«Ero nudo e mi avete vestito.»
MATTEO 25,36
«Il perdono non annulla ciò che è stato, ma conserva il passato perdonato nello sguardo purificato.»
EMMANUEL LEVINAS
«Mio Dio, ... diventa sempre più evidente per me ... che tu non puoi aiutare noi, ma che siamo noi a dover aiutare te.»
ETTY HILLESUM
A Birkenau, una donna in fin di vita mi ha fatto un cenno: aprendo la mano, che conteneva quattro pezzetti di pane ammuffito, con un filo di voce mi ha detto: «Tieni. Sei giovane, devi vivere per testimoniare quello che accade qui. Devi raccontarlo, perché nel mondo non possa succedere mai più». Ho preso quei quattro pezzetti di pane, li ho mangiati davanti a lei. Ho letto nel suo sguardo la bontà e al tempo stesso l’abbandono. Ero molto giovane, mi sono sentita sopraffatta da quel gesto e dal suo significato profondo.
Per molto tempo ho dimenticato quell’episodio.
Nel 1978 Darquier de Pellepoix ha detto: «Ad Auschwitz sono state gasate soltanto delle pulci». La perversione di queste parole mi ha disgustata e ha fatto riaffiorare in me il ricordo del gesto di quella donna. Ho rivisto il suo viso. Non potevo più tacere.
Prendere la parola è una dura prova per me, ma non posso sottrarmi; non obbedisco a un «dovere della memoria», ma a una fedeltà alla memoria di coloro che sono scomparsi davanti ai miei occhi.
Sono stata deportata a sedici anni. Sono una dei pochissimi ebrei ungheresi ad aver fatto ritorno.
Sono stata risparmiata.
Sono viva.
Ho detto sì alla mia vita.
È evidente, per me, che si doveva trasformare questa memoria di morte in appello alla vita. Ho capito che la pace si può costruire solo se ciascuno di noi trova o ritrova il gusto della sua vita.
Giro lentamente le pagine della mia vita. Ci sono pagine bianche, pagine ingiallite, cancellate, e pagine silenziose in attesa di essere rivelate.
Sono padrona del mio domani.
Per la mia memoria era inverno.
Con un lungo lavoro interiore, a poco a poco è arrivato il disgelo.
I colori luminosi dell’autunno oggi rischiarano i miei giorni.
Come trasformare quel luogo di morte che è Auschwitz in un luogo di richiamo al futuro?
Le grida emesse fino all’ultimo minuto nel desiderio di vivere verranno mai udite?
Soffro quando qualcuno dice che i miei fratelli e sorelle sono entrati nelle camere a gas «come pecore mute», mentre io li sento ancora pregare, implorare l’Eterno fino all’ultimo minuto.
L’ultimo minuto, quello della loro speranza nella vita.
I nostri morti non ci invitano, oggi, a trarre un insegnamento di pace da quella barbarie, affinché sulle nostre vite e su quelle delle generazioni future risplenda un domani migliore?
Vorrei che questo ricordo impresso nel mio cuore ispirasse la forza di vivere e di agire in modo che «mai più» possa diventare realtà .
Dio parla in noi e attraverso di noi.
Ha chiesto a Adamo: «Dove sei?».
A Caino: «Che hai fatto?».
Queste domande dell’Eterno abitano e animano la mia vita.
Il ricordo della mia infanzia e della mia adolescenza è stato per molto tempo tanto nero quanto il silenzio degli adulti. La ferita ungherese era così dolorosa che avevo chiuso a chiave la mia memoria. Avevo persino dimenticato la mia madrelingua.
Oggi mi sento pronta a riallacciare i legami con il mio passato ungherese.
L’aiuto delicato e costante di mia figlia Anne e un silenzio interiore mi hanno dato la forza per farlo. Con lei sono tornata in Ungheria e ho potuto placare il rancore che mi imprigionava contro gli abitanti di quel paese. Più di 437.000 ebrei sono stati deportati, in soli tre mesi, a partire dall’aprile 1944.
Come dare corpo al libro della mia memoria senza scrivervi il capitolo della mia ferita ungherese? Senza questa pacificazione interiore, non mi sarei sentita abbastanza libera da inserirmi nella mia storia.
Questa traversata mi ha richiesto una grande umiltà e un tempo fuori dal tempo.
Nelle fessure delle mie ferite ho cercato di far spuntare la vita.
Ci sono riuscita?
Il velo che mi separa da me stessa bambina è ciò che conosco.
Della mia infanzia mi restano solo alcune istantanee. Delle inezie, come scintille, risalgono dagli abissi della mia camera oscura.
Ho negli occhi una casa gialla con una tettoia, sotto la quale macinavo chilometri con il mio monopattino. Avevamo un grande giardino con degli alberi sui quali mi arrampicavo per trovare rifugio quando ero arrabbiata. Cantavo a squarciagola facendo dondolare i piedi e squadrando il mondo intero. Mi piaceva anche ritrovarmi lì, con le tasche piene di foglietti, per scrivere i miei pensieri.
Da bambina ero indisciplinata, soprattutto dopo la nascita della mia sorellina Irène, la cui presenza, ai miei occhi, aveva troppa importanza per nostra madre. Ero di quattro anni più grande di lei e ce l’avevo col mondo intero per l’ombra che mi faceva.
Avevo circa quattordici anni quando mio padre, in quanto ebreo, fu destinato al lavoro obbligatorio. Non sapevamo dove si trovasse e io non capivo le sue lunghe assenze. Una volta è tornato a casa, indebolito, abbattuto, irriconoscibile. Non abbiamo osato fare domande. Vivevamo in uno stato di terrore viscerale. La paura mi aveva ridotta al silenzio e fatto perdere il senso della realtà .
In Ungheria, progressivamente, gli ebrei sono divenuti vittime di una strategia della paura e di umiliazioni crescenti. La scuola ci è stata vietata. Non mi capacitavo di una simile ingiustizia. Quello choc è stato terribile: per me, la vita si è fermata.
Mia madre portava tutto sulle sue spalle. Silenziosamente, affrontava le difficoltà quotidiane. Per darle conforto, io e la mia sorellina suonavamo al violino il motivo che lei cantava spesso. Il suo sguardo ci incoraggiava, nonostante le note stonate. Ammiravo la sua calma e il suo sguardo intenso, azzurro e rassicurante.
Ricordo anche che, nel piccolo villaggio in cui sono nata, il Venerdì Santo ci chiudevamo in casa. Quel giorno, i cristiani che andavano a pregare in chiesa ci colpivano per strada con la loro croce e rompevano i vetri delle nostre case. Gli abitanti del villaggio si accanivano sulla nostra piccola comunità , che ritenevano responsabile dell’uccisione di Gesù. Ero come paralizzata.
Per sopravvivere, ho spento la mia memoria. Solo il tempo e la fiducia nella vita, pazientemente ritrovata, mi hanno insegnato, a poco a poco, a sciogliere la mia gola serrata.
Il mio fagotto è pieno di parole che non sono ancora venute al mondo.
La mia vita si è fermata a sedici anni, in piena crisi adolescenziale, in piena crisi con i miei genitori. Ad Auschwitz ho lasciato mia madre e mia sorella, senza uno sguardo, senza un gesto, e quando mi sono chiesta dove fossero una kapò polacca, con tono indifferente, mi ha detto: «Guarda le fiamme della ciminiera: sono già tutti dentro». La mia vita si è fermata, una seconda volta.
Ero pietrificata dall’orrore di quella visione, dal rimorso di non aver potuto dire addio ai miei cari, chiedere loro perdono. Mi sono lasciata sprofondare in una pesante tristezza, in una disperazione senza fine. Se non avessi soffocato subito quel sentimento, credo che avrei perduto la ragione.
Il rimorso ha continuato a tormentarmi al ritorno dai lager, il rimorso di essere viva, io. Perché non le altre? Valevano mille volte più di me. Che fare di me stessa, ora? Schiacciata da un senso di inutilità , di incapacità , di solitudine, di colpa, ho perso il gusto della mia vita. La paura ha ripreso il suo potere. Sono divenuta Paura, essa mi ha spinto a volermi sopprimere. Un sorriso inatteso mi ha salvata dal tuffo. Sia benedetto quel sorriso, ma il rimprovero non mi abbandonava.
Non ho smesso, in trentasette anni, di lottare contro quell’adolescente che non poteva perdonarsi di essere viva, e contro quell’adulta che doveva intraprendere una gara di velocità senza allenamento. Correvo per recuperare il tempo, per assomigliare al resto del mondo, ma interiormente, in silenzio, migliaia di pulci mi succhiavano il sangue. All’esterno diventavo sempre più rumorosa, invadente. Lavoravo, studiavo, cercavo di diventare qualcuno. Il mio sorriso era il manto ideale di un’identità che non era la mia.
Ho speso così tante energie per apparire... Perché quel desiderio di fare tutto per tutti? Non era forse per farmi perdonare? E di che cosa?
Durante la deportazione non ho cercato di capire cosa mi stesse accadendo. Mi sono gettata d’istinto nella situazione ascoltando il mio intuito. L’intuito è l’intelligenza della vita. È l’ispirazione che non viene da noi, ma che ci spinge verso la luce.
La morte era divenuta un’amica evidente. Non avevo paura di lei. Da quando l’avevo accettata non esisteva più alcuna barriera tra me e lei; ero libera di inventare la vita. Questa certezza mi infondeva energia, una forza vitale che nasceva al di fuori di me stessa.
Ciascuno di noi era ridotto alla propria sopravvivenza. Capivo che un attaccamento poteva generare solo disperazione. Se fossi rimasta con mia madre o mia sorella, sarei sopravvissuta?
Me lo chiedo ancora oggi.
Sentivo che in me c’era uno spazio al quale i carnefici non avevano accesso. Non potevano immaginare fino a che punto rappresentassero, per me, il male assoluto.
Ero diventata insensibile alle emozioni, indifferente ai corpi senza vita che mi circondavano. L’istinto di sopravvivenza prevaleva sulla sofferenza dell’altro. L’altro era assente.
La fame e la sete non hanno morale. La fame mi divorava. Divenivo Fame. Divenivo Sete.
Ad Auschwitz non erano le parole a parlare ma i volti, le schiene, i piedi e le mani.
Non ero stata né registrata né tatuata. Il ritmo di arrivo degli ebrei ungheresi era tale che molte di noi sono passate attraverso le maglie di questa rete. Quante volte ho obbedito istantaneamente al mio intuito, che mi suggeriva di cambiare fila perché le schiene e i piedi davanti a me dicevano che non sarebbero vissuti a lungo! Non essere tatuata ha contribuito alla mia sopravvivenza.
Da bambina ero immersa in un grande silenzio.
I miei genitori non parlavano davanti a noi, ma i loro volti erano eloquenti.
Dovevo trovare qualcuno con cui parlare: l’albero su cui mi arrampicavo è diventato mio amico.
Ogni giorno andavo a raccontargli la mia giornata, le mie gioie e i miei dolori. Mi ascoltava, condivideva la mia vita.
Non era una cosa ma un essere vivente, anzi, di più: una persona che sapeva consolarmi.
Era troppo grande perché potessi esprimergli il mio attaccamento abbracciandolo, perciò accarezzavo la sua scorza con affetto.
A Birkenau non c’erano né alberi né uccelli. C’era una folla in cui non esisteva nessuno; eravamo considerate come cose inutili di cui i nazisti disponevano in base alla loro crudeltà .
Ma non avevano ...