Il sosia (Mondadori)
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Il sosia (Mondadori)

Con un saggio di André Gide

  1. 224 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Il sosia (Mondadori)

Con un saggio di André Gide

Informazioni su questo libro

«Nella gigantesca macchina gerarchica fatta di ben quattordici ranghi che rovesciava da ogni angolo dell'Impero di Pietroburgo valanghe di carta e fiumi di inchiostro, il singolo burocrate (grande, medio, piccolo) non era in grado di percepire il senso del proprio lavoro; egli era un ingranaggio del sistema, e il sistema non consentiva vie d'uscita.» In tale contesto, come sottolinea Giovanna Spendel nella sua Introduzione a Il sosia, nascono gli stati d'animo, generati dal proprio fallimento nelle aspirazioni di ascesa sociale, di Jakov Petrovic Goljadkin, piccolo buracrate, protagonista del romanzo. I suoi meccanismi mentali, che lo inducono a scindere la propria personalità in due entità diverse, un "io" e un "tu", gli rendono possibile un paradossale dialogo con il suo "doppio" sempre più prevaricatore e infido nei suoi confronti. È così possibile seguire le allucinazioni dell'"eroe" Goljadkin in un crescendo di situazioni contraddittorie e tragicomiche che Dostoevskij filtra attraverso la propria vena grottesca.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2013
Print ISBN
9788804620075

Il sosia
Poema Pietroburghese*

*“Poema” nello stesso senso in cui Gogol’, il glorioso maestro sotto il cui particolare influsso si trova il ventiquattrenne Dostoevskij di questo racconto, aveva battezzato “poema” il suo romanzo Anime morte: vasta narrazione cioè, tra realistica e fantastica, delle gesta e vicende di un protagonista, di un “eroe”.

1
Poco mancava alle otto del mattino, quando il consigliere titolare1 Jakov Petrovič Goljadkin si destò dopo un lungo sonno, sbadigliò, si stirò e finalmente aprì gli occhi del tutto. Per un paio di minuti però rimase a giacere immobile sul suo letto, da uomo non ancor pienamente sicuro se si sia svegliato o dorma tuttora, se esista nella veglia e nella realtà tutto ciò che intorno gli succede o sia il seguito delle sue disordinate e assonnate fantasticherie. Ben presto però i sensi del signor Goljadkin cominciarono ad accogliere più chiare e distinte le loro usuali, quotidiane impressioni. In modo familiare lo guardarono le pareti di un verde sudicio, affumicate, polverose della sua piccola stanzetta, il suo cassettone di mogano, le sedie di finto mogano, la tavola verniciata di una tinta rossa, il divano turco d’incerata di color rossiccio a fiorellini verdognoli e infine il vestito deposto la sera prima in gran furia e gettato tutt’in un mucchio sul divano. Infine la grigia giornata autunnale, fosca e torbida, così stizzosamente e con una smorfia così agra occhieggiò verso di lui nella stanza, attraverso i vetri appannati, che il signor Goljadkin non poté più in alcun modo dubitare di trovarsi non in oga magoga2 ma nella città di Pietroburgo, nella capitale, in via Sestilàvočnaja, al quarto piano di una grandissima casa d’affitto, nel suo proprio appartamento. Fatta una così importante scoperta, il signor Goljadkin chiuse convulsamente gli occhi, come rimpiangendo il recente sogno e desiderando richiamarlo per un istante. Ma dopo un minuto balzò d’un salto fuori del letto, avendo infine probabilmente azzeccato l’idea intorno a cui si erano aggirati finora i suoi pensieri distratti, non ricondotti al debito ordine. Balzato fuori del letto, corse subito verso un piccolo specchio tondeggiante che stava sul comò. Sebbene la figura assonnata, un po’ miope e abbastanza calva riflessa nello specchio fosse precisamente di un genere così insignificante da non trattener su di sé, a primo sguardo, l’attenzione particolare proprio di nessuno, tuttavia il suo possessore rimase visibilmente soddisfatto appieno di tutto ciò che aveva veduto nello specchio. “Ecco, sarebbe un bel caso” disse il signor Goljadkin a mezza voce “ecco, sarebbe un bel caso, se oggi avessi un qualche difetto, se per esempio qualcosa non fosse come dev’essere – se mi fosse spuntato un qualche foruncolo accessorio o mi fosse accaduta qualche altra contrarietà; del resto per il momento non c’è male; per il momento tutto va bene.” Vivamente rallegratosi che tutto andasse bene, il signor Goljadkin rimise lo specchio al suo posto, e poi, nonostante che fosse scalzo e serbasse indosso l’indumento con il quale soleva andarsene a letto, corse a una finestrina e con gran premura cominciò a cercare qualcosa con gli occhi nel cortile della casa, sul quale davano le finestre del suo appartamento. Evidentemente anche quello che scovò nel cortile lo soddisfece pienamente; il suo volto raggiò di un sorriso presuntuoso. Quindi – gettato peraltro dapprima uno sguardo dietro il tramezzo nello stanzino di Petruška, il suo cameriere, e assicuratosi che lì Petruška non c’era – si avvicinò in punta di piedi alla tavola, ne aperse un cassetto, frugò nell’angolo più lontano di questo cassetto, cavò infine di sotto a vecchie carte ingiallite e a non so che ciarpe un logoro portafogli verde, lo aprì con cura e cautela e gettò con delizia un’occhiata nella sua tasca più interna e più riposta. Probabilmente il mazzo di biglietti verdolini, grigiastri, azzurrini, rossicci e variamente screziati guardò pure il signor Goljadkin con aria oltremodo affabile e approvativa: con viso fatto raggiante egli posò dinanzi a sé sulla tavola il portafogli aperto e si fregò energicamente le mani in segno di sommo piacere. Infine lo cavò fuori, il suo consolante mazzo di assegnati governativi, e per la centesima volta, a datare del resto dal giorno avanti, si mise a ricontarli palpando meticolosamente ogni foglietto tra il pollice e l’indice. “Settecentocinquanta rubli di assegnati!” terminò infine con un mezzo bisbiglio. “Settecentocinquanta rubli... una somma cospicua. È una bella sommetta” continuò con voce tremante, un po’ affievolita dal piacere, stringendo il mazzo fra le mani e sorridendo significativamente “una bellissima somma! Una bella somma per chicchessia! Vorrei vedere ora un uomo per il quale questa somma fosse di nessun conto! Una somma simile può condurre lontano un uomo...”
“Che roba è questa però?” pensò il signor Goljadkin “dov’è mai Petruška?” Conservando tuttora quello stesso indumento, gettò un’altra occhiata dietro il tramezzo. Anche questa volta Petruška dietro il tramezzo non c’era, ma c’era soltanto un samovar collocato là sul pavimento, che s’imbizziva, si accalorava e andava fuori di sé, minacciando continuamente di traboccare, e borbottava qualcosa con foga, rapidamente al signor Goljadkin nel suo bizzarro linguaggio tartagliando e scilinguando, probabilmente questo: prendetemi dunque, brava gente, ché io sono del tutto a punto e pronto.
“Che se lo piglino i diavoli!” pensò il signor Goljadkin. “Quel pigro briccone può alla fin fine far uscire un uomo dai gangheri; dove sta bighellonando?” In preda a giusta indignazione, andò nell’anticamera, consistente in un piccolo corridoio, in fondo al quale si trovava l’uscio che dava nell’andito, aprì un tantino quest’uscio e vide il suo servitore circondato da un discreto mucchio d’ogni sorta di razzamaglia servitoresca, domestica e raccogliticcia. Petruška raccontava qualcosa, e gli altri ascoltavano. Evidentemente né il tema della conversazione né la conversazione stessa piacquero al signor Goljadkin. Egli chiamò immediatamente Petruška e tornò nella camera affatto scontento, anzi conturbato. “Questo briccone è pronto a vendere per meno di un groš3 un uomo, e tanto più il padrone” pensò tra sé “e mi ha venduto, mi ha venduto di sicuro, son pronto a scommettere che mi ha venduto per meno di una copeca.4 Ebbene?...”
«Hanno portato la livrea, signore.»
«Indossala e vieni qui.»
Indossata la livrea, Petruška, sorridendo scioccamente, entrò nella camera del padrone. Era camuffato in modo strano fino all’impossibile. Aveva indosso una livrea verde da lacchè, molto usata, con galloni d’oro che si staccavano, evidentemente fatta per un uomo più alto di Petruška di tutto un arscín.5 Nelle mani teneva il cappello, ornato pure di galloni e di penne verdi, e sul ventre aveva uno spadino da lacchè in guaina di cuoio.
Infine, per completare il quadro, Petruška, seguendo la sua prediletta abitudine di essere sempre trasandato, alla casalinga, era anche adesso a piedi scalzi. Il signor Goljadkin esaminò Petruška ben bene e rimase, a quanto pare, soddisfatto. La livrea evidentemente era stata presa a nolo per una qualche solenne occasione. Degno di nota era ancora il fatto che, durante l’esame, Petruška guardava il padrone con una certa strana aria di attesa e ne seguiva con insolita curiosità ogni movimento, il che turbò all’estremo il signor Goljadkin.
«Beh, e la carrozza?»
«Anche la carrozza è arrivata.»
«Per tutto il giorno?»
«Per tutto il giorno. Venticinque, in assegnati.»
«E hanno portato gli stivali?»
«E hanno portato gli stivali.»
«Tanghero! Non puoi dire: li hanno portati, signorsì! Dalli qua.»
Dopo avere espresso il suo piacere che gli stivali andassero bene, il signor Goljadkin chiese il tè e l’occorrente per lavarsi e radersi. Si rase con gran cura e si lavò allo stesso modo, sorseggiò il tè alla svelta e passò alla sua principale, finale vestizione: infilò dei calzoni quasi nuovi; poi un pettino con bottoncini di bronzo, un panciotto a fiorellini molto chiari e graziosi; al collo si annodò una cravatta variopinta di seta, e infine si attillò una divisa di servizio anch’essa nuova e accuratamente ripulita. Vestendosi, guardò più volte con amore i suoi stivali; sollevando ogni momento ora l’uno, ora l’altro piede, ne ammirava la foggia e non faceva che bisbigliar qualcosa a se stesso tra i denti, di tanto in tanto ammiccando ai suoi pensieri con una smorfietta espressiva. Del resto quel mattino il signor Goljadkin era oltremodo distratto, perché quasi non notò i sorrisetti e le smorfie a lui indirizzati da Petruška che lo aiutava a vestirsi. Infine, sbrigato tutto ciò che occorreva, vestitosi di tutto punto, il signor Goljadkin si mise in tasca il suo portafogli, finì di ammirare Petruška che aveva infilato gli stivali ed era in tal modo anche lui perfettamente pronto e, accortosi che tutto ormai era stato fatto e non c’era più da aspettare, corse giù per la scala frettoloso, affaccendato, con una lieve trepidazione di cuore. Una carrozza azzurra da nolo, con su certi stemmi, rotolò rombando verso la scalinata. Petruška, scambiando strizzatine d’occhio con il vetturino e con taluni bighelloni, fece salire il padrone in carrozza; con voce inconsueta e trattenendo a stento un riso melenso, gridò «Via!», balzò sul seggiolino posteriore, e il tutto, con chiasso e frastuono, tintinnando e scricchiolando, rotolò verso la prospettiva Nevskij. L’azzurro equipaggio aveva appena fatto in tempo a uscir dal portone che il signor Goljadkin si fregò convulsamente le mani e si abbandonò a un riso sommesso, silenzioso, come un uomo di carattere gioviale che è riuscito a giocare un bel tiro, un tiro del quale è tutto contento. Del resto, subito dopo l’accesso di allegria, il riso sul volto del signor Goljadkin cedette il posto a una certa quale strana espressione impensierita. Nonostante che il tempo fosse umido e fosco, egli abbassò entrambi i vetri della carrozza e cominciò a osservare inquieto i passanti a destra e a sinistra, prendendo subito un’aria corretta e grave, appena si accorgeva che qualcuno lo guardava. Alla svolta dalla via Litejnaja con la prospettiva Nevskij, sussultò per una spiacevolissima sensazione e, corrugandosi in viso come un poveraccio a cui abbiano inavvedutamente pestato un callo, si strinse frettoloso, e perfino spaventato, nell’angolo più buio della sua carrozza. Il fatto è che aveva incontrato due suoi colleghi d’ufficio, due giovani impiegati del dicastero in cui egli stesso prestava servizio. E quegli impiegati, come parve al signor Goljadkin, erano anch’essi, dal canto loro, in preda a estrema perplessità, avendo incontrato in tali circostanze il loro collega; anzi uno di essi indicò con il dito il signor Goljadkin. Al signor Goljadkin parve che l’altro lo avesse chiamato forte per nome, il che, s’intende, era quanto mai sconveniente per via. Il nostro eroe si rimpiattò e non rispose. “Che ragazzacci!” cominciò a ragionare tra sé. “Beh, che c’è qui poi di così strano? Un uomo in carrozza; uno ha bisogno di andare in carrozza, ed ecco che ha preso una carrozza. Semplicemente marmaglia! Io li conosco: veri ragazzacci che bisogna ancora frustare! Vorrebbero solo giocare a testa e croce, quando pigliano la paga, e andare a zonzo da qualche parte, ecco, questo è affar loro. Io direi a tutti costoro qualche cosetta, solo che...” Il signor Goljadkin non terminò e s’irrigidì. Una briosa pariglia di cavallini di Kazan’, ben nota al signor Goljadkin, attaccata a un calessino elegantissimo, stava rapidamente oltrepassando il suo equipaggio dal lato destro. Il signore seduto nel calessino, avendo scorto per caso il volto del signor Goljadkin, che abbastanza imprudentemente aveva sporto il capo dal finestrino della carrozza, fu anche lui, evidentemente, stupito all’estremo di un incontro tanto inatteso e, chinatosi quanto poté, si mise a guardare con somma curiosità e interesse nell’angolo della carrozza dove il nostro eroe stava per nascondersi in fretta. Il signore in calessino era Andrej Filippovič, caposezione in quel servizio a cui era addetto anche il signor Goljadkin, quale aiuto del proprio capoufficio. Il signor Goljadkin, vedendo che Andrej Filippovič lo aveva perfettamente riconosciuto e lo guardava con tanto d’occhi, e che di nascondersi non c’era possibilità alcuna, arrossì fino agli orecchi. “Inchinarmi o no? Farmi sentire o no? Confessare o no?” pensava, preso da indescrivibile angoscia, il nostro eroe “o fingere che non sono io, ma qualcun altro che mi rassomiglia in modo stupefacente, e guardare come se nulla fosse?” “Appunto non sono io, non sono io – e basta” diceva il signor Goljadkin levandosi il cappello davanti ad Andrej Filippovič e senza staccarne gli occhi. “Io, io non ci son per niente” bisbigliava facendo uno sforzo “non ci sono proprio per niente, non sono affatto io, non sono io – e basta.” Ben presto però il calessino oltrepassò la carrozza, e il magnetismo degli sguardi del superiore venne a cessare. Egli continuò però ad arrossire, a sorridere, a mormorare qualcosa tra sé... “Sono stato uno sciocco a non farmi sentire” pensò infine “avrei dovuto semplicemente far mostra di ardire e di agire con una franchezza non priva di nobiltà: come a dire, è così e così, Andrej Filippovič, sono anch’io invitato al pranzo, e basta!” Poi, ricordatosi a un tratto di aver fatto una topica, il nostro eroe avvampò come una fiamma, aggrottò le sopracciglia e gettò un terribile sguardo di sfida in uno degli angoli anteriori della carrozza, uno sguardo che era destinato a incenerire di colpo tutti i suoi nemici. Finalmente, all’improvviso, per una sorta d’ispirazione, egli tirò il cordone attaccato al gomito del vetturino-cocchiere, fece fermar la carrozza e ordinò di tornare indietro, nella Litejnaja. Il fatto era che il signor Goljadkin aveva subito sentito il bisogno, per propria tranquillità, probabilmente, di dire qualcosa di quanto mai interessante al suo dottore, Krest’jan Ivanovič. E sebbene con Krest’jan Ivanovič egli avesse fatto conoscenza da pochissimo tempo, e precisamente fosse stato da lui una sola volta nella scorsa settimana, a causa di certe sue occorrenze, pure il dottore, si dice, è come il prete: nascondersi a lui sarebbe sciocco, e conoscere il paziente è dover suo. “Ma andrà poi bene tutto questo?” continuava il nostro eroe scendendo di carrozza all’ingresso di una casa di cinque piani della Litejnaja, accanto alla quale aveva fatto fermare la sua carrozza “andrà bene tutto questo? Sarà corretto? Sarà a proposito? Del resto che c’è?” continuava salendo la scala, ripigliando fiato e reprimendo i palpiti del cuore, che in lui aveva l’abitudine di palpitare su tutte le scale altrui “che c’è? io gli parlerò di cose mie, e di biasimevole qui non v’ha nulla... Nascondersi sarebbe sciocco. Io, ecco, in certo qual modo farò finta di non voler nulla, ma che così, di passaggio... E lui vedrà il da farsi.”
Così ragionando, il signor Goljadkin salì al secondo piano e si fermò davanti all’appartamento n. 5, sulla cui porta era collocata una bella targhetta di rame con la scritta:
Krest’jan Ivanovič Rutenšpic
dottore in medicina e chirurgia.
Fermatosi, il nostro eroe si affrettò a dare alla sua fisionomia un aspetto decoroso, disinvolto, non privo di una certa grazia, e si preparò a tirare il cordone del campanello. Preparatosi a tirare il cordone del campanello, rifletté immediatamente e abbastanza a proposito che forse sarebbe stato meglio venire il giorno dopo e che per intanto non c’era una gran necessità. Ma poiché il signor Goljadkin udì a un tratto i passi di qualcuno sulla scala, modificò senza indugio la sua nuova decisione e questa volta, in pari tempo, del resto con l’aria più risoluta, suonò alla porta di Krest’jan Ivanovič.
2
Il dottore in medicina e chirurgia Krest’jan Ivanovič Rutenšpic, uomo assai robusto, per quanto già anziano, dotato di folte sopracciglia e fedine brizzolate, di uno sguardo espressivo, sfavillante, che da sé solo evidentemente scacciava tutte le malattie, e infine di un’importante decorazione, se ne stava seduto quella mattina nel suo studio, nella sua comoda poltrona, beveva il caffè portatogli con le proprie mani dalla consorte, fumava un sigaro e scriveva di tempo in tempo delle ricette ai pazienti. Dopo aver prescritto l’ultima fiala a un vecchietto che soffriva di emorroidi, e accompagnato il vecchietto sofferente a una porta laterale, Krest’jan Ivanovič si era messo a sedere, in attesa della visita successiva. Entrò il signor Goljadkin.
Evidentemente Krest’jan Ivanovič non aspettava affatto, e nemmeno desiderava vedersi dinanzi, il signor Goljadkin, perché all’improvviso si turbò per un istante e involontariamente assunse in viso una cert’aria strana, anzi, si potrebbe dire, scontenta. Poiché, dal canto suo, il signor Goljadkin quasi sempre a sproposito si scoraggiava e si smarriva nei momenti in cui gli accadeva di accostarsi a qualcuno per i suoi affarucci personali, così anche ora, non avendo preparato la prima frase, che in tali casi era per lui una vera pietra d’inciampo, si confuse più che discretamente, mormorò qualcosa – pare, una scusa – e, non sapendo che fare poi, prese una sedia e sedette. Ma, ricordatosi di essersi posto a sedere senza invito, subito sentì la sua scorrettezza e si affrettò a correggere l’errore commesso per ignoranza del mondo e delle belle ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. di Fëdor Dostoevskij
  3. Il sosia
  4. Introduzione di Giovanna Spendel
  5. Cronologia
  6. Bibliografia
  7. IL SOSIA
  8. Postfazione di André Gide
  9. Copyright