Hanno collaborato: Alessandro Piperno, Antonio Scurati, Ester Armanino, Francesco M. Cataluccio, Samuela Pagani, Marcel Baltò, Silvia Colangeli, Matteo Trevisani, Angelo Mellone e Flavia Piccinni, Marta Pastorino, Alberto Bellocchio, Luca Mastrantonio, Massimo Dagnino, Sergej Stratanovskij, Raffaele Manica, Marco Di Capua, Luca Alvino, Andrea Cirolla e Walter Siti.
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Il nostro burrone fu una bolla di fuoco partorita alle 9:37 di una bella mattina di settembre dal ventre di una torre gemella penetrata sul versante opposto da un aeroplano in volo di linea. Il decennio, il secolo, forse il millennio cominciarono in quel momento, con quell’immagine terribile e memorabile di parto isterico: l’epoca aveva generato la bestia, la nuova era si schiudeva all’insegna dell’anticristo. Gli anni ’00 erano così aperti, una volta e per tutte, all’insegna di un immaginario apocalittico: soltanto un anno prima si era consumata l’attesa angosciosa del millennium bug, poi, subito dopo, la catastrofe dell’undici settembre era giunta a confermarne la profezia a scoppio ritardato. Per un attimo, fummo certi che il «doppio zero» fosse un quadrato di potenza del ground zero – il punto di corrispondenza al suolo di un’esplosione avvenuta in cielo – e credemmo di sapere che quella deflagrazione inaugurale avrebbe dato il tono di fondo al futuro. A quello prossimo e, forse, anche a quello remoto.
Da quel momento in avanti, messici su quella china precipitosa, tutto ciò che sarebbe potuto ancora accadere era l’incidente, tutto ciò che poteva ancora essere intentato era l’attentato, tutto ciò che ci rimaneva da attendere era l’esplosione di una bomba, psichica, batteriologica o plastica, reale o simbolica, propria o impropria. Qualsiasi cosa, animata o inanimata, in questo clima da fine dei tempi, sembrava suscettibile di trasformarsi in ordigno esplosivo e ben pronto a farlo: un’automobile, un volo di linea, una giovane cecena, palestinese o irachena. Dopo due decenni di vacanza, ritornava in questo modo la politica – arricchita all’uranio dal prefisso «geo» – ma in una temperie metafisico religiosa: escatologia confusa, apocatastasi assicurata, incerta palingenesi. E nessuna prudenza o previsione possibile. Sotto un cielo sognante da Calderón de la Barca, era assolutamente impossibile divinare il futuro in un firmamento in cui ogni segno era presagio, ogni cosa prodigio. Non ci rimanevano che meraviglia e terrore. Terrore e meraviglia. Il tempo, appena rimessosi in marcia, precipitava in fretta verso la sua fine. Tutto si sarebbe, presto, compiuto. Giorno del giudizio, squillo di trombe e noi tutti saremmo stati giudicati.
In effetti, a scorrere la cronologia degli eventi storicamente rilevanti di quegli anni, la sequenza dei disastri e catastrofi, appare oggi impressionante. Di questo passo, tra un attentato in metropolitana, una mucca pazza e una guerra d’invasione, per circa cinque anni abbiamo vissuto la fine del mondo una volta al giorno. Di primo acchito, questo andazzo produsse in noi una psicologia da traumatizzati senza trauma (dopo l’Undici Settembre gli psichiatri americani diagnosticano per la prima volta la Sindrome Post Traumatica da Stress negli spettatori televisivi) e un sentimento della vita da sopravvissuti senza aver vissuto. Salvo scoprire, poi, che, paradossalmente, questa vita impastata interamente e quotidianamente di «eventi» (guerreschi o mondani, tragici o insulsi) non avrebbe affatto reintrodotto una logica storica ma ci avrebbe invece sprofondati completamente nella cronaca.
Poi, però, si verifica un’inversione di rotta. Verso la metà del decennio, le nostre paure conoscono un cambio di paradigma: all’apocalisse si sostituisce il declino, alla catastrofe la decadenza. Il ripiegarsi angoscioso della coscienza occidentale muta tonalità di fondo: lo spettro della fine non si annuncia più come schianto ma come sfinimento, quel futuro che già prima non era più quello di una volta, si smette di immaginarlo come la locomotiva impazzita del progresso lanciata verso l’incidente terminale e lo si ripensa come il convoglio stanco, deviato a esaurire la propria corsa su di un binario morto.
Ecco che cambia, dunque, il tono di nero del malumore: chi si affaccia alla vita alla fine del decennio, non si aspetta più dal futuro imminente la resa dei conti, l’irruzione clamorosa del redde rationem, ma una lenta, progressiva estenuazione; sa che sarà più povero, più sfruttato, più disoccupato, meno istruito della generazione precedente: insomma, non si aspetta più niente. Il decennio che era cominciato con l’apocalittica politico-religiosa finisce con l’economia. Si passa in un battibaleno dalla legge del profeta a quella finanziaria, dalla sindrome da 11 settembre a quella da ventisette di ogni mese, dal timore della rapina a quello della lenta deprivazione, dall’ipoteca del terrorismo a quella sulla casa, dall’ansia da esplosione allo spettro della disoccupazione. Il decennio era cominciato con i musulmani e finisce con i cinesi.
Niente più romanticismo dell’azione, dunque. L’illusione di poter raddrizzare il mondo militarmente si è impantanata in due guerre inutili e infruttuose. Perfino la promessa di Barack Obama, l’uomo della provvidenza nera lungamente attesa, è durata un semestre scarso: la crisi finanziaria, più che la falla petrolifera, lo ha reso, nel giro di un inverno e di una primavera, al cospetto degli insormontabili problemi del pianeta, un minchione come tutti gli altri. Del surriscaldamento globale, della incipiente catastrofe ecologica che aveva animato un sussulto di vitalità nel primo lustro, meglio non parlarne nemmeno più. Ci si sente spossati soltanto a sentirla nominare.
Ma, alla fin della fiera, a ben guardare, che si trattasse di apocalisse o di decadenza, abbiamo reagito allo stesso modo: gli anni ’00, sul piano della innovazione e della scoperta non verranno certo ricordati per la invenzione di fonti di energia rinnovabile o per la fondazione di un nuovo sistema sociale. Li si ricorderà , piuttosto, per la diffusione globale di nuove reti di telecomunicazione e di nuove forme di socializzazione virtuale: Myspace, Facebook, l’iPod, lo Smartphone: strumenti utili a scavarsi nicchie eco-tecnologiche, sfere virtuali autosussistenti, uteri esterni immateriali in cui riassumere confortevoli pose fetali, gusci in cui autosegregarsi escludendo quel mondo tanto grande, tanto terribile, quel pianeta Terra irrimediabilmente incasinato.
Tornano allora i cani da slitta del principio. Ma questa volta sono quelli di Jack London. Ci racconta il padre di Zanna Bianca che, quando sulle piste del Grande Nord la temperatura precipitava, anche quegli animali infaticabili si scavavano una buca nella terra e dormivano sepolti sotto la neve per sopravvivere alla notturna gelata.
2. Gli archetipi classici, lo spettacolo della violenza, la decadenza
Qualcuno ha scritto che è duro vivere senza un’apocalisse all’orizzonte. Credo sia la nostra condizione. Annusiamo spasmodicamente sentori di Apocalisse come cani da punta in attesa di un falso movimento della preda. Ma prede non ce ne sono. Nel tempo che ci ha dato di vivere, anche l’irruzione delle cose ultime ci è negata. Soprattutto quella, forse. L’attendiamo, ci speriamo quasi, l’evochiamo ma non viene. Nulla di fatidico stende le proprie conseguenze sull’intero arco delle nostre vite. È la prigionia limbica della post-storia annunciata da Pasolini e da molti altri profeti novecenteschi della tarda modernità . Noi oggi viviamo nella loro profezia. Essa, però, annunciava la decadenza non un tempo dell’avvento. Il mio racconto usa la cornice del post-apocalittico come espediente narrativo per raccontare la decadenza, non l’apocalisse. La decadenza è ben più densa di conseguenze. Venezia è stata per secoli il simbolo mondiale della decadenza italiana, adesso rischia di diventare il simbolo universale della decadenza europea. Nella finzione romanzesca la vecchia Venezia è stata sommersa dalla Grande Onda e poi rifondata in nome della violenza ludica ma tutti i superstiti sono consapevoli del fatto che, anche in quel caso, l’attesa dell’apocalisse si è rivelata vana. Il punto catastrofico era già alle loro spalle ed era stato attraversato senza che fosse possibile rendersene conto. Ai protagonisti, allora, non rimane che vivere le estreme conseguenze del lungo, lentissimo processo di civilizzazione. Non c’è salto al di fuori di esso, non c’è riparo nell’illusione del primordiale/primigenio o nello spauracchio – oggi tanto di moda – della barbarie. Il richiamo sistematico al mondo greco-romano sta lì a ricordarci che il destino dell’Occidente è di tramontare, in eterno. La caduta dell’Impero Romano è il paradigma di ogni successiva decadenza. Rievocarlo – nei ludi gladiatori, nelle suburre, nelle condizioni di vita delle plebi urbane – significa anche segnalare la necessità di un lavoro di riappropriazione delle forme originarie della nostra cultura (oggi i gladiatori li studiano prevalentemente a Princeton e li mettono in scena a Hollywood). Senza questo lavoro l’Europa è destinata a diventare un piccolo lembo estremo del continente euroasiatico e una provincia remota di un nuovo Impero d’Oriente. Abbiamo bisogno di una nuova translatio imperii, una trasmissione che avvenga all’intero della nostra storia culturale, prima che il potere migri a ritroso da Occidente a Oriente.
Nel libro esistono due livelli di fruizione della violenza, la crudeltà algida e spettacolarizzata vissuta dai personaggi del romanzo e quella mediata dalla narrazione a cui assiste il lettore… penso, ad esempio, alle descrizioni inerenti ai massacri di animali realizzati per assecondare i gusti di un pubblico passivo e spietato: uno scempio gratuito che muove il lettore a compassione; sono pagine dolenti, prive di qualsiasi sfumatura estetizzante di matrice pulp. In che modo ha concepito questa duplice resa e rappresentazione della brutalità ?
La rappresentazione della violenza è forse il tema che più mi ha ossessionato, sia come narratore sia come studioso. La violenza, nella nostra epoca, è l’indice certo della perdita di autorevolezza della vita vissuta (anche in quanto autorizzazione al gesto di narrare ...