta!” “Pensa a quei poveri bambini che muoiono di fame.” “Ora ti inginocchi per terra cinque minuti davanti a tutti!”), ma tornavo a casa sempre affamata, cosa che insospettiva mia madre.
Io però non potevo dirle la verità, mi vergognavo, avevo uno strano pudore che mi impediva di lamentarmi del cibo e soprattutto non volevo darle un dispiacere. E così le raccontavo meraviglie, inventavo agnolotti, lasagne, arrosti prelibatissimi e polpettine morbidissime, budini al cioccolato e gelati, patate fritte e polli arrosto.
Ma, come si sa, le bugie hanno le gambe corte e un giorno il mio castello fantastico crollò miseramente.
La mamma era venuta a prendermi come sempre e si era imbattuta in madre Pezzotta, l’insegnante di francese che aveva per me una spiccata predilezione. Tra una chiacchiera e l’altra, prima del mio arrivo, cominciò a complimentarsi e a rallegrarsi per il menu della mensa, sempre così vario e appetitoso. Le raggiunsi giusto in tempo per captare le ultime frasi che bastarono a mettermi in allarme.
Dovevo assolutamente intervenire, ma come?
Mi appesi con insistenza al cappotto della mamma, tirando come una pazza, piagnucolando fastidiosamente, suscitando il suo disappunto e l’inevitabile, seccato rimprovero: “Ma insomma, Maria Carla, smettila!” centrando però in pieno l’obiettivo: si erano distratte entrambe, l’argomento era stato dimenticato e quindi, sgridata o non sgridata, ero salva.
Ma la mamma non era certo né ingenua né distratta e, una volta in macchina, mi obbligò a raccontarle la verità. Quello fu per me l’inizio della fine: avevo sei anni e mentivo come un’adolescente smaliziata, mi veniva naturale, quindi di me non ci si poteva fidare.
Per buona parte della mia vita, almeno fino al mio matrimonio, ho dovuto lottare contro questo terribile pregiudizio materno: ero una bugiarda! E prima di credere a una sola mia parola bisognava verificare, insistere, inventare trabocchetti per capire se la mia seconda o terza versione fosse identica all’originale e anche così non era detto che bastasse perché ero furba e “intelligenta”, come diceva Getta, e potevo facilmente recitare il copione migliaia di volte senza mai contraddirmi.
Un incubo, un vero inferno! Ho provato in tutti i modi a riabilitarmi, alla fine ci ho rinunciato e ho cominciato a mentire, omettere, trasformare come lei si aspettava, affinando di anno in anno le mie capacità. Bruttissimo, lo so, ma dovevo sopravvivere in qualche modo.
Ripensando ora a tutte quelle bugie raccontate per salvarmi la pelle mi chiedo come quest’abitudine infantile non sia diventata col tempo un vero e proprio Leitmotiv della mia vita. La mamma era molto severa e poco incline a concessioni anche banali e l’unico sistema per sfuggire ai divieti era inventare pomeriggi di studio a casa di amici, gite in montagna con gruppi di compagni di scuola, raduni spirituali o inesistenti visite ai musei. Non volevo rinunciare ai divertimenti, ma mentire mi faceva sempre sentire in colpa. Spesso ero combattuta, soprattutto perché con papà era diverso, gli potevo dire tutto, non temevo la sgridata, sapevo che mi avrebbe fatta ragionare con calma e mi avrebbe aiutata a confessare i miei errori. Per lui esisteva un unico principio: la verità a qualunque costo. Per quanto scomoda, difficile, inconfessabile, ti ripaga sempre. Se sei onesta con te stessa, trasparente verso gli altri, puoi scampare alle conseguenze terribili che una bugia, piccola o grande, a volte scatena nella tua vita e soprattutto nel tuo animo.
Ma la visione della mamma era differente. Educata rigidamente, “alla tedesca”, non concedeva deviazioni o sconti e odiava i sotterfugi. Con lei è sempre stata una lotta e, soprattutto durante l’adolescenza, ho dato sfogo alla parte più estrema e ribelle di me portando mia madre all’esasperazi...

Indice dei contenuti

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