Nuovi argomenti (55)
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Nuovi argomenti (55)

SU PARISE: 8 saggi e 4 poesie

  1. 216 pagine
  2. Italian
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Nuovi argomenti (55)

SU PARISE: 8 saggi e 4 poesie

Informazioni su questo libro

Hanno collaborato: Michele Mari, Raffaele Manica, Goffredo Parise, Silvio Perrella, Gianluigi Simonetti, Thea Rimini, Fabrizio Patriarca, Elisa Davoglio, Giordano Meacci, Terry Marocco intervista Giosetta Fioroni, Giorgio van Straten, Silvia Colangeli, Luis Devin, Antonio Monda, Nino De Vita, Silvia Bre, Matteo Fantuzzi, Silvia Giagnoni, Marco Debenedetti, Andrea Caterini.

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Informazioni

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SU PARISE

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PREMESSA

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di Raffaele Manica

Quanto è presente Goffredo Parise nella letteratura di oggi? Un esperimento di risposta può essere la sezione di questo fascicolo di «Nuovi Argomenti». Si tratta di una serie di saggi nati autonomamente uno dall’altro che, in un breve giro di tempo, sono stati proposti alla nostra rivista. Ad essi si sono poi affiancati contributi sollecitati, ma la risposta alla domanda sta proprio nel fatto che studiosi soprattutto di giovane età si siano trovati, praticamente nello stesso momento, a pensare e a scrivere di Parise come per una qualche necessità. Ognuno pensava a Parise per conto suo, segno certo di una presenza; e ognuno ha fatto riferimento a «Nuovi Argomenti», come fosse il luogo idoneo – o almeno uno dei luoghi idonei – a ragionare di Parise.
Parise è stato ed è uno scrittore appassionato delle idee, ma non ha mai distorto le sue idee fino a volerne fare un innaturale sistema di pensiero e di conoscenza. Ogni pensiero e ogni conoscenza, infatti, gli arrivava da una sperimentazione di realtà, da un confronto con le cose e con le vite. Tanto è vero che nemmeno la realtà è stata una sua ideologia. Di ideologie non ne aveva, se non quella di guardare le cose e giudicarle direttamente, a partire dal bagaglio che solo la vita gli aveva fornito. La realtà andava rappresentata o inventata: l’interpretazione era una conseguenza, perciò, non una premessa. E ciò in momenti di ideologie dominanti e trionfanti. Ma Parise sapeva bene che anche il rifiuto o l’assenza di ideologie poteva scivolare fino a diventare ideologia. Un rimedio fu per lui parlare del potere come di una delle tante metafore dalle quali si pongono ostacoli sulla via del vivere. E non occasionalmente da quegli stessi ostacoli arrivava l’energia per affrontarli e rimetterli nel circuito dell’esperienza, come un arricchimento – non un peso – del bagaglio. Non è un paradosso, ma una magia: per quanto ricco fosse, il bagaglio di Parise, almeno per i suoi lettori, appare sempre come un bagaglio leggero.
L’ultima ristampa delle sue opere, che arriva presso Adelphi, ripropone un romanzo variamente controverso alla sua uscita e che oggi va riaccolto con libertà di giudizio. Così è parso di aver fatto su «Alias» dell’11 giugno 2011.
Quando pubblica Il padrone, nel 1965, Parise ha alle spalle un esordio visionario e folgorante (Il ragazzo morto e le comete), un successo di pubblico (Il prete bello), altri romanzi e molte pagine consegnate alle stampe, che ne hanno presto disegnato la fisionomia d’autore. E tutti i suoi tratti si accentuano adesso con quel tipico misto di tenerezza e ferocia, di immensa pietà e di intrattenibile spietatezza che, quale ne sia l’oggetto momentaneo, è il suo connotato più tipico (e, variamente bilanciandosi e proporzionandosi nel dosaggio, arriverà fino agli esiti ultimi della sua vita interrotta prima dei sessant’anni, fino ai Sillabari e al postumo L’Odore del sangue; ma tipico anche dello scrittore di viaggio e di fatti umani e civili, che seppe raccontare col tocco di una farfalla).
Abbiamo col Padrone il massimo della percezione fisica del mondo – Parise è sempre scrittore fisico – riportata a un’elaborazione mentale, al modo inquietante e grottesco della tradizione kafkiana, comico incluso: fino a spremerne il senso, che non si lascia né cogliere né raccogliere e da ciò trova la sua forza. Per esempio, Il padrone ha un doppio ingresso e due uscieri: l’uomo-scimmia e l’uomo di una «muta concentrazione vegetativa». Darwin letto su sollecitazione di Gadda a inizio anni Sessanta è, si crede, non solo l’ispiratore della vicenda del romanzo come lotta per la vita dal tratto spietato, ma è la sollecitazione a leggere il mondo attraverso la sua evidenza: solo dalla percezione dell’evidenza possono emergere i tratti misteriosi delle cose, misteriosi perfino nella loro statistica prevedibilità. E per questo è da considerare una lettura di Darwin compiuta tenendo accanto al suo libro i libri di Freud, come in un gioco di specchi e di innumerevoli rimandi dalla fisicità evidente alla fisicità interiore (a ciò aggiungendo le consuete tracce argomentanti la sessualità, da Parise risolte nel Padrone ora con interrogatori brutali di tipo moraviano, ora con considerazioni biochimiche: odori, secrezioni, contratte tattilità).
Il darwinismo si protrarrà variamente. Le figure che stanno sulla scena del Padrone sono per progetto ritratte da Parise non nella mancanza di vitalità, ma in quanto sorrette da una vitalità male indirizzata: in ciò consone allo svolgimento del romanzo, tali figure sono l’indice della sua riuscita. Ma da che parte battesse il cuore di Parise e dove si orientasse il suo fiuto lo dice il ritratto della forza vitale del suo maestro. Quattro anni dopo Il padrone, Parise dedicherà a Giovanni Comisso una pagina fremente. E il ritratto della parte animale di Comisso dirà: «Il corpo di Giovanni Comisso in piena salute era quello di un contadino mediatore di sementi con nuca ampia e tempie rasate, un animale lustro, caldo e potente, una verdura grassa come i cavoli, le verze e l’insalata che sbocciano e fioriscono negli orti confinanti con le mura dei cimiteri, dove la terra è molto feconda per la vicinanza del concime umano». Ovvero: la lettura darwinista del mondo si completava cogliendone il tratto di vitalità ben presente e ben indirizzata.
Ma se le figure del Padrone hanno tutte l’impronta dell’origine animale, esse risultano ferite dalla natura umana con cui si dibattono (quasi quanto il contrario: un’umanità offesa dal rigurgito animale), assumendo tratti lombrosiani che scivolano in un determinismo attorcigliato, sperduto dentro paesaggi occasionalmente fantascientifici, che si sottraggono al tempo e dipingono uno stato dell’anima. Si veda il padrone Max, malinconico e arrogante fino al capriccio e all’arbitrio, e perciò funambolo oscillante sopra un abisso di paradossale verità, che dalla sua tana interiore, porgendo la mano-zampa, rivolge con voce di roditore considerazioni di involuta e opportunistica morale al bestiario pop di volpi ricci donnole che lo circonda, uno zoo bloccato dall’istinto di conservazione (quanti crimini si possono compiere in nome della morale; quanto disprezzo si può lasciar credere di rivolgere al denaro, se lo si ha in abbondanza come i genitori di Max: Uraza, la donna dalla criniera al vento, e il dottor Saturno suo marito, che osserva come fosse vero: «i soldi sono cacca. Hai capito? Ricordalo. Te lo dico io che lo so»). Di fronte a padron Max, il giovane che dalla provincia arriva pieno di misere speranze in città diventa interlocutore ideale per sottomissione e cedevolezza, proprio nel momento in cui crede di porsi esemplarmente di fronte al mondo che gli sfugge: quanto ironico il calco shakespeariano che Parise gli assegna («Ma è maggior dignità andarsene, mostrando in questo modo sciocca indifferenza che non porterà a nulla di buono, o resistere stando seduto?»), facendone un Amleto fuori contesto, di esagerate e frustrate sottigliezze, e un Candido che vive nel migliore dei mondi possibili, un piccolo introflesso maestro del fraintendimento che soccombe al maestro Max al quale si è consegnato: la scena sadomasochistica lo esige («non verrò punito mai perché io stesso mi sono inflitto, da solo, un vasto margine di possibili punizioni»).
Un Parise che ride per umor nero, per travasi di bile, nell’interpretazione di un incubo dove si raduna il peggio del tempo – una cecità intonata a commedia – e che dissolve le ragioni di ogni potere fino alle ultime fibre. A chi ricordi un film del primo Olmi, Il posto (1961) – più ancora che la cosiddetta letteratura industriale –, Il padrone sa mostrarsi come il rovescio cupo, di inquieta esattezza, dagli anni del boom al crepuscolo, alla vigilia della notte, quando sono ancora vive le illusorie luminescenze della prima società dei consumi, condensate nel manifesto dai colori mutevoli escogitato dal pittore Orazio per la ditta del padrone. Passato quasi mezzo secolo, mentre si smarriscono i riferimenti e le allusioni che diedero corpo alla sua figura, Max è ancora lì. Lo si direbbe un classico che irrompe variamente nel correre dei nostri giorni.
Una versione precedente e ridotta di questo saggio è apparsa su «Alias».

4 POESIE

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di Goffredo Parise

Petote
Non fu la vera lady Duff
tua madre
né la sua controfigura
Coppelia
ma Oca, l’italiana
Però, che salto.
Dalle coperte di murmel
al cencioso stuoino
di finto Samarcanda
Non ti fu dato
di sgolarti a volpi
sotto le querce
come il tuo bisnonno
Watteau Snuff
Non erano per te i boschi
del criptico Gilles
a te toccavano
pochi metri quadri
per afferrare al polpaccio
o mordere alla caviglia
due diversi odori
di classi sociali
Per questo e altro
il tuo nome fu Petote
Petote.
un quattordicenne
rachitico
dai piedi palmati
un aio rassegnato
che ebbe vita breve
Ma, dicono i
testimoni
di così poco spazio vitale
di buon cuore
2.4.86
Rabbino
Nel fumogeno antro
di terza classe
prese posto un uomo
con abiti e cappello nero
barba e riccioli di
fiamma
ai viaggiatori volle
imporre discrimine?
Nessuno può dirlo
ma a chi attaccò bottone
l’uomo d’oriente rispose
no hay de Kabbalar
Più tardi aprì una fessura
della sua borsa nera
da medico
per cavare un untume kosher
Fu un attimo
un bambino vide brillare
all’interno
bisturi e pinze
2.4.86
Sacerdote
Teosofo loico
con la scusa dell’omosex
ti facesti teologo
del Santo cugino
Non sei né l’uno né l’altro
né il terzo
Allah non è il tuo Dio
se non riassume
il fallum dicere
Piuttosto somigli
ma neppur questo è certo
a quel baronetto truffaldino
che a Pechino
si copriva il volto
al passaggio
della discoperta
veritas occidentale
No. Jago no.
Troppo grande.
Assassino di carambola
Il tuo Dio sono le formiche
«incuriosite
allo spargimento di sperma»
(Sic.)
2.4.86
Ex tempore
Che il maestro Buganza
fosse il padre di Juliet
parve inaudito al povero Bertadorn
eppure li rami si intrecciano
senza badare né al prima
né al dopo
la cronologia s’arruffa
del grande William
nasce prima la bottiglia
e poi la pera
così fugge l’ora
lo stupore di Bertadorn
la coeva di Romeo
il seme del trombettino
Chi può dire che
nell’autore di «Nina»
non vi fosse mescla
di alto e di basso
forse di sublime?
Nel Buganza la storia
non incalza
Nota ai testi
In un fascicolo che ha l’ambizione di dar conto dei diversi aspetti della vita intellettuale di Goffredo Parise, dal rapporto con l’editoria a quello con il cinema, dalla narrativa al reportage, è sembrato giusto e opportuno concedere uno spazio alla breve esperienza poetica parisiana.
Tra il 30 marzo e il 21 maggio 1986, malato e prossimo alla morte, Parise dettò trenta poesie a Giosetta Fioroni e Omaira Rorato. Si tratta di componimenti brevi, difficili da interpretare, pubblicati nel 1998 in un’edizione Rizzoli curata da Silvio Perrella. Tanto Perrella stesso, nell’introduzione al libro, quanto Cesare Garboli (che ebbe modo di occuparsi delle poesie di Parise nel 1989 per «Mercurio», allora supplemento culturale di «Repubblica») hanno sostenuto, e non a torto, la marginalità di questa esigua produzione poetica nel corpus parisiano. Ma di recente Dalila Colucci, una giovane studiosa dell’Università di Pisa, ha avuto modo di lavorare sugli autografi delle poesie per la sua tesi di laurea, fornendo una versione leggermente modificata dei testi, eliminando alcuni refusi e errori di trascrizione, e preparando un lungo commento alle poesie, che dovrebbe essere edito alla fine di quest’anno o all’inizio del 2012. Nonostante qualche entusiasmo eccessivo (ma giustificato dall’età e dalla passione per il proprio oggetto di tesi) il commentario di Colucci, di cui abbiamo avuto modo di leggere in anteprima dei brani, è uno strumento utile, che permette di far luce sul trobar clus di Parise, rintracciando riferimenti incrociati e sciogliendo le formule più oscure, individuando connessioni con gli aspetti più rilevanti della sua attività letteraria. Ci appoggiamo dunque ad alcune sue osservazioni per fornire una veloce guida ai testi.
Due delle quattro poesie ripubblicate presentano varianti, peraltro minime, rispetto all’edizione Rizzoli. Al quindicesimo verso di Rabbino «kosher» corregge «kasher» dell’edizione del 1998; rilevanza maggiore ha l’emendazione di «Juliette» (1998) al secondo verso di Ex tempore in «Juliet», così che sia ristabilito il riferimento shakespeariano, completato dall’accenno a Romeo al tredicesimo verso.
Petote è la prima di due poesie dedicate al fox-terrier che fece compagnia a Giosetta Fioroni e Goffredo Parise nel suo ultimo anno di vita. Per Colucci è un buon esempio del metodo combinatorio seguito da Parise nella composizione poetica, in questo caso l’intreccio tra la genealogia reale del cane (la madre «Oca», il bisnonno «Snuff») e una genealogia mitica, artistica e letteraria (l’hemingwayana «Lady Duff», l’allusione a Jean-Antoine Watteau e il suo quadro «Gilles»).
Il dittico ‘religioso’ Rabbino-Sacerdote contrappone una figura positiva e una negativa. Con validi argomenti Colucci mostra come il «sacerdote» oggetto della satira parisiana sia da identificarsi con Nico Naldini, «teologo del Santo cugino» Pier Paolo Pasolini. I versi finali – rielaborazione di un brano del volume di Naldini Nei campi del Friuli (la giovinezza di Pasolini) – chiosati da Parise con un «(Sic.)» permettono l’identificazione certa. Il «rabbino» invece, polo positivo del dittico, secondo Colucci non sarebbe da ricondursi a un individuo reale ma semplicemente simboleggerebbe il poeta lirico, apparentemente chiuso ma in realtà capace della luce improvvisa di epifanie che brillano attraverso piccole «fessure» (Colucci accosta gli ultimi quattro versi della poesia a un brano giornalistico che Parise dedicò a Montale nel 1967, in occasione della nomina di questo a senatore a vita – ma i suoi argomenti qui non hanno efficacia conclusiva).
Infine Ex tempore si presenta come un pastiche metaletterario in cui vengono sovvertite le genesi e le filiazioni, sconvolte le divisioni tra i generi e l’ordine cronologico con cui sono apparse opere molto diverse tra loro per registro e valore (come appare già dai primi versi «Che il maestro Buganza fosse il padre di Juliet parve inaudito al povero Bertadorn», in cui, in ordine inverso rispetto alla cronologia reale, compaiono «il maestro Buganza» dalla commedia musicale di Arturo Rossato e Gian Capo Nina, no’ far la stupida! (1922), Juliet per Giulietta Capuleti e, in un’inconsueta crasi, Bernart de Ventadorn – sconvolgimento esplicitamente chiarito nella successiva strofa). Così Ex tempore, in cui la vis combinatoria è tanto decisa e dichiarata, diviene una delle poesie-simbolo del breve canzoniere parisiano.
C.C.

LE PAROLE DEMOCRATICHE
Parise risponde ai lettori

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di Silvio Perrella

Gli anni Sett...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Nuovi argomenti (55)
  3. DIARIO Michele Mari
  4. SU PARISE
  5. SCRITTURE
  6. RIFLESSIONI
  7. Notizie biografiche
  8. Copyright