San Patrignano
Protettore di mio cugino
che si fa come un caimano
Contadino del 720 d.C., fin dalla più tenera età dedito all’alcol, ebbe le prime visioni quando aveva appena undici anni. Un giorno, dopo il settimo Martini Dry, vide un drappello di puffi nudi che ballavano il samba e capì che l’alcol non era tutto nella vita. Cominciò con la coca.
San Patrignano fu anche grande amante degli animali e per tutta la vita non abbandonò mai la scimmia che teneva sempre sulla spalla.
Morì nel 748, a causa di una pera di pecorino, e seppe – cosa che un contadino non dovrebbe mai sapere – quant’è buono il formaggio nelle pere.
Fu fatto santo, ma più che altro fu fatto.
Proverbio del giorno
Campa cavallo che l’erba cresce.
C’era una volta la più fortunata tra tutte le bambine. Vendeva fiammiferi e accendini e viveva di elemosina. Ah! Proprio una bella fortuna! La gente le tirava le monetine con la fionda, e con una moneta da un euro le facevano due bozzi da 50 centesimi, ma lei sorrideva sempre. Era così povera, che quando si mangiava le unghie apparecchiava. Poi, dopo pranzo, prendeva sempre qualcosa di caldo: la febbre. Era così secca che Rita Pavone a confronto sembrava Giuliano Ferrara. Era sorda, calva, con la forfora, i foruncoli, la colite e un diploma di ragioneria. Ella veniva dal Marocco e, siccome sorrideva sempre, la chiamavano l’Araba Felice. Era anche cieca e quelli della Lega Lombarda, colti da pietà, le avevano regalato un pastore tedesco addestrato: addestrato a morderla una volta ogni dieci minuti. Il pastore si chiamava Gian Galeazzo.
La piccola fiammiferaia era sempre allegra, un incrocio tra Badaloni e Frajese; sorrideva sempre e diceva felice ai passanti: «Sono una povera orfanella, accattatevi un accendino, gente è sfaccimma ca’ num site manco schiumma d’o sudore miezz’e pacche dei cavalli ’e Bellomunno ncopp’a sagliuta ’e Capemonte mentre portano ’e meglie muorte a chi v’è stramuorto!!».1
Poi, a sera, dopo una giornata in mezzo alla via, tornava con le altre orfanelle, nell’accampamento dei nomadi, con l’Equipe ’84 e i Dik Dik.
Nell’accampamento regnava una bella allegria: c’era il manifesto di Tony Santagata in concerto in Croazia, i bambini che allegramente giocavano coi soldatini; ma perdevano, perché i soldatini erano armati e i bambini avevano solo le pietre.
In fondo al campo, la roulotte di Marzapane.
Alfredo Marzapane, il padrone della roulotte, era molto buono con lei: la faceva giocare, la lanciava in aria, e quando ricadeva, non la aspettava. Perché doveva lanciare anche le altre bambine.
Per farle passare la fame, le dava dei cazzotti sulla pancia e lei, sorridendo, diceva: «Quando ho un buco nello stomaco, mi fanno la fiesta e subito mi passa».
Finché un giorno la bambina decise di fare un viaggio a Lourdes e, per miracolo, il treno deragliò.
«Capitano tutte a me perché io sono piccola e nera!» disse la bambina a un poliziotto accorso sul luogo del disastro.
«Tu non sei solo nera sei anche sporca, una sporca nera!» rispose garrulo il graduato. Poi continuò: «Hai il permesso di soggiorno, bella bambina?!».
«No» rispose lei.
E il poliziotto l’arrestò.
Come ebbe finito di raccontarci questa favola, il timido Sergio Sergio detto Piero si avvicinò a un bambino nuovo che sembrava distratto e assorto nei fatti suoi. Era questi Francesco Paolontoni, un bambino sordomuto. Durante la lezione non aveva seguito (è logico, era sordo!). Ma aveva disegnato tutto il tempo; il titolo del suo lavoro era: “Il primo giorno di scuola”. Per tutto l’anno Paolontoni fece un disegno al giorno.
Nulla è più emozionante del primo giorno di scuola. Me lo ricordo: era già dal 23 luglio che facevano la disinfestazione per i topi, avevano vinto i topi e ce ne erano alcuni grossi come cammelli.
Il bidello sorrise e aprì il portone; il portone cadde e aprì il bidello, che ancora sorride: è rimasto sotto, ridotto come una specie di radiografia. Lo portarono in ospedale in busta chiusa.
Tutti i bambini entrarono di corsa urlando, anche perché cercavano di sfuggire agli spacciatori. Le aule erano splendide: pavimenti di cotto, prosciutto cotto, quello delle merende degli anni passati, azzeccato per terra. Per rendere trasparenti le finestre erano stati rotti i vetri. I nemici nascosti dell’igiene, grossi come tacchini, aspettavano i bambini in smoking: il primo giorno di scuola era anche per loro una grande occasione.
Tra i bambini ricordo Deborah, con la “h” finale, un bambino di undici anni che la mamma aveva chiamato così per rendergli la vita più facile. Deborah stava solo e in disparte... si fosse fatto la doccia più spesso... chissà! Era uno di quei bambini che a Carnevale mandavamo nelle altre classi al posto delle fialette puzzolenti.
A un tratto Claudio Castello si avvicinò a Deborah. I ragazzi ammutolirono guardando commossi la scena. Claudio era furbo per natura e socialista per vocazione, rubò la merenda di Deborah e scappò; allora Deborah, che era timidissimo e dolce, si avvicinò a Claudio e con un cric gli sgranò tutti i denti.
C’è ancora il pavimento pieno di molari. Quello fu un giorno commovente e i ragazzi impararono un fatto importante: “Chi ha il pane non ha i denti, chi ha i denti non ha il pane”.
Mentre Castello cercava ancora i suoi canini entrò il preside con aria mesta, salutò con grande dignità e disse: «Ragazzi devo darvi una brutta notizia, avrete un altro maestro, quello dell’anno scorso è morto!». Ci fu un boato di gioia, applausi, tutta la curva B della classe intonò canti di tripudio. «È stato il fumo a ucciderlo» disse il preside.
Il maestro dell’anno passato era un uomo decrepito, aveva il volto incartapecorito dalle rughe, capelli bianchi e radi, denti cariati, spalle curve e parlava con voce roca e catarrosa. Aveva ventitré anni.
Un giorno lesse sul pacchetto di sigarette: “Il fumo nuoce gravemente alla salute”. Allora cominciò a ridere, ridere, ridere e rise tanto che morì soffocato.
Il mio compagno Bakunin lo diceva sempre: «Sarà una risata che vi seppellirà!».
Così il preside ci presentò il maestro di quest’anno. Si chiamava Sergio Sergio, Sergio di nome e Sergio di cognome, ma tutti per comodità lo chiamavano Piero. Un ragazzo timidissimo. Quando noi bambini entravamo in classe lui si alzava.
Era giovane, aveva ancora l’acne juvenilis, non molta in realtà, un foruncolo solo, ma non siamo mai riusciti a vederlo bene in faccia perché quel foruncolo lo copriva tutto. Ricordo che Garrone quel giorno gli chiese: «Possiamo dar fuoco alla maestra di ginnastica sul prato?».
«Non credo,» rispose lui timido «si rovina tutto il prato, comunque domani chiederò al preside.»
Capimmo che quello sarebbe stato un anno particolare.
Quel giorno ritrovai anche tutti gli altri miei compagni: Musiani Silvio, il primo della classe; intelligente come un ramarro, aveva passato tutta l’estate a studiare a memoria il programma di quest’anno per non fare brutta figura.
Scannaguaglia Pino, il piccolo iettatore; quando lo vedevamo ci grattavamo tutti. Era il compagno preferito dalla Forgioni, la bambina ninfomane, perché con quella scusa poteva toccare chiunque.
Giacchetti Lorenzo, lo psicolabile; già all’appello, quando lo chiamarono, pensando di dover essere interrogato si cosparse di benzina e si dette fuoco.
Poletti Giovanni, il genio della scuola; suonava il piano e il violino, scriveva poesie, conosceva la teoria della relatività, sapeva fare la crostata di mirtilli, aveva la patente anche per i TIR. Al “Costanzo Show” non volle mai andare perché la trovava una trasmissione per ragazzi. Aveva sei anni e otto mesi.
Poi c’era il ripetente Paganini Nicola1 (e poi si dice!) che tutti chiamavano “scoglio”, non perché fosse forte ma perché aveva la testa dura come il porfido; era stato bocciato un sacco di volte, aveva ottantanove anni. Quest’anno però ce l’avrebbe messa tutta, per fare contenti i genitori.
Poi c’era Barnum, il piccolo Darix Barnum, un ragazzo che viveva col circo. Suo padre era un pezzo d’uomo, nel senso che faceva il trapezista, era caduto nella gabbia delle tigri, e non ne era rimasto un gran che. La madre era la donna cannone, erano costretti a incontrarsi in volo, perché i genitori contrastavano il loro amore. Erano rapporti fugaci, amplessi velocissimi, ma da uno di questi nacque Darix. Era un ragazzo vivace, un po’ troppo, sarà che era circense, ma come sapeva far girare le palle lui non le sapeva far girare nessuno. Riusciva anche a starci sopra, stava sulle palle quasi a tutti. Era fachiro, mangiava il fuoco, beveva la nafta, ingoiava vetri e chiodi: certo la mattina era un problema, ma per amore dell’arte... Dopo il suo numero, si prendeva quattro chili di Falqui. “Ai bambini buoni la dolce Euchessina”, sarà che lui non era buono, ma non gli bastava nemmeno l’idraulico liquido.
Eravamo tutti eccitati quel giorno, allora il timido maestro per chetarci ci lesse una favola.