Sodoma e Gomorra
  1. 3,572 pagine
  2. Italian
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eBook - ePub

Informazioni su questo libro

Ultimo volume della Recherche pubblicato da Proust in vita, tra maggio 1921 e aprile 1922, Sodoma e Gomorra è il libro più costruito e al tempo stesso libero, arioso e inventivo dell'opera, "il più ricco in fatti psicologici e romanzeschi" secondo lo stesso autore. A primeggiare è la figura di Charlus, una delle più grandi creazioni dell'universo proustiano, insieme al personaggio di Albertine, entrambi protagonisti di episodi erotici a sfondo omosessuale. Ma Sodoma contiene anche uno dei momenti più alti, vibranti e commoventi della Recherche: la scoperta, da parte del Narratore, delle celebri "intermittenze del cuore".

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2013
Print ISBN
9788804548492
eBook ISBN
9788852034527
Argomento
Letteratura
Categoria
Classici

Sodoma e Gomorra

II

CAPITOLO PRIMO

Charlus in società. – Un medico. – L’inconfondibile aspetto di Madame de Vaugoubert. – Madame d’Arpajon, la fontana di Hubert Robert e il buonumore del granduca Vladimiro. – Madame d’Amoncourt, Madame de Citri, Madame de Saint-Euverte, ecc. – Bizzarra conversazione fra Swann e il principe di Guermantes. – Albertine al telefono. – Qualche visita in attesa del mio secondo (e ultimo) soggiorno a Balbec. – Arrivo a Balbec. – Gelosia per Albertine. – Le intermittenze del cuore.
Freccia che punta in alto a destra
Non avendo alcuna fretta d’arrivare al ricevimento dei Guermantes, cui non ero certo d’essere invitato, indugiavo oziosamente per strada; ma la giornata estiva sembrava non avesse più premura di me. Benché fossero passate le nove, era ancora là, in place de la Concorde, a dare all’obelisco di Luxor l’aspetto d’un torrone rosa. Poi, modificandone il colore, lo mutò in una materia così metallica che non solo l’obelisco diventò più prezioso, ma parve più sottile e quasi flessibile. Veniva da pensare che lo si sarebbe potuto torcere; che qualcuno, forse, avesse già leggermente deformato quel gioiello. In cielo, la luna era adesso un quarto d’arancia sbucciato con delicatezza, sebbene un po’ intaccato. Ma, di lì a qualche ora, sarebbe stata dell’oro più resistente. Dietro di lei, tutta sola e rannicchiata, una povera piccola stella avrebbe fatto da unica compagna alla luna solitaria, mentre questa, protettiva nei confronti dell’amica, ma precedendola arditamente, avrebbe brandito, come un’arma irresistibile e un simbolo orientale, la sua grande splendida falce d’oro.
Davanti al palazzo della principessa di Guermantes, incontrai il duca di Châtellerault; non ricordavo più che, fino a mezz’ora prima, mi perseguitava il timore – nel quale, d’altronde, sarei ricaduto ben presto – di non essere stato invitato. Ci sentiamo inquieti; ed è, a volte, molto tempo dopo l’ora del pericolo, dimenticata grazie alla distrazione, che ci ricordiamo della nostra inquietudine. Salutai il giovane duca e penetrai nel palazzo. Ma devo qui, innanzitutto, annotare una minima circostanza, in base alla quale sarà possibile capire un fatto verificatosi subito dopo.
C’era qualcuno che, quella sera come le precedenti, pensava molto al duca di Châtellerault, senza per altro immaginare chi egli fosse: si trattava dell’usciere (chiamato a quel tempo “strillone”) di Madame de Guermantes. Ben lungi dall’essere intimo – così com’era cugino – della principessa, il signor di Châtellerault veniva ricevuto per la prima volta nel suo salotto. I genitori del duca, da dieci anni in rotta con la principessa, s’erano riconciliati con lei da quindici giorni, e – forzatamente assenti, quella sera, da Parigi – avevano incaricato il figlio di rappresentarli. Ora, alcuni giorni prima, l’usciere della principessa aveva incontrato ai Champs-Élysées un giovanotto che gli era parso affascinante, ma del quale non era riuscito a stabilire l’identità. Non che il giovanotto non si fosse mostrato amabile, e tanto amabile quanto generoso. Tutti i favori che l’usciere aveva supposto di dover accordare a un così giovane signore, li aveva al contrario ricevuti. Ma il signor di Châtellerault era non meno timoroso che imprudente; e tanto più deciso a non svelare il proprio incognito, in quanto ignorava con chi avesse a che fare; ben maggiore – sebbene infondata – sarebbe stata la sua paura se l’avesse saputo. Aveva pensato di spacciarsi per inglese; e a tutte le domande appassionate rivoltegli dall’usciere, che desiderava poter ritrovare una persona nei cui confronti aveva un tale debito in termini di piacere e di elargizioni, s’era limitato a rispondere, per tutta la lunghezza di avenue Gabriel: «I do not speak french».
Benché, nonostante tutto – a causa dell’ascendenza materna di suo cugino –, il duca di Guermantes ostentasse di scorgere un pizzico di Courvoisier nel salotto della principessa di Guermantes-Baviera, lo spirito d’iniziativa e la superiorità intellettuale di questa dama venivano generalmente misurati in base a un’innovazione che, nell’ambiente, non aveva altri riscontri. Finito il pranzo, e indipendentemente dall’importanza del ricevimento che sarebbe seguito, in casa della principessa di Guermantes le sedie venivano disposte in modo tale da favorire la formazione di piccoli gruppi che, all’occorrenza, si davano la schiena. La principessa faceva allora sfoggio del suo senso sociale andando a sedersi, come per preferenza, in uno di quei gruppi. Non esitava, del resto, a scegliere e ad attirarvi il membro d’un altro gruppo. Se, per esempio, aveva fatto notare a Detaille, che naturalmente aveva annuito, come fosse bello il collo di Madame de Villemur, la quale, seduta in un altro gruppo, mostrava loro la schiena, la principessa non si peritava d’alzare la voce: «Madame de Villemur, il signor Detaille, da quel grande pittore che è, sta ammirando il vostro collo». Madame de Villemur coglieva in questa frase un invito diretto alla conversazione; con la disinvolta agilità che deriva dalla dimestichezza col cavallo, faceva lentamente compiere alla sua sedia una rotazione pari a tre quarti di cerchio e, senza per nulla scomodare i vicini, veniva a trovarsi quasi di fronte alla principessa. «Non conoscete il signor Detaille?» le chiedeva la padrona di casa, non accontentandosi dell’abile e pudica “conversione” della propria ospite. «No, non lo conosco, ma conosco i suoi quadri», rispondeva Madame de Villemur in tono rispettoso e incoraggiante, con un senso dell’opportunità che molti le invidiavano, non senza rivolgere al celebre pittore, che la domanda della principessa non era bastata a presentarle in modo formale, un impercettibile saluto. «Venite, Detaille, s’interponeva la principessa, voglio presentarvi a Madame de Villemur.» Quest’ultima, allora, per fare spazio all’autore del Rêve si avvaleva della stessa ingegnosità applicata poco prima nel girarsi verso di lui. E la principessa spostava una sedia anche per sé; infatti, aveva interpellato Madame de Villemur come puro pretesto per sottrarsi al primo gruppo, dove aveva trascorso i dieci minuti regolamentari, e accordare al secondo una presenza d’uguale durata. Nel giro di tre quarti d’ora, tutti i gruppi avevano ricevuto la sua visita, che sembrava scandita, ogni volta, solo da estemporanee predilezioni, ma il cui scopo precipuo consisteva nel mettere in rilievo con quanta naturalezza “una gran dama sappia ricevere”. Ormai, però, gli invitati alla serata cominciavano ad affluire, e la padrona di casa s’era seduta non lontana dall’ingresso – eretta e fiera nella sua maestà quasi regale, gli occhi accesi dalla loro stessa incandescenza – fra due Altezze prive di fascino e l’ambasciatrice di Spagna.
Io facevo la coda dietro alcuni invitati giunti prima di me. Vedevo, proprio di faccia, la principessa, la cui bellezza non è certo la sola, fra tante altre, a rammentarmi quella festa. Ma era così perfetto, il viso della padrona di casa, e coniato come una così splendida medaglia, da aver serbato per me una virtù commemorativa. La principessa soleva dire ai suoi invitati, incontrandoli pochi giorni prima d’una delle sue serate: «Verrete, non è vero?», come se nutrisse un vivo desiderio di intrattenersi con loro. Ma siccome, al contrario, non aveva nulla da dirgli, man mano che le sfilavano davanti si limitava, senza alzarsi, a interrompere per un istante la sua vana conversazione con le due Altezze e con l’ambasciatrice e a ringraziarli dicendo: «Siete stato gentile a venire», non perché a suo giudizio l’invitato, venendo, avesse dato prova di gentilezza, ma per sottolineare ulteriormente la propria; poi, ricacciandolo senza indugio nella corrente, aggiungeva: «Troverete il signor di Guermantes all’ingresso dei giardini», in modo che andassero a salutarloe la lasciassero tranquilla. A certuni, anzi, non diceva niente, paga di mostrare loro i suoi stupendi occhi d’onice, come se fossero venuti solo per ammirare un’esposizione di pietre preziose.
La persona che sarebbe passata immediatamente prima di me era il duca di Châtellerault.
Dovendo rispondere a tutti i sorrisi, a tutti i cenni che gli giungevano dal salotto, non aveva visto l’usciere. Ma questi l’aveva ravvisato sin dal primo istante. Ancora un attimo, e quell’identità che aveva tanto desiderato di conoscere, finalmente l’avrebbe scoperta. Chiedendo al suo “inglese” dell’altro giorno quale nome dovesse annunciare, l’usciere non era solo in preda all’emozione, ma si giudicava anche indiscreto, indelicato. Gli sembrava d’esser sul punto di rivelare a tutti (i quali, per altro, non avrebbero dubitato di nulla) un segreto che si sentiva in colpa di sorprendere a quel modo e di proclamare pubblicamente. Udendo la risposta dell’invitato: «Il duca di Châtellerault», l’orgoglio gli provocò un tale turbamento da renderlo, momentaneamente, muto. Il duca lo guardò, lo riconobbe, si vide perduto, mentre il domestico, che s’era ripreso e aveva sufficienti cognizioni araldiche per completare da sé quell’appellativo troppo modesto, gridava con energia professionale vellutata da un’intima tenerezza: «Sua Altezza Monsignore il duca di Châtellerault!». Ma toccava a me, adesso, essere annunciato. Assorto nella contemplazione della padrona di casa, che non m’aveva ancora visto, non avevo posto mente alle funzioni – terribili per me, sebbene in maniera diversa che per Châtellerault – di quell’usciere vestito di nero come un carnefice, circondato da una schiera di lacchè dalle livree più sgargianti, robusti giovanottoni pronti a ghermire un intruso e a metterlo alla porta. L’usciere mi chiese il mio nome; glielo dissi meccanicamente, come il condannato a morte si lascia incatenare al ceppo. Subito lui alzò maestosamente il capo, e prima ch’io potessi pregarlo d’annunciarmi a bassa voce, per risparmiare il mio amor proprio nel caso che non fossi invitato, e quello della principessa di Guermantes nel caso che lo fossi, scandì le sillabe inquietanti con un impeto capace di scuotere la volta del palazzo.
L’illustre Huxley (quello il cui nipote occupa attualmente un posto di preminenza nel mondo della letteratura anglosassone) racconta che una delle sue malate non osava più recarsi in società perché spesso, nella poltrona che le veniva indicata con gesto cortese, le sembrava di veder seduto un vecchio signore. Era certissima che, o il gesto d’invito, o la presenza del vecchio signore, fosse un’allucinazione, giacché nessuno le avrebbe mai additato una poltrona già occupata. E quando Huxley, per guarirla, la costrinse a tornare ad un ricevimento, ebbe un istante di penosa esitazione, chiedendosi se quel segno gentile che le facevano fosse reale o se, per obbedire a una visione inesistente, non sarebbe andata a sedersi pubblicamente sulle ginocchia d’un signore in carne ed ossa. La sua breve incertezza fu crudele. Meno, forse, della mia. Dal momento in cui avevo percepito il rombo del mio nome, preannuncio sonoro di un possibile cataclisma, dovetti, per suffragare in ogni caso la mia buona fede, e come se nessun dubbio mi tormentasse, avanzare verso la principessa con aria risoluta.
Ero a pochi passi da lei, quando mi vide, e – cosa che non mi permise più di dubitare d’esser stato vittima di una macchinazione – invece di restare seduta come per gli altri invitati, si alzò, venne verso di me. Un attimo dopo, potevo tirare lo stesso respiro di sollievo della paziente di Huxley quando, presa la decisione di sedersi nella poltrona, la trovò libera, e capì che l’allucinazione era il vecchio signore. La principessa mi aveva teso la mano sorridendo. Restò in piedi per qualche istante, con la grazia caratteristica di quella stanza di Malherbe che finisce:
Et pour leur faire honneur les Anges se lever.
Si scusò che la duchessa non fosse ancora arrivata, come se, in sua assenza, io mi dovessi annoiare. Per porgermi quel saluto, creò intorno a me, tenendomi la mano, un turbinio pieno di grazia, nel cui vortice mi sentii trascinato. Quasi quasi, m’aspettavo che mi consegnasse, come un’animatrice di cotillon, un bastone col manico d’avorio o un orologio da polso. Non mi diede, in realtà, nulla del genere; e come se, invece di danzare il boston, stesse ascoltando un sacrosanto quartetto di Beethoven, i cui sublimi accenti temesse di turbare, troncò a quel punto la conversazione, o piuttosto non l’iniziò neppure, e – ancora raggiante d’avermi visto entrare – mi indicò semplicemente dove potevo trovare il principe.
Allontanatomi da lei, non osai più avvicinarla, sentendo che non aveva assolutamente niente da dirmi e che, nella sua immensa buona volontà, quella donna meravigliosamente alta e bella, nobile al pari di tante grandi dame che salirono con impareggiabile fierezza al patibolo, non avrebbe potuto far altro – mancandole il coraggio d’offrirmi un bicchiere d’acqua di melissa – che ripetermi ciò che m’aveva già detto due volte: «Troverete il principe in giardino». Ora, andare dal principe significava sentir rinascere sotto altra forma i miei dubbi.
In ogni caso, dovevo trovare qualcuno che mi presentasse. Si udiva, alto a sovrastare ogni altra conversazione, l’inesauribile cicaleccio del signor di Charlus, che parlava, dopo averne appena fatto la conoscenza, con Sua Eccellenza il duca di Sidonia. A parità di professione, ci si riconosce; e a parità di vizio, anche. Il signor di Charlus e il signor di Sidonia avevano immediatamente fiutato ciascuno il vizio dell’altro, che era per entrambi, in società, quello d’essere monologhisti, al punto di non sopportare la minima interruzione. Avendo capito subito che il male era senza rimedio, come dice un celebre sonetto, avevano preso la decisione, non già di tacere, ma di parlare ciascuno senza curarsi di quel che potesse dire l’altro. Ne era scaturito quel confuso rumore che, nelle commedie di Molière, è prodotto da parecchie persone che dicono nello stesso momento cose differenti. Il barone, con la sua voce squillante, era d’altronde sicuro d’avere la meglio, di soverchiare la debole voce del signor di Sidonia – senza, tuttavia, scoraggiare quest’ultimo, visto che, non appena Charlus riprendeva un attimo fiato, l’intervallo era riempito dal sussurro del grande di Spagna, il quale, imperturbabile, aveva continuato il suo discorso. Avrei voluto chiedere a Charlus di presentarmi al principe di Guermantes, ma temevo (sin troppo a ragione) che fosse arrabbiato con me. Avevo agito, nei suoi confronti, nel modo più ingrato, lasciando cadere per la seconda volta le sue profferte e non facendomi più vivo dopo la sera in cui m’aveva così affettuosamente riaccompagnato a casa. Eppure, non potevo certo addurre a mia scusante anticipata la scena che avevo visto svolgersi, quel pomeriggio stesso, fra lui e Jupien. Non nutrivo alcun sospetto del genere. È vero che poco tempo prima, siccome i miei genitori mi rimproveravano, imputandolo alla mia pigrizia, di non aver ancora scritto due righe al signor di Charlus, li avevo a mia volta rimproverati, con violenza, di pretendere che accettassi delle proposte disoneste. Ma solo la collera, il gusto di trovare l’accento che più potesse turbarli, m’avevano dettato quella risposta menzognera. In realtà, sotto le offerte del barone non avevo immaginato nulla di sensuale, e nemmeno di sentimentale. Avevo lanciato quella frase ai miei genitori come una pura follia. Ma il futuro, a volte, abita dentro di noi a nostra insaputa, e le nostre parole, credendo di mentire, disegnano una realtà imminente.
Il signor di Charlus m’avrebbe magari perdonato la mia irriconoscenza. Ma a renderlo furioso era il fatto che la mia presenza, quella sera, in casa della principessa di Guermantes – come, da qualche tempo, in casa di sua cugina – sembrava sfidare la solenne dichiarazione: «Non si entra in quei salotti se non per mio tramite». Grave colpa, delitto forse inespiabile, non avevo seguito la via gerarchica. Charlus sapeva benissimo che i fulmini ch’egli brandiva contro le persone restie a piegarsi ai suoi ordini, o incorse nel suo odio, cominciavano, per quanta rabbia ci mettesse, ad apparire a molti come fulmini di cartapesta, e non avevano più la forza di scacciare nessuno da nessun posto. Ma credeva, forse, che il suo potere, diminuito e tuttavia ancor grande, fosse rimasto intatto agli occhi dei novizi come me. Perciò ritenni poco opportuno chiedergli un favore ad una festa dove la mia semplice presenza sembrava un’ironica smentita alle sue pretese.
Mi si avvicinò, a questo punto, un uomo abbastanza volgare, il professor E*** Era sorpreso di trovarmi dai Guermantes. Non meno sorpreso ero io di trovarci lui, giacché mai s’era visto, né mai si vide in seguito, un personaggio della sua specie in casa della principessa. Aveva guarito il principe, quando già gli erano stati amministrati i sacramenti, da una polmonite virale, e la riconoscenza affatto particolare che s’era così meritato da parte di Madame de Guermantes spiegava come mai, contro ogni usanza, fosse stato invitato. Poiché, in quei salotti, non conosceva assolutamente nessuno, e non vi si poteva aggirare da solo all’infinito come un ministro della morte, nel riconoscermi aveva sentito, per la prima volta in vita sua, d’avere una quantità di cose da dirmi, il che, mentre gli permetteva d’assumere un contegno, rappresentava una delle ragioni che l’avevano spinto verso di me. Se ne aggiungeva un’altra. Per lui era di estrema importanza non commettere mai errori di diagnosi. Ora, il suo giro di corrispondenza era talmente vasto che non sempre ricordava con esattezza, quando aveva visto un paziente una sola volta, se la malattia avesse poi seguito il decorso da lui assegnatole. Forse il lettore non ha dimenticato che, al momento del primo attacco, era da lui che avevo portato la nonna, quella sera in cui stava facendosi cucire sulla giacca tutte le sue decorazioni. Dato il tempo intercorso, non ricordava più la partecipazione che, in seguito, gli avevamo inviata. «La vostra signora nonna è morta, non è vero?» mi chiese, con voce in cui una quasi-certezza calmava una lieve apprensione. «Ah! ecco! Del resto, sin dal primo istante la mia prognosi era stata decisamente infausta, me ne ricordo benissimo.»
Fu così che il professor E*** seppe, o seppe nuovamente, della morte della nonna, e – devo dirlo a sua lode, anzi a lode dell’intero corpo dei medici – senza manifestare, senza provare, forse, alcuna soddisfazione. Gli errori dei medici non si contano. Di solito, essi peccano d’ottimismo riguardo al regime, di pessimismo riguardo all’esito. «Il vino? in quantità moderata non può certo farvi male, in fin dei conti è un tonificante... Il piacere fisico? dopotutto è una funzione. Ve lo concedo senza abusi, voi mi capite. In qualsiasi cosa, l’eccesso è un difetto.» Che tentazione, di colpo, per il malato, rinunciare a due toccasana come l’acqua e la castità! In compenso, se uno ha qualcosa al cuore, un po’ d’albumina, ecc., ha i giorni contati. Disturbi gravi, ma funzionali, vengono spesso attribuiti a un cancro immaginario. È inutile insistere con delle visite che non potrebbero arginare un male ineluttabile. Se il malato, abbandonato a se stesso, s’impone un regime rigoroso, e finisce col guarire o perlomeno col sopravvivere, il medico, vedendosi salutare in avenue de l’Opéra da qualcuno che credeva da tempo al Père-Lachaise, coglierà in quella scappellata un gesto di beffarda insolenza. Un’innocente passeggiata fatta sotto il suo naso, in barba alla sua autorità, non irriterebbe di più un presidente di Corte d’assise che, due anni prima, avesse condannato a morte lo spavaldo bighellone. I medici (non li coinvolgiamo tutti, beninteso, né tralasciamo, mentalmente, alcune pregevoli eccezioni) sono, in genere, più contrariati, più scontenti dell’invalidazione del loro verdetto, che contenti della sua esecuzione. Questo spiega come mai il professor E***, pur assaporando, indubbiamente, una soddisfazione di natura intellettuale nel constatare di non essersi sbagliato, riuscisse a non esternare altro che tristezza nel parlarmi della disgrazia che ci aveva colpiti. Non aveva alcun interesse ad abbreviare la conversazione, che gli forniva un contegno e un motivo di stabilità. Mi intrattenne sul gran caldo di quei giorni, ma, per quanto appassionato di letteratura, per quanto in grado d’esprimersi in un buon francese, mi domandò: «Voi non soffrite di questa ipertermia?». Il fatto è che la medicina ha messo a segno alcuni piccoli progressi, dai tempi di Molière, nel campo della ricerca, ma nessuno nel campo del vocabolario. «La cosa più importante, aggiunse il mio interlocutore, è evitare le sudorazioni prodotte, soprattutto in ambienti surriscaldati, da un simile clima. Potrete porvi rimedio, se tornando a casa avrete voglia di bere, con il calore» (voleva dire, evidentemente, “con bevande calde”).
Considerando in che modo era morta la nonna, l’argomento non poteva non interessarmi; e recentemente, in un libro di un grande scienziato, avevo letto che la traspirazione nuoce ai reni, perché elimina attraverso la pelle ciò che dovrebbe uscire per altre vie. Deploravo che, all’epoca della morte della nonna, ci fosse un caldo canicolare, e non lo ritenevo estraneo a quell’evento. Non ne parlai al professor E***, che tuttavia, di sua iniziativa, mi disse: «Il vantaggio di queste giornate calde, in cui la traspirazione è molto abbondante, è il sollievo che, per ciò stesso, ne ricevono i reni». La medicina non è una scienza esatta.
Appiccicatosi a me, il professor E*** ambiva solo a non lasciarmi. Ma io avevo visto, intento a fare alla principessa di Guermantes – dopo essere indietreggiato d’un passo – grandi riverenze destrorse e sinistrorse, il marchese di Vaugoubert. Ultimamente, grazie al signor di Norpois, avevo fatto la sua conoscenza, e ora lo speravo disposto a presentarmi al padrone di casa. Le proporzioni di quest’opera non mi permettono, qui, di chiarire in seguito a quali incidenti di gioventù Vaugoubert fosse, fra gli uomini del gran mondo, uno dei pochissimi (forse l’unico) a trovarsi, come si dice a Sodoma, in “rapporti confidenziali” con Charlus. Ma se il nostro ministro alla corte di re Teodosio aveva alcuni difetti in comune col barone, essi non erano, rispetto a quelli dell’altro, che pallidissimi riflessi. Era in una forma infinitamente edulcorata, melensa e sentimentale che affioravano in lui quelle alternanze di simpatia e di risentimento attraverso le quali il desiderio d’affascinare e poi il timore (non meno immaginario) d’essere disprezzato, o perlomeno scoperto, facevano passare il barone. Rese ridicole da una castità, da un “platonismo” cui, da quell’ambizioso che era, aveva sin dai tempi del concorso sacrificato ogni piacere, e più ancora dalla sua nullità intellettuale, tali alternanze erano in ogni caso presenti nel signor di Vaugoubert. Ma mentre in Charlus le lodi più enfatiche erano tessute con eloquenza davvero sfavillante, e si mescolavano agli scherni più sottili e taglienti, tali da segnare una persona per sempre, in Vaugoubert, al contrario, la simpatia veniva espressa con la banalità d’un uomo di terz’ordine, un mondano, un funzionario, e le requisitorie (perlopiù inventate di sana pianta, come quelle del barone) con una malevolenza implacabile ma inintelligente, tanto più sgradevole perché puntualmente in contraddizione con quanto il ministro aveva detto sei mesi prima e avrebbe ripetuto di lì a poco: regolarità nel cambiamento che avvolgeva le diverse fasi della vita del signor di Vaugoubert in una sorta di astronomica poesia, sebbene, a parte ciò, nessuno facesse pensare a un astro meno di lui.
Il saluto che mi rivolse non aveva nessuna affinità con quello che m’avrebbe indirizzato il signor di Charlus. Oltre ai mille vezzi che credeva propri alla mondanità e alla diplomazia, Vaugoubert gli infondeva un che di sorridente, impertinente, sbarazzino, per apparire, da un lato, inebriato dell’esistenza – mentre, dentro di sé, non faceva che rimasticare le delusioni d’una carriera senza progressi e minacciata di pensionamento – e, d’altro canto, giovane, affascinante e virile, mentre vedeva (e non aveva più il coraggio di guardare allo specchio) le rughe fissarsi su un volto di cui avrebbe voluto serbare intatta la seduzione. Non che sperasse in effettive conquiste, il cui solo pensiero lo terrorizzava a causa delle possibili dicerie, degli scandali, dei ricatti. Passato da una dissolutezza quasi infantile a una rigorosa astinenza il giorno st...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. di Marcel Proust
  3. Sodoma e Gomorra
  4. Nota introduttiva di Luciano De Maria
  5. SODOMA E GOMORRA
  6. Sodoma e Gomorra I
  7. Sodoma e Gomorra II
  8. Argomento del volume a cura di Giovanni Raboni
  9. Copyright