“Diffida dei bambini che non sono stati bambini. Saranno infantili per sempre.”
Così diceva mio nonno, quando nei caldi pomeriggi d’estate chiudeva le imposte dello studio, prendeva un foglio per farsi vento e sorseggiava un bicchiere di cedrata Tassoni.
“Sono individui infidi perché non si sono sfogati e la vita, mio caro Mario, è principalmente uno sfogo, un po’ come le malattie infettive che è meglio fare da piccoli.”
Ero sempre attento ai discorsi del nonno, anche se non li capivo. Sapevo solo che, pur essendo il più anziano, il nonno era l’unico in famiglia a essere elastico, capace di uscire dai suoi binari dorati di notaio di provincia per deragliare nel turbinio della realtà.
Anche di quei discorsi sull’infanzia mancata non ho capito niente fino a quando l’infanzia non è stata per me che un ricordo, una foto ingiallita dimenticata in mezzo ad anni di lavoro intenso.
Ma al di là dei ragionamenti sulla saggezza della vecchiaia, dei quali diffido non sapendo oggi, a sessantacinque anni compiuti, cosa voglia dire essere saggi davvero, c’è stato un momento in cui la frase del nonno mi è sembrata lucida e crudele.
Questa consapevolezza è ciò che mi resta della storia che racconto, una storia che non ho vissuto.
Sono un notaio, riservatezza e segreto professionale mi ossessionano da sempre, anche ora, alle soglie della pensione, nel deserto di apparente libertà. Ho bisogno di riempirla tutta questa libertà, riempirla di fatti del passato, gli unici che ho. Ho bisogno di analizzarli, spezzarli in frammenti per trovare nuclei indivisibili da ingrandire al microscopio della mia disperata insoddisfazione.
Devo raccontare quel che ancora mi sfugge.
Per anni ho faticato a trovare il confine tra il professionista e l’uomo, una distinzione difficile da raggiungere, come separare ragione e sentimento, verità e dubbio. A un certo punto, a cinquant’anni precisi, la linea di demarcazione, quella che avevo cercato di tracciare, si è confusa ulteriormente, una linea di mezzeria sbiadita che non sa più darti indicazioni sulla posizione e la pericolosità del sorpasso.
Oggi, l’obiettivo di essere netto mi pare assurdo, se non folle. Ma non la pensavo così quando iniziai il praticantato notarile nell’ufficio di mio padre. Lui, almeno in apparenza, gestiva le cose della vita con certezza assoluta. Ne parlava con competenza professionale, come si trattasse di un rogito da portare a termine seguendo prescritte formalità.
Solo il lato chiaro della luna mi aveva mostrato.
Per questo, diventare notaio mi era sembrato il modo più efficace per tenere sotto controllo le continue oscillazioni tra ordine e disordine nelle quali inciampavo quotidianamente.
Per lungo tempo ho pensato che il mio incespicare fosse un disturbo transitorio della gioventù. Avevo torto.
Oggi, l’unica cosa che do per certa è la debolezza umana, la prima causa che, a mio avviso, muove il mondo, molto più che i buoni propositi e la necessità.
Sapevo poco della debolezza fino alla sera di quel mio cinquantesimo compleanno.
Ne avevo già viste tante a quel tempo. Un notaio, specie in provincia, è un confessore. Per esempio, ero ben consapevole della carica distruttiva dell’avidità, del potere accecante di una rendita cospicua, ma di quanto le passioni possano travalicare la ragionevolezza, non avevo ancora avuto prove tanto evidenti.
Era caduto di venerdì il mio compleanno, una sera pari ad altre, trascorsa in studio a lavorare.
Ricordo quanta fatica feci nei giorni precedenti per convincere mia moglie e mia madre a evitare le feste a sorpresa casalinghe. Sopporto male i compleanni, il mio soprattutto, per non dire delle feste.
A sei anni ho iniziato a detestarli, da quando i miei genitori mi obbligarono ai calzoni corti di vigogna grigia, alla camicia bianca abbottonata fino all’ultima asola, al farfallino nero, il tutto da sommare all’esibizione al pianoforte in onore della zia paterna con baffi e tailleur intriso di naftalina.
Mi baciava sulla fronte la zia, e la mia pelle tenera accoglieva con disgusto quelle labbra secche, le uniche labbra femminili che mi avessero baciato fino ad allora, poiché mia madre era contraria alle, così le definiva con una smorfia di disappunto, “stupide smancerie”.
Neppure la mia governante era autorizzata a farmi le coccole.
Per non rischiare, mia madre aveva assunto una donna robusta dall’aspetto quasi maschile. Somigliava più a un soldato che a una tata, ma aveva referenze indiscutibili. Per vent’anni era stata a servizio di certi nobili che il referendum del ’46 su Repubblica e Monarchia aveva costretto a spese più miti.
Insomma, con questi pensieri, la sera del 26 ottobre di quindici anni fa mi trovavo in studio, tra i miei mobili antichi, lucidi di cere protettive, i quadri naturalistici in cornici dorate e il bell’orologio d’epoca appoggiato sulla mensola del camino.
Con me c’era anche tanta malinconia. Fu forse per farla uscire che aprii la finestra affacciata sui portici del centro, bagnati da una pioggia sottile, e vidi la ragazza dalle scarpe rosse attratta dalle vetrine della gioielleria di fronte.
Nelle città piccole si dice che tutti sappiano i fatti di tutti. Anch’io l’avevo creduto, non tanto per convinzione, quanto per coincidenze che in alcuni casi mi avevano portato a conoscenza di questioni riservate.
Ma la proporzione tra le storie che conoscevo e quelle ignote era, a ben pensarci, del tutto sbilanciata verso le seconde.
Sapevo poco dei miei concittadini e, quel poco, mi veniva dal lavoro e dalle parole di mia moglie che, immersa nelle attività di varie associazioni benefiche, a tavola si lasciava andare in racconti.
Cercavo di fuggire appena concluso il pasto, proprio per evitare tutti i segreti che, passando di bocca in bocca, di segreto non avevano più granché.
Preferivo lasciare le amiche di mia moglie a raccogliere quelle confidenze. Ci sono sempre, a pranzo e a cena, amiche di mia moglie per casa.
Quando, cinque anni dopo il nostro matrimonio, il medico, a seguito di analisi e cure, le confermò che il capitolo “figli” si concludeva prima ancora di aprirsi, iniziò a dedicarsi anima e corpo alla vita sociale, riempiendomi la casa di gente.
Non amo questa sua abitudine. La detesto, ma ho imparato a conviverci.
A tavola, non appena la conversazione si avvia, mi dileguo, fingendo una telefonata, il controllo di qualche documento.
Ci sono state, però, situazioni dalle quali non sono potuto fuggire.
Accadde così una mattina di dicembre, un sabato che avevo deciso di santificare alla lettura.
In poltrona, davanti a un tè fumante, la voce di mia moglie giunse dal soggiorno.
«Vero che non ti arrabbierai?»
«Per cosa?»
«Se verrà qui oggi?»
«Chi?»
«La signora Gerbi.»
«Chi?»
«La signora Gerbi, te ne ho parlato a cena, non ricordi?»
Non ricordavo niente, ma non avevo il coraggio di dire che non avevo neppure ascoltato.
«Non dirmi che non hai sentito tutto il discorso che ho fatto ieri a cena a proposito della Gerbi?» aggiunse mia moglie, che nel frattempo mi aveva raggiunto con aria interrogativa e le mani sui fianchi.
Sorrisi. Faccio così con i clienti che hanno un difetto di pronuncia e non oso offendere mostrando di non aver compreso.
«Ho capito benissimo,» dissi senza guardarla negli occhi «solo non ero sicuro fosse oggi l’appuntamento.»
«Stamattina» disse lei.
«Stamattina» ripetei, chinandomi sullo scrittoio e chiudendo il mio libro nel primo cassetto.
Poi mi affacciai alla finestra per gustarmi almeno il piacere della neve che scendeva a timidi fiocchi sul lastricato.
Il mio appartamento è al quarto piano del palazzo, stesso stabile del mio ufficio, facilmente raggiungibile uscendo in strada e imboccando l’ingresso, scala A.
La neve non poteva essere una scusa valida per rinviare l’appuntamento con la signora Gerbi.
Non sapevo nulla di quella donna. Ricordavo di averla sentita nominare, forse era un’amica di mia moglie o forse, era già accaduto in passato, l’incarnazione di qualche sua opera pia da portare a compimento grazie al mio lavoro.
Nel dubbio continuavo a tacere.
«A che ora verrà?» chiesi poi aprendo un pochino il cassetto e sbirciando di nuovo il mio libro.
«Da un momento all’altro» rispose andando verso il corridoio. «Ti conviene scendere per non farle perdere tempo.»
Diedi una spinta al cassetto chiudendolo in modo più rumoroso rispetto alle mie abitudini. Per i miei mobili, ereditati da generazioni, ho sempre avuto cura ed estrema attenzione.
Mia moglie non si accorse di nulla. Era già uscita dalla stanza. Doveva prepararsi allo shopping del sabato e la scelta dell’abbigliamento, visto il tempo, era più complicata del solito.
Indossai giacca e scarpe. Del cappotto non avevo bisogno, bastava uscire dall’ingresso del palazzo e fare a piedi non più di tre metri. Scesi senza salutare.
La strada era bianca e poco animata. Una donna avvolta in una sciarpa a quadretti, con gonna lunga, mocassini, senza ombrello, la stava attraversando.
Curioso, pensai, uscire in abbigliamento da casa con un tempaccio simile. Ma del resto, anch’io indossavo una giacca leggera. Non avrei dovuto stupirmi più di tanto.
Percorsi i miei tre metri di portici e la osservai ancora. Pareva mi venisse incontro.
Prima che imboccassi la scala B fece un cenno per fermarmi.
«Sono la signora Gerbi» disse avvicinandosi e porgendo la mano gelida. «Ci siamo incontrati qualche anno fa, ma forse non ricorda. Mi scuso per il disturbo, sua moglie ha insistito tanto...»
«Di nulla,» dissi imbarazzato cedendole il passo per entrare nell’androne «di nulla.»
La donna si liberò della sciarpa usata a mo’ di scialle. La scosse per far cadere la neve che nel frattempo era tornata acqua e ripeté:
«Mi scusi signor notaio, se non fosse una cosa seria non la disturberei.»
«Saliamo in ufficio» dissi continuando a rigirarmi nel dubbio di chi fosse. «Parlarne al caldo è meglio.»
«Ha ragione...» annuì abbassando il capo. «Cercherò di non farle perdere troppo tempo.»
Salimmo le scale senza parlare. Girai la chiave nella serratura con la sgradevole sensazione di andare verso qualche guaio. Mi sentivo studiato, scrutato dai suoi occhi, chiodi fissi sulla mia schiena.
«Si accomodi,» dissi avventurandomi nel buio del corridoio fino a raggiungere l’interruttore più vicino «apro solo le persiane. Di sabato l’ufficio è chiuso.»
Mi accorsi di essere stato scortese senza volerlo. Non intendevo far pesare la situazione, ma solo giustificare tutto quel buio in pieno giorno.
La signora Gerbi non replicò, quando mi voltai la vidi però sconfortata, sembrava che una disgrazia si fosse appena abbattuta su di lei.
Le indicai una poltrona. Temevo di essere maldestro e appesantire la conversazione più di quanto non avessi già fatto.
Con le persiane aperte la luce naturale riempì la stanza. Mi sedetti alla scrivania e osservai meglio la mia ospite che adesso mi guardava fisso.
Gli occhi erano chiari, ma stropicciati, la cornea arrossata di chi non dorme per troppo tempo. Dai segni sul viso avrei detto avesse non più di cinquant’anni. I tratti erano comunque fini, tipici di una bellezza mal portata nel tempo. Sulla guancia destra un piccolo neo pareva il residuo di una giovinezza perduta.
Fu da quello che la riconobbi. La signora Gerbi, la moglie del macellaio.
«Signora Gerbi,» dissi ringalluzzito dalla scoperta fatta in extremis «in cosa posso esserle utile?»
Probabilmente si rese conto del mio cambio di registro. Fu una fortuna per entrambi evitare spiegazioni. Il fatto che non l’avessi riconosciuta al primo istante sottolineava in modo imbarazzante quanto il tempo, su di lei, non avesse usato clemenza.
La prima volta che la inc...