Hanno collaborato: Emanuele Trevi, Roberto Saviano, Sandro Veronesi, Melania Mazzucco, Alessandro Leogrande, Lorenzo Pavolini, Elisa Davoglio, Federica Manzon, Vincenzo Pardini, Marino Magliani, Alain Elkann, Gaia Manzini, Roberto Deidier, Raúl Brasca, Massimo Gezzi, Franco Sepe, Slavoj Zizek, Giuseppe Antonelli, Mauro F. Minervino, Carlo Mazza Galanti.
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Ventre e culatte incrostate di concime, dopo l’inverno nella stalla, Broggi venne portato in un prato, sul declivio dell’altopiano. Ci arrivò trascinandosi sulle zampe malferme, gli zoccoli che sembravano lunghe ciabatte di gomma. Sebbene nato deforme, il padrone non l’aveva venduto vitello: intendeva farlo crescere e ingrassare per smerciarlo al mattatoio. Broggi era grosso e tozzo, una bella testa come il fratello, selezionato per la monta. Anche lui avrebbe montato. Quando portavano le vacche in estro, e il padrone menava fuori il fratello, s’alzava sulle ginocchia mugghiando basso, tra affanno e lamento. Poi sfoderava il nerbo, rosso e guizzante, un lungo pugnale che esce e rientra nella guaina. Ma non gli restava che ascoltare le voci degli uomini, che elogiavano l’abilità cui il fratello infilzava la vacca di turno. Gemelli, avevano due anni. (A chiamarlo Broggi erano stati i bifolchi, in memoria di un reduce, le gambe mutilate fin quasi alle natiche nella guerra del 1915-18, che si trascinava con l’ausilio delle braccia azionandole a mo’ di remi, il corpo imbracato in un contenitore di cuoio. Una granata l’aveva falciato sul Carso. Ma lui non parlerà quasi mai di questo. Raccontava invece i suoi sogni dove, sempre, faceva lunghe corse o scalava montagne.) Proprietario del toro era Lionetto Tertoli Velotti, che intendeva disfarsene durante l’autunno.
Lionetto desinava a mezzogiorno. Il sole a perpendicolo sul podere.
Alto nel cielo, non molto lontano da casa, si alzava un ciliegio, carico di frutti che nessuno raccoglieva. Lui, per via dell’anca, non sarebbe riuscito a inerpicarsi fin lassù. Quelle cerage non venivano raccolte dal tempo di suo padre che, invece, s’arrampicava bene, nonostante la mole pesante. Scalzo, una fune legata alla cintura, conquistava il tronco palmo palmo. Alla fune, la moglie appendeva i canestri che, una volta pieni, lei avrebbe portato al mercato, poggiandoli sulla testa, sopra il corologlioro. Temeva molto suo marito. Irascibile, non avrebbe esitato a mollarle ceffoni si fosse ribellata a un ordine, oppure non avesse atteso al lavoro. Stesso atteggiamento lo teneva nei confronti dei figli. I quali, quando la madre finì al manicomio, vennero affidati agli zii materni, che abitavano nella parte bassa del paese, in un agglomerato di case e di capanne proprie. Il podere, la forza di quella società : chi possedeva molta terra aveva il dominio su chi ne possedeva poca e, ancora di più, su chi non ne possedeva nessuna, e viveva di mezzadria. Gli zii di Lionetto erano discreti possidenti; ognuno aveva ereditato casa e terreno, sì da poter essere autonomi. Sposata una donna molto ricca, un suo zio divenne latifondista. Non per questo fu felice. Stupida e ridicola, la moglie gli dette due figli assai minorati. Mentre lui era un uomo intelligente, che aveva studiato in seminario con ottimi risultati. E vivere con quella donna, con la quale il dialogo si esauriva nei fatti semplici e animali della vita, finì col gettarlo in uno stato di frustrazione. Cominciò a bere vino e scrivere satire contro i paesani. Per questa sua condotta finirà davanti i giudici. Ma non riuscirono a incastrarlo: a suo carico non verranno mai rilevate prove concrete. Di questo, menava gran vanto, irridendo accusatori e carabinieri.
Lionetto, quando abitò con zio e cugini, subì un’infestazione di pidocchi, e dovette raparsi la cute. Inoltre, sull’occipitale della scatola cranica gli s’era formato un gonfiore purulento. Le zie, temendo che potesse recargli danno al cervello, chiamarono il dottore, che giunse dalla mulattiera in sella all’asino, un meriggio di canicola, tra mosche e canto di cicale. La campagna era stordita da un sole che toglieva il respiro. Lionetto, piccolo e magro, la testa gonfia per il cecchio, fu di fronte al medico, in camicia bianca e sguardo lunatico. Che, osservatagli il gonfiore, chiese un paio di forbici o un ferro da calza. Gli dettero le forbici. Accostatele alla fiamma del fornello qualche attimo, le tuffò in un lavamano d’acqua. Poi, rivolto a una delle zie, le ordinò di tenere fermo il pidocchioso. In un baleno gli incise l’ascesso, facendo uscire sangue rappreso e materia. Lionetto non emise un lamento. L’insensibilità al dolore sarà una costante della sua vita. Anche quando suo padre lo percuoteva, lui non si lamentava. Una sera che mormorava considerazioni sul paiolo appeso alla catena del focolare, che la fiamma sembrava facesse muovere, il padre gli allungò...