L'uovo al cianuro
eBook - ePub

L'uovo al cianuro

e altre storie

  1. 266 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

L'uovo al cianuro

e altre storie

Informazioni su questo libro

L'inesauribile teatro della vita di provincia fra storie drammatiche e boccaccesche, tra misteri e passioni. L'autore è sempre di scena, protagonista palese o mascherato di queste ventitré storie che comprendono alcuni fra i suoi racconti migliori.

Domande frequenti

Sì, puoi annullare l'abbonamento in qualsiasi momento dalla sezione Abbonamento nelle impostazioni del tuo account sul sito web di Perlego. L'abbonamento rimarrà attivo fino alla fine del periodo di fatturazione in corso. Scopri come annullare l'abbonamento.
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Perlego offre due piani: Base e Completo
  • Base è ideale per studenti e professionisti che amano esplorare un’ampia varietà di argomenti. Accedi alla Biblioteca Base con oltre 800.000 titoli affidabili e best-seller in business, crescita personale e discipline umanistiche. Include tempo di lettura illimitato e voce Read Aloud standard.
  • Completo: Perfetto per studenti avanzati e ricercatori che necessitano di accesso completo e senza restrizioni. Sblocca oltre 1,4 milioni di libri in centinaia di argomenti, inclusi titoli accademici e specializzati. Il piano Completo include anche funzionalità avanzate come Premium Read Aloud e Research Assistant.
Entrambi i piani sono disponibili con cicli di fatturazione mensili, ogni 4 mesi o annuali.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì! Puoi usare l’app Perlego sia su dispositivi iOS che Android per leggere in qualsiasi momento, in qualsiasi luogo — anche offline. Perfetta per i tragitti o quando sei in movimento.
Nota che non possiamo supportare dispositivi con iOS 13 o Android 7 o versioni precedenti. Scopri di più sull’utilizzo dell’app.
Sì, puoi accedere a L'uovo al cianuro di Piero Chiara in formato PDF e/o ePub. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2013
Print ISBN
9788804471073
eBook ISBN
9788852031755

L’uovo al cianuro
e altre storie

Sulle onde del Lago Maggiore

Verso le undici del mattino, dopo aver vagato per le camerate in cerca degli ultimi compagni da salutare, andai senza fretta nel corridoio della direzione a leggere i risultati degli scrutini.
Il voto più alto che avevo riportato era un cinque. Figuravo rimandato da una fila di tre e di quattro all’anno dopo, come se di classi non ne avessi già ripetute un paio e potessi invecchiare in quel collegio, dove i miei mi mantenevano a fatica.
Raccoglievo, quella mattina, il frutto di lunghe e tranquille meditazioni che duravano dall’autunno precedente. Meditavo in classe, nello “studio”, durante le ricreazioni e anche nel prezioso tempo delle ripetizioni che mio padre aveva ottenuto di farmi dare, per poche lire l’ora dati i tempi, ma con grave strazio della sua borsa. Meditavo sulle cose più semplici. Su come era fatto nelle sue nervature il legno del banco, sulla composizione chimica dell’inchiostro, sui vari tipi di pennini e di cannucce, sulla differenza tra il grugnito, il nitrito, il raglio o il ruggito, e spesso su cose più vaste ma altrettanto semplici. Nulla m’interessava di più, ad esempio, di certe fisionomie di preti nelle quali leggevo la storia di lunghe penitenze, di faticose vocazioni, di difficili studi o anche soltanto, come su quella del chierico Frigerio, la dura pazienza di un asino che sopporta tutto, in cambio della certezza di trovar pronto ogni giorno pranzo e cena. M’interessava il paesaggio: una grotta che, già miope, decifravo a stento di là del lago dentro lo strapiombo calcareo della rocca d’Angera, o la rupe che sovrasta il borgo di Arona, con le rovine del castello dov’è nato san Carlo Borromeo. Stavo sempre col capo alzato verso le finestre, a scuola o nello “studio”, senza disturbare nessuno.
Le ripetizioni venivano date da preti di fuori, che arrivavano al collegio nelle ore pomeridiane. La mia ora era fra le quattro e le cinque; ma appena ottenuta licenza dal mio prefetto, invece di andare a lezione vagavo per i corridoi e per i cortili finché, non vedendomi comparire, il professore si addormentava o faceva passare qualche altro compagno, di quelli che avevano il puntiglio della promozione. Per non farmi sorprendere da qualche prefetto, appena certo di non essere più atteso, me ne andavo in un vasto locale che avevo scoperto all’ultimo piano del collegio, nell’ala abitata dai superiori. In quel locale avevo adocchiato da tempo un biliardo. Chiudevo dietro di me la porta, prendevo una stecca dalla rastrelliera, toglievo dalle buche le due palle d’avorio e il pallino, poi mi esercitavo pazientemente, imparando le regole del taglio, del rimpallo, del tiro gobbo, dello striscio, del giro e del filotto. Cognizioni che non mi avevano assistito negli esami, come si vedeva dai risultati, scritti in inchiostro rosso di fianco al mio nome e cognome nel corridoio della direzione.
Quel pomeriggio sarebbe arrivato mio padre, coi soldi nel portafoglio per pagare l’ultima rata della retta. Viaggiava dal mattino, sul battello, per venirmi a prendere. Sperava certo, tanto erano state menzognere le mie lettere, che me la fossi cavata con un paio d’esami a ottobre.
Dopo mezzogiorno, avvicinandosi l’ora del suo arrivo, niente più m’interessava: né i compagni in partenza, né l’improvvisa libertà che mi veniva concessa dai superiori, i quali neppure mi vedevano, intenti come erano a salutare e a complimentare i parenti degli alunni promossi. Me ne andai, per ozio, su per una scaletta che non avevo mai praticato, dietro il teatrino del collegio, e finii, attraverso un abbaino, sul tetto delle scuole ginnasiali, dalla parte dove il borgo scende verso il lago. Un belvedere, che se l’avessi trovato prima sarebbe stato il più adatto alle mie meditazioni. Vedevo abbaini, comignoli, passerère, un campanile nano, una loggia con una donna che stendeva dei panni facendo vedere il rilievo di un lungo petto che abbracciavo col pensiero.
Oltre le case si stendeva il lago lucido e tranquillo fra le sponde verdi, fino ai monti del mio paese, perso dietro i promontori.
Dal centro del lago un battello bianco veniva avanti impercettibilmente. Lo vedevo poco più grande d’un insetto e pensavo che a bordo ci doveva essere mio padre: un puntino nero su quel bianco, ma che presto mi sarebbe stato davanti in grandezza naturale, con occhi pieni di dolore e di sorpresa, scagliati dalla tabella dei voti alla mia faccia. Avrebbe scoperto che di suo figlio poteva fare tutt’al più un operaio. Nemmeno un impiegato come lui, ma un giornaliero, un manovale, forse un barbiere, o aiutandolo la fortuna un fotografo, dal momento che a Natale avevo voluto in regalo una grossa macchina fotografica.
Il battello, che era di quelli a nafta, piccoli e malsicuri, diventato tre o quattro volte più grande, mi apparve stracarico e un po’ ingavonato di prua. Quando virò per l’accostata che doveva portarlo a ridosso dell’imbarcadero, lo vidi inclinarsi da un lato e per un attimo sperai che si capovolgesse. Una disgrazia, di quelle che capitano ogni cent’anni, poteva determinarsi quel pomeriggio, nella bonaccia del lago, per qualche falsa manovra. Invece il natante si raddrizzò, fece sentire un tocco di campana nell’afa, e inoltrandosi sotto la linea dei tetti scomparve alla mia vista.
Nel viaggio di ritorno rimasi per più di un’ora seduto sopra una panca di legno della seconda classe, accanto a mio padre che non mi aveva ancora rivolto la parola da quando eravamo usciti dal portone del collegio.
Mentre il battello passava da un porto all’altro, per non pensare ai propositi che mio padre certo elaborava nel suo silenzio, facevo il conto della mia anzianità di navigatore del Lago Maggiore, fin da quando mi portavano dal mio paese, vicino al confine svizzero, a passare le vacanze sopra Lesa, nel villaggio nativo di mia madre. Il viaggio durava cinque ore, e fin d’allora cominciò a fissarsi nella mia mente la successione dei paesi del lago, nell’ordine seguito dalle corse ascendenti e discendenti.
Prima da bambino poi da ragazzo, studente al collegio di Intra o a quello di Arona, per anni ero andato su quelle onde, che mi pareva di conoscere una per una. Avevo stampato nella mente le rive, un quadro ogni paese, con poche ma precise varianti: la tettoia a capanna del porto di Intra, quella a botte della piccola stazione di Oggebio, il bastione di granito dell’imbarcadero di Laveno con le locomotive della Ferrovia Nord che si affacciavano sull’orlo del terrapieno, o il pontile di Cannero addossato alle case, che era l’ultimo scalo prima dell’arrivo.
I grandi battelli a vapore cominciavano già ad andare in disarmo, e se quel giorno ci era toccato per il ritorno il Lombardia, la nave ammiraglia del lago, doveva essere in grazia della stagione turistica.
Avrei voluto, come altre volte, andarmene a guardare dalla balaustra d’ottone il pozzo delle macchine, ma non osavo muovermi. Immaginavo il moto delle bielle e dei volani, la corsa degli stantuffi e la danza dei dischi eccentrici, e pensavo alla gente che guardava il battello dalle rive e lo vedeva lento e maestoso scivolare sulle acque, mentre all’interno era tutta un’agitazione di ruote, una continua inquietudine di vapori compressi e sibilanti, con un fuoco acceso nel cuore. In quel confronto, trovavo un’immagine del mio stato presente. Sembravo, a chi mi guardasse, un giovanetto in gita col proprio genitore, ed ero invece, così presto, a un bivio della mia vita, sul punto d’avviarmi a cattiva sorte e con ormai alle spalle il tempo delle meditazioni.
Segno sicuro del mio malessere interiore era, in quel viaggio, il timore che vagabondando per il battello, quando ne avessi trovato il coraggio, mi andasse a cadere lo sguardo nella sala di prua, sprofondata sotto coperta, dove nessuno sedeva, tanto era buio e maleodorante l’ambiente. Vi dormiva l’equipaggio, quando il battello sostava a Locarno di notte, su materassine di cotone che venivano tolte da uno stambugio, o vi sonnecchiavano sulle loro ceste, al mattino, i contadini del basso lago che portavano la frutta ai mercati di Intra, di Laveno o di Luino.
In quella stiva triangolare che ripeteva la sagoma cuneiforme del Lombardia, contornata di bancali e illuminata fiocamente da una fila di oblò, non dovevo scendere e neppure gettare un’occhiata. Avrei dato motivo a mio padre di sospettarmi informato d’un grave episodio, ancora fresco di cronaca, che mi conveniva ignorare.
Una mia parente poco più che ventenne di nome Emilia, fino a un anno prima creduta la perla delle buone figliole, tanto che mi affidavano a lei perché mi portasse a fare il bagno e a nuotare nel lago, in quella stiva si era coperta di ignominia. Tornando una sera da Intra, sola, era discesa forse non per la prima volta in quel pozzo dove, raggiunta da un battellotto, s’intrattenne con lui, passando in breve ad atti così inverecondi da costituire il delitto di oltraggio al pudore. A scovarli era stato un sottocapo che li appostava da tempo, forse per invidia e malconcepito appetito dei frutti che la mia parente mostrava, e dei quali mi ero accorto anch’io non senza diletto l’anno avanti, sulle spiagge solitarie dove andavamo insieme, con l’incarico, per l’Emilia, di tenermi d’occhio ché non nuotassi al largo o non mi mischiassi a cattive compagnie di segaioli e ladruncoli.
I due, che il battello coi suoi ondeggiamenti e le sue pulsazioni cullava in una nube d’oblio, vennero barbaramente riscossi, svergognati davanti ai passeggeri e consegnati al capitano, che al primo sbarco li passò nelle mani dei Carabinieri.
Ogni accorgimento per salvare l’onore della giovane doveva risultare vano, perché non passarono due mesi che ai due fu giocoforza sposarsi, sia perché la ragazza risultò incinta e sia perché, sposandosi, il battellotto ottenne il perdono della Società di Navigazione e poté riprendere il suo ufficio di bucabiglietti e lanciatore del cavo d’ormeggio ad ogni pontile.
Dell’episodio si parlò per tutto il lago, di porto in porto. Nella mia famiglia nessuno ne fece mai parola. Ma durante le vacanze di Pasqua, alcuni miei coetanei mi aprirono gli occhi e seppi tutto, fino ai minimi particolari.
Non era pertanto tornando dal collegio, e con indosso la mia diversa ma non meno grave ignominia, che potevo lasciarmi scoprire informato di un simile evento. Mio padre, che qualche sospetto della mia malizia doveva covarlo nel cuore, pareva aspettasse soltanto un mio sguardo verso la stiva, per colpirmi alle spalle con qualche terribile domanda e magari accomunarmi in qualche modo alla cattiva sortita della parente dalla quale, certo se ne ricordava, ero sempre stato accarezzato e prediletto.
Dopo un’ora di immobilità, quando il battello lasciata Belgirate si affacciò al golfo Borromeo, ruppi il silenzio ed esclamai: «Farò il fotografo».
Convinto che fosse troppa fortuna, mio padre annuì; ed io, meno oppresso, potei abbandonare per un momento i tristi pensieri dell’avvenire e affondare nel ricordo dell’ultima notte passata in collegio.
Mi ero alzato verso mezzanotte per fare un giro di saluto alle soffitte che praticavo da mesi, nelle ore notturne. Durante l’annata avevo condotto una sistematica esplorazione dei fabbricati del collegio, dalle cantine alle soffitte, profittando dell’insonnia che mi coglieva tra mezzanotte e le due. Come un fantasma, ormai pratico d’ogni andito, andavo in giro in camicia e pantofole avendo cura di non imbattermi in un altro fantasma notturno: l’insonne monsignor Galbusera, fondatore del collegio, ormai novantenne, che di notte circolava per scale e corridoi, anche lui in pantofole, con in testa il tricorno dal fiocco rosso. Lo sentivo da lontano per il lento strascichio dei piedi, e riuscivo ad evitarlo con lunghi giri, rischiando talvolta di farmi bloccare in un corridoio senza uscita o al sommo di una scala, perché il vecchio monsignore se infilava una scala la saliva fino all’ultimo gradino, e se si metteva per un corridoio andava fino a toccare il muro di fondo col naso. Aveva la mania di andare, come le formiche, fino al limite d’ogni percorso.
Le soffitte, alte e intravate, le avevo esplorate alla luce dei mozziconi di candela che rubavo in chiesa, ed ero arrivato a percorrerle anche al buio, con l’aiuto dei riverberi che entravano dai lucernari nelle notti di luna.
L’ultima notte, mentre facevo il giro di congedo da quel mio mondo notturno, inaspettatamente trovai aperta una porticina che metteva alle soffitte del corpo frontale del fabbricato, quello verso la piazza, dove si apriva l’ingresso del collegio e dove vi erano solo uffici ai piani bassi e le camere dei superiori ai piani più alti. All’ultimo piano, dopo una fila di locali vuoti, c’era il salone del biliardo al quale salivo nelle ore di ripetizione. Annaspando per la soffitta sentii infatti da lontano lo schiocco delle palle d’avorio. Guidato da quei rumori, arrivai ad una scaletta di legno che scendeva nel corridoio. Sul pavimento in ombra si ritagliava il rettangolo di luce del salone da biliardo, che aveva la porta spalancata. I colpi delle palle, i tonfi delle stecche lasciate cadere col calcio sul pavimento da giocatori grossolani e un accavallarsi di voci autorevoli, riempivano tutto il corridoio. Il Direttore e altri tre preti, Cavanna, Redaelli e Besta, professori rispettivamente di latino, francese e matematica, stavano giocando. Avanzai nel buio, lentamente, fino al margine del rettangolo di luce, e uno dopo l’altro li vidi, mentre giravano come leoni intorno al biliardo, con lo sguardo fisso alle palle in movimento. I tre professori erano in mutande lunghe e maglietta, mentre il Direttore indossava un vecchio pigiama a righe bianche e verdi che lasciava scorgere, sul davanti, un torace villoso e mammelluto. Abituato a vederli neri fino al collo, non mi persuadevo dello spettacolo e li attendevo nell’angolo dove cacciavo lo sguardo, uno ad uno, per studiarli in quell’abbigliamento notturno, spiegabile col caldo della notte e la prossimità delle loro stanze.
Li guardavo e mi ritraevo, poi tornavo a sporgermi per vedere il gobbo di don Cavanna piegarsi sul biliardo o gli avambracci nerboruti del Direttore che palleggiavano la stecca come un’asta o un giavellotto. Mi rendevo conto che le gambe di don Redaelli erano bianche come quelle di un morto e che don Cavanna, basso e tarchiato, più che per il latino o per il biliardo, era tagliato per l’agricoltura e per il gioco delle bocce. Don Redaelli, professore di francese, in tutta la sua vita d’insegnante e di studioso aveva partorito una sola opera, e non tale da garantirgli la fama: Le chemin le plus court pour apprendre les verbes français. Un quadernetto, stampato da una tipografia locale, e adottato solo da lui.
«Prendete lo Chemin a pagina ventisette» diceva con la sua voce fessa entrando in classe. Oppure a pagina trenta o trentacinque, ma non oltre, perché lo Chemin aveva quaranta pagine in tutto.
Don Redaelli era francofilo e un po’ esaltato. Una volta, dopo averci dettato le parole della Marsigliese, aveva cantato in classe tutta la canzone, infervorandosi al punto di marciare come un matto davanti alla cattedra, agitando le braccia e urlando: «Marchons, marchons!» per poi guardarci come vermi quando, cadutagli l’eccitazione, ci aveva visti freddi e indifferenti.
Al biliardo pareva il migliore della compagnia. Tirava palle schioccanti e al Direttore, che batteva le sponde con tremende mazzate, diceva: «Il biliardo, non è un gioco di forza».
Nel fracasso della partita ci fu un momento di silenzio causato dall’applicazione che occorse al professor Besta, il più piccolo dei quattro, per cavarsela da un tiro difficile. La palla doveva essergli andata a finire in posizione pressoché irraggiungibile, perché vidi il manico della stecca lunga, detta lunghetto, uscire quasi fuori dalla porta mentre il Besta tentava di utilizzarla, per poi abbandonarla e tornare alla sua stecca solita, ma allungandosi sul biliardo e finendo certamente con i piedi per aria. Sentii dire al Cavanna: «Attenzione alla regola: almeno un piede deve toccar terra se no il tiro non è valido».
Mi pareva di vedere il Besta incaponito, che tentava col piede il pavimento ma perdendo contatto con la bilia, per poi riguadagnare i centimetri perduti con l’allungamento del collo e stirandosi sul biliardo come un pollo morto. Lo sentivo ansare e seguivo con l’udito la scena che gli altri si godevano da vicino, ridacchiando e vaticinando che il tiro non sarebbe riuscito. Il tiro invece riuscì, ma col distacco dei piedi dal pavimento. Il che provocò una questione, durante la quale il Redaelli, esacerbato, mandava strilli femminili, intervallati in tono di basso da alcune parole del Direttore, tra le quali distinsi i termini di “stronzo” e “giocatore del cazzo”.
Giocavano, i quattro, schernendosi e oltraggiandosi, fumando dei toscani e sputando per terra, in quella loro vitaccia di semiastinenti, uno più carogna dell’altro ma senza colpa, e solo a causa del loro mestiere sbagliato di professori senza famiglia e di preti senza parrocchia. Giocavano dopo l’ultima giornata di scrutini, avendo già compilata la tabella che un bidello aveva esposto nel corridoio con la riga tutta in rosso riservata alla mia bocciatura totale e irreparabile.
Pensavo, navigando fra Stresa e Baveno e toccando le isole, che non li avrei rivisti mai più, e cercavo di cacciarli dalla mente, aiutandomi con le immagini che mi venivano dalle rive davanti alle quali passava il battello. Quante volte avevo visto i paesi, le ville, gli alberghi, le isole e gli approdi del lago! Cominciavo con lo spiare lo sporgere delle spalle del San Carlone sopra i boschi di Dagnente, poi aspettavo Lesa e...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. L'uovo al cianuro
  3. Introduzione - di Luigi Baldacci
  4. Cronologia
  5. Bibliografia critica essenziale
  6. Nota al testo
  7. L’uovo al cianuro e altre storie
  8. Nota
  9. Copyright