Hanno collaborato: Michele Mari, Raffaele Manica, Goffredo Parise, Silvio Perrella, Gianluigi Simonetti, Thea Rimini, Fabrizio Patriarca, Elisa Davoglio, Giordano Meacci, Terry Marocco intervista Giosetta Fioroni, Giorgio van Straten, Silvia Colangeli, Luis Devin, Antonio Monda, Nino De Vita, Silvia Bre, Matteo Fantuzzi, Silvia Giagnoni, Marco Debenedetti, Andrea Caterini.
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Quanto è presente Goffredo Parise nella letteratura di oggi? Un esperimento di risposta può essere la sezione di questo fascicolo di «Nuovi Argomenti». Si tratta di una serie di saggi nati autonomamente uno dall’altro che, in un breve giro di tempo, sono stati proposti alla nostra rivista. Ad essi si sono poi affiancati contributi sollecitati, ma la risposta alla domanda sta proprio nel fatto che studiosi soprattutto di giovane età si siano trovati, praticamente nello stesso momento, a pensare e a scrivere di Parise come per una qualche necessità . Ognuno pensava a Parise per conto suo, segno certo di una presenza; e ognuno ha fatto riferimento a «Nuovi Argomenti», come fosse il luogo idoneo – o almeno uno dei luoghi idonei – a ragionare di Parise.
Parise è stato ed è uno scrittore appassionato delle idee, ma non ha mai distorto le sue idee fino a volerne fare un innaturale sistema di pensiero e di conoscenza. Ogni pensiero e ogni conoscenza, infatti, gli arrivava da una sperimentazione di realtà , da un confronto con le cose e con le vite. Tanto è vero che nemmeno la realtà è stata una sua ideologia. Di ideologie non ne aveva, se non quella di guardare le cose e giudicarle direttamente, a partire dal bagaglio che solo la vita gli aveva fornito. La realtà andava rappresentata o inventata: l’interpretazione era una conseguenza, perciò, non una premessa. E ciò in momenti di ideologie dominanti e trionfanti. Ma Parise sapeva bene che anche il rifiuto o l’assenza di ideologie poteva scivolare fino a diventare ideologia. Un rimedio fu per lui parlare del potere come di una delle tante metafore dalle quali si pongono ostacoli sulla via del vivere. E non occasionalmente da quegli stessi ostacoli arrivava l’energia per affrontarli e rimetterli nel circuito dell’esperienza, come un arricchimento – non un peso – del bagaglio. Non è un paradosso, ma una magia: per quanto ricco fosse, il bagaglio di Parise, almeno per i suoi lettori, appare sempre come un bagaglio leggero.
L’ultima ristampa delle sue opere, che arriva presso Adelphi, ripropone un romanzo variamente controverso alla sua uscita e che oggi va riaccolto con libertà di giudizio. Così è parso di aver fatto su «Alias» dell’11 giugno 2011.
Quando pubblica Il padrone, nel 1965, Parise ha alle spalle un esordio visionario e folgorante (Il ragazzo morto e le comete), un successo di pubblico (Il prete bello), altri romanzi e molte pagine consegnate alle stampe, che ne hanno presto disegnato la fisionomia d’autore. E tutti i suoi tratti si accentuano adesso con quel tipico misto di tenerezza e ferocia, di immensa pietà e di intrattenibile spietatezza che, quale ne sia l’oggetto momentaneo, è il suo connotato più tipico (e, variamente bilanciandosi e proporzionandosi nel dosaggio, arriverà fino agli esiti ultimi della sua vita interrotta prima dei sessant’anni, fino ai Sillabari e al postumo L’Odore del sangue; ma tipico anche dello scrittore di viaggio e di fatti umani e civili, che seppe raccontare col tocco di una farfalla).
Il darwinismo si protrarrà variamente. Le figure che stanno sulla scena del Padrone sono per progetto ritratte da Parise non nella mancanza di vitalità , ma in quanto sorrette da una vitalità male indirizzata: in ciò consone allo svolgimento del romanzo, tali figure sono l’indice della sua riuscita. Ma da che parte battesse il cuore di Parise e dove si orientasse il suo fiuto lo dice il ritratto della forza vitale del suo maestro. Quattro anni dopo Il padrone, Parise dedicherà a Giovanni Comisso una pagina fremente. E il ritratto della parte animale di Comisso dirà : «Il corpo di Giovanni Comisso in piena salute era quello di un contadino mediatore di sementi con nuca ampia e tempie rasate, un animale lustro, caldo e potente, una verdura grassa come i cavoli, le verze e l’insalata che sbocciano e fioriscono negli orti confinanti con le mura dei cimiteri, dove la terra è molto feconda per la vicinanza del concime umano». Ovvero: la lettura darwinista del mondo si completava cogliendone il tratto di vitalità ben presente e ben indirizzata.
Un Parise che ride per umor nero, per travasi di bile, nell’interpretazione di un incubo dove si raduna il peggio del tempo – una cecità intonata a commedia – e che dissolve le ragioni di ogni potere fino alle ultime fibre. A chi ricordi un film del primo Olmi, Il posto (1961) – più ancora che la cosiddetta letteratura industriale –, Il padrone sa mostrarsi come il rovescio cupo, di inquieta esattezza, dagli anni del boom al crepuscolo, alla vigilia della notte, quando sono ancora vive le illusorie luminescenze della prima società dei consumi, condensate nel manifesto dai colori mutevoli escogitato dal pittore Orazio per la ditta del padrone. Passato quasi mezzo secolo, mentre si smarriscono i riferimenti e le allusioni che diedero corpo alla sua figura, Max è ancora lì. Lo si direbbe un classico che irrompe variamente nel correre dei nostri giorni.
Una versione precedente e ridotta di questo saggio è apparsa su «Alias».
In un fascicolo che ha l’ambizione di dar conto dei diversi aspetti della vita intellettuale di Goffredo Parise, dal rapporto con l’editoria a quello con il cinema, dalla narrativa al reportage, è sembrato giusto e opportuno concedere uno spazio alla breve esperienza poetica parisiana.
Tra il 30 marzo e il 21 maggio 1986, malato e prossimo alla morte, Parise dettò trenta poesie a Giosetta Fioroni e Omaira Rorato. Si tratta di componimenti brevi, difficili da interpretare, pubblicati nel 1998 in un’edizione Rizzoli curata da Silvio Perrella. Tanto Perrella stesso, nell’introduzione al libro, quanto Cesare Garboli (che ebbe modo di occuparsi delle poesie di Parise nel 1989 per «Mercurio», allora supplemento culturale di «Repubblica») hanno sostenuto, e non a torto, la marginalità di questa esigua produzione poetica nel corpus parisiano. Ma di recente Dalila Colucci, una giovane studiosa dell’Università di Pisa, ha avuto modo di lavorare sugli autografi delle poesie per la sua tesi di laurea, fornendo una versione leggermente modificata dei testi, eliminando alcuni refusi e errori di trascrizione, e preparando un lungo commento alle poesie, che dovrebbe essere edito alla fine di quest’anno o all’inizio del 2012. Nonostante qualche entusiasmo eccessivo (ma giustificato dall’età e dalla passione per il proprio oggetto di tesi) il commentario di Colucci, di cui abbiamo avuto modo di leggere in anteprima dei brani, è uno strumento utile, che permette di far luce sul trobar clus di Parise, rintracciando riferimenti incrociati e sciogliendo le formule più oscure, individuando connessioni con gli aspetti più rilevanti della sua attività letteraria. Ci appoggiamo dunque ad alcune sue osservazioni per fornire una veloce guida ai testi.
Due delle quattro poesie ripubblicate presentano varianti, peraltro minime, rispetto all’edizione Rizzoli. Al quindicesimo verso di Rabbino «kosher» corregge «kasher» dell’edizione del 1998; rilevanza maggiore ha l’emendazione di «Juliette» (1998) al secondo verso di Ex tempore in «Juliet», così che sia ristabilito il riferimento shakespeariano, completato dall’accenno a Romeo al tredicesimo verso.
Petote è la prima di due poesie dedicate al fox-terrier che fece compagnia a Giosetta Fioroni e Goffredo Parise nel suo ultimo anno di vita. Per Colucci è un buon esempio del metodo combinatorio seguito da Parise nella composizione poetica, in questo caso l’intreccio tra la genealogia reale del cane (la madre «Oca», il bisnonno «Snuff») e una genealogia mitica, artistica e letteraria (l’hemingwayana «Lady Duff», l’allusione a Jean-Antoine Watteau e il suo quadro «Gilles»).
Il dittico ‘religioso’ Rabbino-Sacerdote contrappone una figura positiva e una negativa. Con validi argomenti Colucci mostra come il «sacerdote» oggetto della satira parisiana sia da identificarsi con Nico Naldini, «teologo del Santo cugino» Pier Paolo Pasolini. I versi finali – rielaborazione di un brano del volume di Naldini Nei campi del Friuli (la giovinezza di Pasolini) – chiosati da Parise con un «(Sic.)» permettono l’identificazione certa. Il «rabbino» invece, polo positivo del dittico, secondo Colucci non sarebbe da ricondursi a un individuo reale ma semplicemente simboleggerebbe il poeta lirico, apparentemente chiuso ma in realtà capace della luce improvvisa di epifanie che brillano attraverso piccole «fessure» (Colucci accosta gli ultimi quattro versi della poesia a un brano giornalistico che Parise dedicò a Montale nel 1967, in occasione della nomina di questo a senatore a vita – ma i suoi argomenti qui non hanno efficacia conclusiva).
Infine Ex tempore si presenta come un pastiche metaletterario in cui vengono sovvertite le genesi e le filiazioni, sconvolte le divisioni tra i generi e l’ordine cronologico con cui sono apparse opere molto diverse tra loro per registro e valore (come appare già dai primi versi «Che il maestro Buganza fosse il padre di Juliet parve inaudito al povero Bertadorn», in cui, in ordine inverso rispetto alla cronologia reale, compaiono «il maestro Buganza» dalla commedia musicale di Arturo Rossato e Gian Capo Nina, no’ far la stupida! (1922), Juliet per Giulietta Capuleti e, in un’inconsueta crasi, Bernart de Ventadorn – sconvolgimento esplicitamente chiarito nella successiva strofa). Così Ex tempore, in cui la vis combinatoria è tanto decisa e dichiarata, diviene una delle poesie-simbolo del breve canzoniere parisiano.