SUZANNE COLLINS
traduzione di Simona Brogli
Gregor aveva tenuto la fronte premuta contro la zanzariera così a lungo che poteva sentirne l’impronta a quadratini al di sopra delle sopracciglia.
Passò le dita sui piccoli bozzi e soffocò l’impulso di tirar fuori un urlo da cavernicolo. Gli montava nel petto, il lungo grido gutturale riservato alle emergenze vere, come quando ti imbattevi in una tigre dai denti a sciabola ed eri senza la tua clava, o magari ti si spegneva il fuoco durante l’Era Glaciale. Arrivò persino ad aprire la bocca e a prendere un respiro profondo prima di tornare a picchiare la testa contro la zanzariera con un rantolo di frustrazione. — Argh.
A cosa sarebbe servito, comunque? Non avrebbe cambiato niente. Né la calura, né la noia, né l’infinito vuoto estivo che gli si allargava davanti.
Pensò di svegliare Boots, la sorellina di due anni, giusto per distrarsi un po’, ma poi la lasciò dormire. Almeno lei stava al fresco, nella camera da letto con l’aria condizionata che condivideva con Lizzie, la sorella di sette anni, e la nonna. Era l’unica stanza dell’appartamento con l’aria condizionata.
Nelle notti davvero roventi, Gregor e sua madre stendevano delle trapunte sul pavimento per riuscire a dormire ma, in cinque, la stanza non era più fresca, solo tiepida.
Gregor prese un cubetto di ghiaccio dal congelatore e se lo strofinò sul viso. Guardò il cortile, fuori, dove un cane randagio annusava un bidone dell’immondizia strapieno. L’animale posò le zampe sul bordo, inclinando il bidone e spargendo i rifiuti sul marciapiede. Gregor intravide un paio di sagome scure correre lungo il muro e fece una smorfia. Ratti. A quelli proprio non si era mai abituato.
Per il resto, il cortile era deserto. Di solito era pieno di bambini che giocavano a palla, saltavano la corda o dondolavano appesi al castello per arrampicarsi. Ma quella mattina l’autobus era partito per il campeggio, portandosi via ogni ragazzino tra i quattro e i quattordici anni. Salvo uno.
— Mi dispiace, piccolo, non puoi andarci — gli aveva detto sua madre qualche settimana prima. E doveva essere dispiaciuta sul serio, Gregor l’aveva capito dall’espressione del suo viso. — Qualcuno deve tenere d’occhio Boots mentre io sono al lavoro, e sappiamo tutti e due che la nonna non è più in grado di farlo.
Certo che lo sapeva. Nell’ultimo anno, la nonna aveva continuato a scivolare dentro e fuori dalla realtà. Un momento era lucida come una ragazzina, e il momento dopo lo chiamava Simon. Chi era Simon? Gregor non ne aveva idea.
Qualche tempo prima sarebbe stato diverso. Sua madre lavorava solo part-time e suo padre insegnava scienze alle superiori, perciò d’estate era libero. Si sarebbe preso cura lui di Boots. Ma da quella notte in cui era scomparso, il ruolo di Gregor in famiglia era cambiato. Era il più grande, perciò gli era toccato accollarsi un bel po’ di rogne. Badare alle sue sorelle minori era la parte più impegnativa.
Così Gregor aveva detto solo: — Va bene, mamma. Tanto il campeggio è roba da bambini. — Aveva scrollato le spalle per dimostrare che, a undici anni, era troppo cresciuto per interessarsi a cose tipo un campeggio. Ma per qualche motivo lei era sembrata ancora più triste.
— Vuoi che Lizzie resti a casa con te? Per farti compagnia? — aveva chiesto.
A quella proposta, un lampo di panico aveva attraversato il viso di Lizzie. Che con ogni probabilità sarebbe scoppiata a piangere se Gregor non avesse declinato l’offerta. — No, lascia che vada. A me va bene stare con Boots.
Così eccolo lì. Ma non gli andava bene. Non gli andava bene trascorrere tutta l’estate incatenato a una bambina di due anni e alla nonna che lo credeva un tizio di nome…
— Simon! — la sentì chiamare dalla camera da letto. Gregor scosse la testa ma non poté fare a meno di accennare un sorriso.
— Arrivo, nonna! — rispose, sgranocchiando il resto del cubetto di ghiaccio.
Un bagliore dorato inondava la stanza mentre il sole del pomeriggio si sforzava di filtrare dalle tapparelle. La nonna era stesa sul letto, sotto una sottile trapunta di cotone. Ogni quadrato di stoffa della coperta veniva da un abito che lei stessa si era cucita nel corso degli anni. Nei suoi momenti di lucidità raccontava la trapunta a Gregor. — Questo crespo a pois l’ho messo per il diploma di mia cugina Lucy quando avevo undici anni, questo giallo limone era un vestito della domenica, e questo bianco è proprio un angolo del mio abito da sposa, non dico bugie.
Quello, però, non era un momento di lucidità. — Simon — disse, in viso il sollievo di vederlo. — Credevo avessi dimenticato il pranzo. Arare ti farà venir fame.
La nonna era cresciuta in una fattoria della Virginia ed era venuta a New York quando aveva sposato il nonno. Stare lì non le era mai piaciuto davvero. A volte, Gregor era segretamente felice che, almeno nella sua testa, potesse tornare a quella fattoria. E appena invidioso. Non era certo un divertimento starsene seduti nel loro appartamento senza far niente. A quell’ora, era probabile che l’autobus stesse arrivando al campeggio, e Lizzie e gli altri ragazzi avrebbero…
— Ghe-go! — squittì una vocetta. Una testa ricciuta sbucò dalla sponda del lettino. — Me foli! — Boots si cacciò in bocca la punta fradicia della coda di un cane di peluche e tese le braccia verso di lui. Gregor sollevò la sorella e le fece una sonora pernacchia sulla pancia. Lei ridacchiò e il cane cadde a terra. Lui la mise giù perché lo raccogliesse.
— Ricordati il cappello! — disse la nonna, ancora persa nella Virginia del suo passato.
Gregor le prese la mano, cercando di attirare la sua attenzione. — Vuoi qualcosa di fresco da bere, nonna? Che ne dici di un’aranciata?
Lei rise. — Un’aranciata? E cos’è, il mio compleanno?
Cosa poteva risponderle?
Gregor le strinse la mano e prese in braccio Boots. — Torno subito — gridò.
Sua nonna rideva ancora tra sé. — Un’aranciata! — esclamò, e si asciugò gli occhi.
In cucina, Gregor riempì un bicchiere di aranciata ghiacciata e preparò un biberon di latte per Boots.
— Feddo — disse la bimba con un sorriso radioso, premendosi il biberon contro il viso.
— Sì, bello freddo, Boots — confermò Gregor.
Alcuni colpi alla porta lo spaventarono. Lo spioncino era inservibile da almeno quarant’anni. Senza aprire, gridò: — Chi è?
— Sono la signora Cormaci, tesoro. Ho detto a tua madre che sarei passata da tua nonna alle quattro! — urlò di rimando una voce. A quel punto Gregor ricordò la pila di bucato che avrebbe dovuto fare. Almeno sarebbe uscito di casa.
Aprì la porta e trovò la signora Cormaci che pareva spossata dalla calura. — Ciao! Non è terribile? Ti assicuro che questo caldo non lo sopporto per niente! — Si precipitò dentro tamponandosi il viso con una vecchia bandana. — Oh, amorino, è per me, quella? — chiese, e prima che Gregor potesse rispondere stava già tracannando l’aranciata come una che si fosse persa nel deserto.
— Certo — borbottò Gregor, dirigendosi di nuovo in cucina per preparare un’altra bibita. La signora Cormaci gli era del tutto indifferente, eppure quel giorno era quasi sollevato nel vederla. “Fantastico, è il primo giorno e già non vedo l’ora di farmi un viaggetto in lavanderia” pensò Gregor. “Entro settembre probabilmente andrò in estasi quando arriverà la bolletta del telefono.”
La signora Cormaci tese il bicchiere per un secondo giro. — Allora, signorino, quand’è che mi permetterai di leggerti i tarocchi? Lo sai che ho questo dono — disse. La signora Cormaci metteva avvisi accanto alle cassette delle lettere offrendosi di leggere i tarocchi per dieci dollari al colpo. — Gratis, per te — ripeteva a Gregor, che però non aveva mai accettato perché aveva il vago sospetto che la signora Cormaci avrebbe finito per fargli molte più domande di quante gliene avrebbe fatte lui. Domande a cui non era in grado di rispondere. Domande su suo padre.
Borbottò qualcosa a proposito del bucato da fare e scappò a radunare la roba sporca. Conoscendo la signora Cormaci, era probabile che avesse un mazzo di tarocchi in tasca.
Una volta sceso in lavanderia, Gregor divise i vestiti meglio che poté. Capi bianchi, scuri, colorati… e i calzoncini a righe bianche e nere di Boots? Li buttò nella biancheria scura, sicuro che fosse la decisione sbagliata.
Quasi tutti i loro indumenti erano un po’ grigiastri, comunque… per gli anni che avevano, non per gli errori di lavaggio. I calzoni corti di Gregor non erano altro che i pantaloni invernali tagliati al ginocchio, e gli era rimasta solo qualche maglietta che gli andasse bene dall’anno prima. Ma che importanza poteva avere, visto che sarebbe rimasto bloccato in casa per tutta l’estate?
— Palla! — gridò lamentosa Boots. — Palla.
Gregor infilò un braccio tra le asciugatrici e tirò fuori la vecchia pallina da tennis che Boots aveva inseguito fino a quel momento. Eliminò i bioccoli di polvere e lanciò la palla dall’altra parte del locale. Boots le corse dietro come un cucciolo.
“Che disastro” pensò Gregor con una risatina. “Un piccolo disastro appiccicoso, sudicio e impolverato!” I resti del pranzo di Boots, uova sode in insalata e budino al cioccolato, erano ancora visibili sul faccino e sulla maglietta della bimba. Si era colorata le mani di viola con dei pennarelli lavabili che, così pensava Gregor, forse solo una sabbiatrice avrebbe potuto cancellare e aveva il pannolino afflosciato intorno alle ginocchia. Faceva davvero troppo caldo per costringerla in un paio di pantaloncini.
Boots tornò di corsa da lui, la lanugine dell’asciugatrice tra i riccioli. Il faccino sudato era raggiante quando gli tese la pallina. — Cos’è che ti rende così felice, Boots? — chiese Gregor.
— Palla! — rispose lei, poi picchiò di proposito la testa contro il suo ginocchio perché si spicciasse. Gregor lanciò la pallina lungo il corridoio tra le lavatrici e le asciugatrici. Boots scattò a rincorrerla.
Mentre il gioco proseguiva, Gregor cercò di ricordare l’ultima volta in cui si era sentito felice come Boots con la sua palla. Qualche momento passabile l’...