Certe volte quando sei in
una stanza affollata il modo
migliore per farti sentire è
gridare. Ma il modo migliore
per farti capire è spiegarti.
CARLY, GIUGNO 2009
In un mondo di silenzio, la comunicazione è dappertutto. Basta sapere come guardare.
CARLY
Nella nostra religione, come in molte altre, vige il rituale di celebrare il compimento della maggiore età. Per i genitori di ragazzi affetti da gravi disabilità, capisaldi come questo sono accompagnati da una nota dolceamara. Da tempo avevamo perso le speranze che Carly avrebbe avuto il beneficio di percorrere le tappe evolutive della vita: il primo appuntamento, il diploma del liceo, gli anni dell’università, la camminata verso l’altare. Dovevamo accontentarci di festeggiare i successi personali di Carly, come imparare a usare il bagno e, di tanto in tanto, a scrivere.
Su consiglio di Barb, tuttavia, riflettemmo sul bat mitzwah delle nostre figlie, la consuetudine ebraica di demarcare il passaggio dall’infanzia alla maturità, una transizione simbolica a indicare il momento in cui una bambina assume le responsabilità delle proprie azioni buone e cattive, della generosità o dell’egoismo. Eravamo talmente spossati dallo stare dietro a Carly per quello che non poteva fare che decidemmo che la celebrazione sarebbe andata a esclusivo beneficio di Taryn. Troppi aspetti della vita quotidiana di Taryn erano influenzati dall’autismo e dalla disabilità della sorella, e in questo caso ci sembrava che meritasse di vivere la stessa esperienza dei suoi amici. Ma Barb e Howard, due dei sostenitori più accaniti di Carly, insistettero perché Carly rivestisse un ruolo importante nella funzione religiosa e nei festeggiamenti che sarebbero seguiti.
Così, mentre si avvicinava l’autunno del 2007, esortammo Carly a scrivere un breve discorso che avremmo letto durante l’evento in programma per il gennaio del 2008. In quel periodo faceva brevi conversazioni con me tramite e-mail e messaggi istantanei. Di solito rincasavo troppo tardi dal lavoro o dalla palestra per cenare insieme ai ragazzi. Perciò, dopo il bagno, Carly si sedeva a tavola mentre mangiavo e facevamo una partita a Forza quattro (un gioco nel quale aveva subito imparato a stracciarmi) oppure parlavamo. Carly sedeva davanti al suo laptop, io davanti al mio piatto. La incoraggiavo a farmi domande o a dirmi qualsiasi cosa volesse. Se avessimo cenato tutti insieme, seduti attorno al tavolo ingombro di piatti, ci saremmo concentrati sull’aiutare Carly a mangiare a dovere, rendendo impossibile qualsiasi conversazione. Per quanto anticonvenzionale, quello era il nostro modo di instaurare un legame.
“cosa devo dire?” mi chiese Carly in merito all’argomento del suo discorso per il bat mitzwah.
«Secondo me, dovresti ringraziare i presenti per essere venuti» risposi. Fino ad allora si era espressa con frasi brevi e semplici. Ormai avevamo capito che era arguta e possedeva un buon vocabolario, ma oltre a The Elephant Princess, Carly non aveva mai scritto più di qualche frase consecutiva, pertanto l’idea di un intero discorso era scoraggiante.
«Magari potresti provare a spiegare cosa significa essere come te. La gente è curiosa di capire l’autismo, e adesso che hai imparato a scrivere è la tua occasione.» Mi piaceva la nuova fase del nostro rapporto. Carly e io stavamo realmente conversando. I primi dodici anni della sua vita erano stati un silenzio rumoroso, privo di linguaggio e di risposte sensate. Per quanto fossero penosamente lenti, apprezzavo quegli scambi e la possibilità di darle consigli. Potevo essere qualcosa di più di un assistente: potevo essere un padre a tutti gli effetti.
Sebbene scrivesse ormai da un anno, avevamo ancora una comprensione limitata dei comportamenti disorientanti di Carly, dei suoi scoppi improvvisi e degli strani rumori che faceva. Mia figlia non conosceva la tranquillità, e questo rendeva la scrittura un compito oneroso. Di norma, negli ultimi dodici mesi, le sue conversazioni tramite e-mail o messaggi istantanei si erano ridotte a brevi richieste. Anni dopo ci avrebbe anche rivelato che agli inizi non le piaceva la sensazione di toccare i tasti del computer. L’autismo può colpire i sensi in modi che non riusciamo nemmeno a immaginare. Quello che ai soggetti neurotipici sembra normale per una persona affetta da autismo può rivelarsi straziante. Nei primi tempi, dopo avere imparato a scrivere, Carly adottava una prosa concisa e intermittente per fare fronte all’ardua sfida; il ritmo era di una lentezza estenuante.
Per aiutarla a scrivere il suo discorso, la incalzai con domande o riflessioni alle quali Carly offrì le sue risposte. Poi facemmo un copia-incolla di quelle frasi, trasformandole in paragrafi. Mi sembrava che stessimo costruendo una casa un mattone alla volta. Ma era il primo progetto creativo al quale lavoravamo insieme, e lo adorai. Non stavo solo aiutando mia figlia a fare qualcosa di grandioso, stavo anche imparando molte cose su di lei. Una volta terminato il discorso avrei avuto un’immagine radicalmente diversa di lei.
Per quanto progredisse lentamente, Carly stava scoprendo sentimenti, pensieri e una consapevolezza di sé di cui prima di allora non aveva mai scritto. Nelle sedute pomeridiane Barb lavorava insieme a lei stimolandola con nuove idee quando sembrava bloccata e aiutandola a concentrarsi fissando una serie di obiettivi e le rispettive ricompense. Ben presto, però, cominciammo a capire che Carly si era fatta una sua idea in merito allo svolgimento del discorso.
“voglio scegliere un argomento ebraico di cui parlare” disse un giorno a Barb, quando aveva già scritto un paio di paragrafi.
Allora Barb le spiegò il concetto di tzedaqah, la giustizia nel senso di conformità al volere divino che indica anche l’atto di beneficenza e soccorso.
“so cos’è” la informò Carly.
«E dove l’hai imparato, Carly?» chiese Barb perplessa.
“Alla tua scuola” ribatté Carly, riferendosi al Northland, dove si erano conosciute. All’epoca mia figlia stava attraversando la sua fase più imprevedibile e incontrollabile. Sebbene partecipasse ad attività come musica, storie, giochi di gruppo e lavoretti manuali, nessuno credeva davvero che stesse assimilando i concetti più sottili e intellettuali come il valore spirituale della bontà. Questo succedeva sette anni prima, e ci stupimmo che fosse riuscita a cogliere quel concetto – figurarsi ricordare il corrispettivo ebraico – a tanti anni di distanza.
«Che te ne pare della mia idea?» proseguì Barb.
“mi piace” rispose Carly.
Barb suggerì che magari, in preparazione del bat mitzwah, Carly avrebbe potuto compiere davvero un atto di altruismo, anziché limitarsi a scriverne.
“voglio fare da mangiare per le persone che ne hanno bisogno” decise Carly.
Non è insolito partecipare a progetti simili nel rituale di passaggio alla maggiore età, eppure rimasi impressionato dall’entusiasmo con cui mia figlia desiderava aiutare i meno fortunati. Meno fortunati? Chi mai poteva essere meno fortunato di una ragazza posseduta da un’energia travolgente e distruttiva? Una ragazza che mostrava segni di pensiero creativo ma non riusciva a controllare il proprio corpo? Tuttavia, nelle settimane successive Carly si impegnò preparando i biscotti, andando a fare la spesa e visitando un ricovero per senzatetto dove fece la sua donazione. Mentre mescolava alla meglio l’impasto dei biscotti, la mia mano sopra la sua per reggere la frusta, mi domandai cos’altro le passasse per la testa. Malgrado fossi molto orgoglioso della sua premurosità, un velo di tristezza oscurò quel momento. Per quanto ci potessimo impegnare, mia figlia avrebbe sempre avuto bisogno della mano di qualcun altro a guidare la sua.
Una mattina agli inizi di ottobre, mentre ero alla mia scrivania, vidi Carly accedere al suo profilo di messaggistica istantanea. D’istinto sorrisi. “Carly si è connessa” lessi sul monitor, quasi fosse di per sé un successo di cui gioire.
“voglio scrivere una lettera con te” scrisse Carly.
“È un’ottima idea” risposi. Ero entusiasta che Carly stesse cominciando ad ampliare i suoi orizzonti e a usare la sua voce per motivi che non si limitavano a una richiesta di patatine o popcorn. “Devi scrivere una lettera a Marty e Pop Pop” le ricordai. “Per ringraziarli del tuo computer nuovo.”
“voglio scrivere una lettera diversa” ribatté Carly. “voglio scrivere a Ellen.”
L’orario riportato sul mio monitor all’inizio di ogni messaggio mi lasciò sgomento. Una qualsiasi ragazza di dodici anni avrebbe impiegato non più di trenta secondi per avanzare quella semplice richiesta. Ma Carly doveva esaminare la tastiera e battere una lettera alla volta. Spesso doveva fare una pausa per alzarsi e saltellare in modo da alleviare l’incessante irrequietezza che dà il tormento al suo corpo. Quella breve conversazione occupò un intervallo straziante di quarantacinque minuti. Nel tempo che Carly impiegò ad avanzare la sua richiesta avevo tenuto una breve riunione nel mio ufficio e mi ero appuntato un promemoria.
“Chi è Ellen?” domandai. Nessuna risposta. Sapendo che doveva esserci Howard seduto accanto a lei, insistetti. “Di chi sta parlando, Howard?”
“Quella per cui ballo” continuò infine Carly. “Non so scrivere il cognome. È troppo buffo.”
“È Ellen DeGeneres” mi informò Howard. “È per lei che balla Carly.”
“È divertente, Carly” replicai, scuotendo la testa. Dato che Carly non sta mai seduta composta davanti alla televisione, non avevo collegato immediatamente le due cose. “Okay. Cosa vuoi dirle?”
Dopo avere speso oltre un’ora per quella richiesta, sapevo che dovevo insistere. Avevamo imparato da tempo a non cedere alla tentazione di scrivere lunghe risposte o fare troppe domande complicate di seguito.
“Howard dice che compie gli anni il mio stesso giorno.”
“Grandioso. Cosa vorresti dirle?”
“voglio esprimere un desiderio.”
“Vuoi dire a Ellen il tuo desiderio? Qual è il tuo desiderio?” Adesso ero davvero incuriosito. Se qualcuno si trovasse a chiedere qualcosa per la prima volta con una voce appena scoperta, cosa potrebbe essere? Il suo desiderio riguardava forse una cosa frivola come una console per videogiochi o un iPod? O qualcosa di semplice come un autografo di Ellen? Oltre alle richieste per bisogni essenziali o ricompense, non avevo mai sentito Carly domandare qualcosa.
“non posso dirtelo adesso te lo dicoo dopo” scherzò.
Dopo una pausa pranzo che mi permise di condensare due ore di lavoro in trenta minuti, Carly si connesse di nuovo e cominciammo la lettera. “Secondo me, come prima cosa dovresti presentarti, Carly” suggerii.
“mi chiamo carly vengo da Toronto.” Cominciava così la prima lettera che mi figlia avesse mai scritto. “ho l’autismo non posso parlare scrivo colll mio computer” proseguì. Mi colpì il fatto che l’impegno oneroso di scrivere rendesse le conversazioni di Carly così dirette e mirate. Qualsiasi aggettivo o avverbio superfluo, anche solo un semplice articolo, rischiavano di prolungare il compito di parecchi minuti.
“faccio fatica a stare seduta ferma o a fare un gioco.”
“Come ti fa sentire questo?” suggerii.
“va bene a volte ma divento triste e frusteratata. Voglio essere come le altre ragazze.”
Non era la prima volta che Carly ammetteva questa dolorosa verità, ma era ancora abbastanza fresca da fare male. Era più facile credere che la sua disabilità mentale le impedisse di notare quanto fosse diversa dalla massa. Quelli che fanno strani rumori, che agitano le mani, che anziché camminare corrono trascinando i piedi oppure marciano a gambe rigide... queste persone sono consapevoli delle attenzioni degli altri? Si interessano di cosa pensa la gente? Quanto mi ero sbagliato credendo che la risposta fosse no.
Era capitato spesso che Carly si lamentasse: “Dovete aggiustarmi. Aggiustarmi il cervello. La mia bocca si sente inutile”. A quel punto chiudeva di scatto il computer e fuggiva di corsa dalla stanza, piangendo e gettandosi a terra. Ma adesso cominciava ad accettare la sua condizione. Una volta Tammy chiese a Carly se sapesse cos’era l’autismo, senza tanti giri di parole.
“È una cosa che ho io e agli altri non piace vedere” fu la sua risposta poetica.
Dopo molte settimane di lenti progressi, la lettera era quasi terminata. Carly si era presentata e aveva fatto la sua richiesta a Ellen, ma non l’aveva ancora im...