Hanno collaborato: Alberto Arbasino, Raffaele Manica, Vincenzo Pardini, Elisa Ruotolo, Marino Magliani, Angelo Australi, Caterina Carone, Alessandro Zaccuri, Ernesto Aloia, Vittorio Giacopini, Flavio Santi, Blanca Varela, Antonello Borra, Vanni Pierini, Azzurra D'Agostino, Francesco Longo Carlo Mazza Galanti, Attilio Scarpellini, Graziano Dell'Anna.
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Era l’epoca in cui al bar del Santa Isabel servivano ancora il miglior mojito dell’isola. Ci ritrovavamo lì tutte le sere e ogni volta ci stupivamo per l’abilità con cui don Attilio riusciva a centellinare il suo cocktail, facendolo durare il tempo esatto della conversazione. Non si trattava di uno stratagemma per risparmiare sul conto: don Attilio in quell’hotel ci abitava, almeno nei lunghi periodi in cui, lasciate le piantagioni, decideva di trasferirsi all’Avana. La vita del latifondista lo aveva annoiato da sempre e il tabacco, per lui, serviva unicamente ad alimentare la rendita che gli faceva da vitalizio. Gli altri possidenti non perdevano occasione per pronosticargli la catastrofe: se vai avanti così perderai tutto, dicevano, con pochi spiccioli qualcuno si prenderà le terre che la tua famiglia si è conquistata a fatica.
L’affermazione non era solamente incongrua rispetto alle peripezie erotiche di doña Inez, ma rischiava anche di risultare offensiva nei nostri confronti. Con l’unica eccezione di don Attilio medesimo, infatti, tutti coloro che sedevano nel giardino del Santa Isabel erano viaggiatori, tali si consideravano e da quella definizione traevano vanto. A cominciare da me, che in estate lasciavo il nostro studio notarile a Spaccanapoli per una crociera d’istruzione in Marocco, Svezia o Tasmania. L’itinerario cambiava di anno in anno, rimaneva però immutata la meta finale: Cuba, L’Avana, il giardino del Santa Isabel, le conversazioni scandite dal mojito di don Attilio.
«E il risultato quale sarebbe? Un mucchio di panni sporchi? Una giacca sgualcita?», aveva contrattaccato don Attilio. Per l’eleganza aveva un’autentica fissazione. Indossava soltanto completi di lino bianco, che riusciva a conservare immacolati anche nelle situazioni più inzaccherate. Una volta un cameriere aveva rovesciato sul nostro tavolo un’intera comanda di caffè e pasticcini. Connolly era stato raggiunto in pieno e aveva bestemmiato qualcosa a proposito del Gordon’s contaminato dall’espresso, Espinosa si era rassegnato al rigagnolo scuro che gli sgocciolava sui pantaloni, io avevo inutilmente tentato di evitare che le scarpe color corda mi si macchiassero in punta. Solo don Attilio era rimasto immobile al suo posto. Lindo come una sposa, si era limitato a tamponare con un tovagliolo l’alone che il caffè aveva lasciato attorno al suo bicchiere.
«Io viaggio per il piacere di sentir parlare la nostra bella lingua nel mondo», aveva aggiunto Espinosa con la sua sincerità rude e risentita, tamburellando ogni sillaba con l’indice sul bracciolo della poltrona.
«Ma questa è un’enormità , amico mio», aveva protestato don Attilio, però più dolcemente, come se non volesse aggiungere altra asprezza a quella già esibita dal vecchio. «Se davvero questo è il motivo, potreste restarvene a casa, a Barcellona…»
«Quelle bestie parlano català , capite? Ca-ta-là , un dialetto da carrettieri», si era definitivamente inalberato Espinosa. «In tutta la città non c’è verso di sentire pronunciare una frase come Dio comanda. Non c’è verso in tutta Barcellona, vi dico. Meglio Bogotá, allora. Molto meglio Lima o Santiago. Più di ogni altra, meglio L’Avana».
Al tavolo l’imbarazzo era ormai evidente. Connolly si sciacquava la bocca con una dose attinta dal bicchiere alla sua sinistra. Espinosa mi guardava con l’ingenua aspettativa che un uomo intelligente e incolto può riservare a una persona istruita. Io, per parte mia, avrei voluto dirgli che ci sono, neg...