Roma, millenovecentotré.
«Babbo, io non esco insieme a voi con quella cappa, sembrate un corvaccio!»
«Ci sto così bene, figlia mia! Se te ne vergogni, tu vai avanti per strada, fai finta di non conoscermi, io ti vengo dietro come un servitorello, non m’offendo, sai.»
È un mattino bianco. Un uomo piccolo con un lungo mantello nero cammina dietro a una bambina dalla testa bionda opaca. È nonna. Avanzano silenziosi, con i passi appaiati a ritmo alterno, lungo il selciato deserto. C’è odore di pane nuovo, e un fragore improvviso di ferraglia rimbomba nella via: si alza la saracinesca della prima bottega. Davanti al portone della scuola elementare, l’uomo rende alla bimba la sua cartella poi si china su di lei per una carezza sul visetto interito. La scuola è ancora deserta, e lei va di filata nella sua classe. Resta lì, buona buona, sistema il fiocco del grembiule, e, guardando in basso, s’avvede di uno schizzo di fango che le imbratta la scarpa. Ci frega sopra con l’indice sputato di saliva. Pensa: «Se il mio babbo non facesse il professore, io avrei modo di dormire un po’ più al mattino. Ma no! Noi dobbiamo aprire la scuola, come il bidello…».
Il professore intanto ha raggiunto il liceo dove insegna, a due passi dalla scuola della figlia. Ha sistemato con perizia la mantella su una gruccia, dentro l’armadio, nella sala riservata agli insegnanti. Sta dando un ultimo sguardo ai compiti, già corretti e ricorretti a casa. Li esamina con gioia infantile, mentre si strofina le mani ancora infreddolite. Nella stanza c’è odore di polvere vecchia, di lavagna e gessetti, di quaderni, di ragazzi accaldati. L’odore raffermo di scuola, che cova durante la notte, e la mattina stucca. Va alla finestra, gira il chiavistello pesante e si sporge sul poggiolo a respirare. Sfronza il capo annerito a un avanzo di sigaro e lo accende, facendo capannello con le mani attorno a un fiammifero da cucina. Grandi boccate di fumo invadono la stanza quando si discosta dalla finestra. Canticchia, rimboccando le sedie attorno al tavolo: «Bum bum, bum bum», felice della giornata che inizia. «Bum bum», risistemandosi la giacca con piccoli gesti meticolosi. Aspetta l’arrivo dei colleghi. Il privilegio di essere il primo è, per lui, una debolezza, alla quale con il passare degli anni sa rinunciare sempre meno.
La stanza si riempie quasi di colpo, e lui per ogni nuovo arrivato ha un buongiorno diverso, una parola garbata. Al secondo richiamo della campanella si avvia lungo il corridoio insieme alla fiumana degli studenti. Le sue mani salutano le teste rasate con fuggevoli scappellotti. Dietro la cattedra, sopra la predella, la sua statura si fa più maestosa. Sta qualche minuto curvo a scartabellare nella borsa, poi i compiti sfilano fuori in un mucchietto compatto. Nell’aula si fa silenzio. S’aggiusta gli occhiali sul naso e solleva il capo: nei banchi ci sono tutte quelle giovani facce in attesa, ancora impresse dal sonno sciacquato in fretta. Il cuore gli s’apre di gratitudine per tanta trepidazione: «Buongiorno ragazzi. Comodi, comodi».
Alla fine del mese, il professore consegna lo stipendio intero alla moglie. «Tieni Monda,» dice «pensa tu ai figlioli. Io, per me, non ho bisogno di nulla.» Lei reclama sempre che i soldi sono pochi e li fa sparire in fretta tra le gonne, stizzita. La domenica lui le chiede due soldi per il suo vizio: ciucciarsi quel sigaro, sempre spento nella bocca onde evitare brontolii. Monda è sul balcone a godersi il passeggio. Si sventola seduta, con le gambe allargate sotto la vesta. «Sempre questo sigaro vai cercando, sempre questo sigaro…», e allunga i due soldi al professore.
Monda lascia conti in sospeso dappertutto, e quando si inalbera, accusa la serva di qualche furto domestico: un gioiello lasciato sul trumeau (che invece ha già impegnato), o anche solo una manciata di farina dalla dispensa. Esce con i suoi abiti vivaci e gualciti e col cappello da festa, dove, posato su una falda, c’è un uccello intero intero, pronto ad alzarsi in volo. Va avanti e indietro per il Corso, con una carrozza presa a nolo, le mani in alto per tenersi il morione sulla testa. Una sera ritorna con una collana che costa quanto tutto lo stipendio del professore, e se la rigira intorno al collo. Lui non le dice nulla. La difende sempre, soprattutto davanti alle figlie femmine, che – come nessun altro in famiglia – subiscono le angherie della madre: «Lasciate fare vostra madre, lei sa quello che fa». Monda è completamente scimunita. Passa le ore davanti allo specchio ammaliata da un particolare del suo volto, che si dilata nella fissità dello sguardo.
All’una il professore torna da scuola, e si siede sulla poltrona a leggere il giornale, mentre la fame gli brontola nello stomaco. Dalla cucina insieme all’acciottolio dei piatti gli arrivano i battibecchi delle figlie.
«Scendi tu a prendere il vino!»
«No! Io sono già scesa due volte, non ho voglia di rifare le scale.»
Lui si alza e va di là a quietarle: «Tutto questo baccano per un fiasco di vino! Ci vado io, che l’aria prima di desinare mi piace, mette appetito. Che c’è di buono Monda?», e si sporge un pochino sulla soglia ad annusare i vapori.
«Di buono c’è poco e nulla.»
«Bum bum, bum bum», lui prende il fiasco e va. Nonna gli corre dietro con un pezzo di carta senapata da cucina: «Tenete babbo, incartatelo qui dentro. Non sta bene che un professore vada in giro così, con il fiasco in mano!». Il padre sorride: «Ma che male c’è figlia mia, chi vuoi che badi a me». Lei insiste, gli si para davanti e non lo lascia passare. È la più grandicella, con tutte le fisime di una femmina, cui si comincia a indovinare il seno sotto gli abiti. Due trecce ben assettate le spaccano a metà la capigliatura, sgombrandole un viso impertinente. Non si dà pace di quel padre professore, così modesto e schivo. Pare lo faccia apposta. Saluta sempre per primo, non solo l’avvocato Minestrini, ma anche il portiere o il fornaio, o chiunque sia! E adesso con quel fiasco in mano! Cosa penserà la gente…
«No babbo, voi così non andate in nessun posto.»
«E chi sarà a impedirmelo? Tu, figliola?»
«Sì, io, proprio.»
Strappa il fiasco dalle mani del padre, lo incarta ben bene e glielo rende. «Bum bum, bum bum», a un ritmo più sincopato: il professore si gira, fa per andare verso la porta, e, bum!, apre la mano. «Toh che peccato! M’è scivolato il fiasco!» Ormai tra padre e figlia è guerra. «Non fa niente babbo, ce ne sono tanti di fiaschi in cucina! Vado a prenderne un altro.» Anche il secondo fiasco arriva nelle mani del professore camuffato dallo stesso incartamento, e anche questo va a fare compagnia ai cocci dell’altro nell’ingresso di casa, dietro lo scanno e il porta ombrelli. Ne fa secchi dieci, di fiaschi, il professore, con un bel sorriso scanzonato. Nonna, rossa come una mela, si chiude in camera sua. Tra le lame della persiana, tiene d’occhio la strada. Dal portone, prima ancora del padre, spunta l’impagliatura d’un bel fiasco da due litri, il cui vetro verdastro subito s’empie del brillio del sole.
No, i piedi in testa al professore non glieli mette nessuno. Dei suoi sei figli, quattro maschi e due femmine, questa bambina così proterva e ostinata è la sua preferita. Ogni tanto l’asseconda, ma non sempre. Lui governa senza mai guastarsi il buon umore. È un animo appartato, mite ma testardo.
E fu per un puntiglio (per questa sua intransigenza un po’ ottusa, ben salda sotto l’apparente tolleranza), che ora si ritrovava a far da professore in un ginnasio statale, da marito a quella moglie di statura maggiorata e senno acquoso, e da padre a un pipinaio pieno di pretese. Quando era giovane, l’unica strada che non portava alla rocca, come tutti i viottoli del suo paese ciociaro, lo condusse in un seminario lontano, a farsi prete. Ore di tedio: le sacre scritture, la dottrina dei padri, San Girolamo, Sant’Agostino, San Bonaventura. Ma anche ore più profane, meravigliose: Orazio, Virgilio, Tacito…
Agli esami finali risultò il migliore, sicché sarebbe spettato a lui il piccolo sussidio in denaro, che ogni anno era assegnato come premio al seminarista più meritevole. Il Rettore lo mandò a chiamare, e con voce suadente, da buon curato, gli comunicò che il premio sarebbe andato a un altro seminarista, a loro «santo giudizio» meno meritevole, ma più bisognoso. Che l’altro fosse davvero così poco abbiente, il professore non lo sapeva; sapeva di se stesso, di suo fratello che faceva il porcaro. L’ingiustizia subita lo rose interiormente. Quelle tonache ben pasciute rivelavano intenti troppo terragni, per essere degne di Gesù Cristo. I ceri, gli incensi, l’ombra ecclesiastica, gli vennero a noia. Spogliò nottetempo la celletta da seminarista, dove aveva studiato con tanto ardore, e se ne tornò al paese. Si ringoiò la vocazione e diede gli esami di stato, diventando professore di belle lettere. Il resto arrivò da sé: l’incontro con Monda, il trasferimento a Roma – dove vinse il concorso –, la nascita dei figli.
Ci pensa, talvolta, quando la sera prima di cena s’attarda sul balcone. Siccome la vita ha camminato così, lui è lì con quel sigaro dolce tra le labbra. Altrimenti lo scorcio di città che intravvede di lassù non sarebbe mai diventato compagno di malinconie vespertine, insieme alla brezza leggera che sempre s’alza a quell’ora, arruffandogli i pochi capelli nel verso dei favoriti, obliqui sul volto. Pensa alle cose che stavano là ad aspettarlo molto tempo prima che lui arrivasse, quando da ragazzo ne ignorava l’esistenza. Pensa al suo braccio sulla ringhiera, come scordato da un altro.
D’estate il professore e la sua famiglia tornano al paese che sta solitario nella calura, schiantato su un cocuzzolo con intorno le valli di spighe tosate, e quelle ocra della terra dopo l’aratura. C’è odore di rovi selvatici e mentuccia, di girasoli e ulivi.
È l’ora della canicola. Il mare con i suoi aliti freschi è lontanissimo; anzi, non sembra nemmeno esistere. L’afa ispessisce l’aria caricandola d’una corposità crassa e lattiginosa. Nonna trascina su per l’erta, il peso di sua sorella, più piccola di età e di corporatura: una sorella poco volitiva, che non la soddisfa affatto. Gli occhi delle bambine s’appannano di vampa, di cerchi evanescenti. Hanno avuto in regalo un soldo a testa. Nonna, il suo, lo ha lasciato scivolare nella bocca sorridente del salvadanaio: alla fine dell’anno avrà sempre una borsetta o un fermacapelli in più della sorella, che la interrogherà stupita, piena di invidia e desiderio. E allora nonna giudiziosa le dirà : «Te lo ricordi quando ci diedero un soldo a testa, e tu subito corresti a spendertelo, che ti bruciava nelle mani?».
S’arrampicano curve – i passi lunghissimi, la fatica tutta su una gamba, poi tutta sull’altra – fino a un arco. Lì c’è una porta con i cardini arrugginiti tenuti da grossi chiodi ribattuti nel legno. È una bottega di spezie, dolciumi, e frutta secca. Dentro, una mostra povera: sacchi di granaglie che pisolano sul pavimento, e pochi dolci pieni di noci e nocciole sotto un panno da cucina. Una vecchia, con tante sottane e i lobi spalancati dai pendenti, fa ciondolare davanti ai musi vigili delle due sorelle un cartoccio pieno pieno, sul piatto nero di una stadera. Più tardi, all’ombra sottile di una gronda, nonna ride e divora frutta secca, comperata con il soldo della sorella più piccola.
Nonna morde anche limoni con tutta la buccia. Il piccolo ventre si tende, duro. Sta ore seduta sulla tazza a riposarsi, non pensa alla cacca che non scende, ma ai fattarelli suoi. Con le chiappe cerchiate di rosso corre dalla madre.
«Mamma, sono tanti giorni che non la faccio. Mi sento che scoppio.»
«Il frutto cade quando è maturo» sentenzia Monda. E poi: «Copriti che sotto ti si vede… Stai attenta a tenerti murata. Ricordati di quella ragazzina che per sbaglio, il rastrello le si infilò dove non doveva e la sfondò…».
Nonna va a spiare tra le frasche i suoi fratelli e i ragazzini del paese che pisciano all’impiedi. Gli invidia la bella spavalderia con cui fanno dell’uccello una fontana, mentre a lei le tocca nascondersi e farsi sgraffiare il culo dalla malerba. Pensa: «Forse c’è un altro peccato originale solo delle femmine, e per questo a noi il pisello non spunta ma rimane dentro ingoiato… e ci sporca». Quando s’accorge delle prime macchie di sangue sulle mutande, va dalla madre a chiederle lo spirito, per disinfettarsi: «Mi sono ferita…» dice. Monda le allunga un panno senza spiegarle nulla.
Trovare la madre assente, intenta nelle sue pensate, non è cosa nuova: ma al paese i silenzi si prolungano. Qui, nei luoghi della giovinezza, il nitore dei ricordi esplode fino a esulcerarla. Irrompono gli odori antichi – come se le mura fossero spugne golose – fin nella camera dove cerca riparo, stesa sul letto con le mani sugli occhi. Monda, prima, ha amato qualcuno, che non era il professore, che non era così mite. Lui, il professore, l’ha sposata senza chiederle niente. S’è preso quella donna strampalata, già un po’ avanti con gli anni, e tanto più alta di lui. Nonna ha saputo di quell’amore antico della madre, durante la festa patronale che cade a mezzo dell’estate.
È sera. Una musica arriva lontana, ma stordente. Monda con i capelli attorcigliati sulla nuca, umida per il caldo, sta presso la porta di passaggio in fondo a una grande sala. Penetrata dal torpore, schiude le stecche d’avorio del ventaglio per farsi aria con pacatezza. Ha mangiato e bevuto come tutti, ma ora che gli aliti si sono ispessiti, il viavai della gente la immelanconisce. Vorrebbe uscire in giardino a respirare la frescura sotto le chiome del nespolo. Un monumento d’uomo le si avvicina fin quasi a sfiorarla, proprio nell’attimo in cui lei, con lo sguardo, scavalca le teste per spiare fuori. Quando se ne accorge è già tardi: lui sta piantato lì davanti e non si muove. Dio, la stessa prepotenza di allora, i riccioli neri stirati all’indietro appena spolverati di bianco, attorno al viso reso ancora più forte dal tempo!
«Come state donna Ramonda?» le chiede, guardandola dritto negli occhi, sfrontato. Lei, a differenza di tanti anni prima, non abbassa lo sguardo. Riacchiappa il corpo dalla deliquescenza, e si tende tutta. «Bene, bene» risponde. La voce è una bava uscita da una caverna di rancore. Lo sfida fino a farselo incenerire davanti.
È lui stavolta, prima ancora d’andarsene, a chinare la testa, come cercasse qualcosa. Nonna sorveglia la madre da lontano: il ventaglio le si muove, impazzito, nelle mani, per fiaccare i battiti del cuore assediato dall’astio e dal desiderio antichi.
Spesso all’imbrunire, Monda, infila un usciolo nero, e si chiude in un cicaleccio fitto con l’inquilina nubile della casa. Di tanto in tanto, sorveglia le figlie che ha portato con sé, intente nel vicolo al gioco della campana. Solo quando la signorina tira fuori dalla credenza una bottiglia di rosolio con due piccolissimi bicchieri le bimbe s’affacciano a favorire le ciambelle con i semi d’anice. Le mani della signorina odorano di pasta lievitata: mani d’oro, che in una casa popolosa avrebbero saettato dalla stalla ai fornelli, al cucito. E invece…
In una notte di tanti anni prima, lei cinguettava dal balcone con il suo innamorato giù in strada. Così grande era l’ardore di quel cinguettio, così grande l’amore, che la neve fioccava e loro non se ne avvedevano. Finché all’alba lei gli disse di andare, prima che gli uomini scendessero verso le terre coi muli. Allora lui si accorse di non potersi più muovere: la neve l’aveva coperto. «Non può essere! Non può essere!» ripetevano i due innamorati. Ma lui non riusciva proprio a rigirarsi in quella morsa immacolata, né lei poteva aiutarlo di lassù. Per non lasciarlo morire così – sepolto sotto quel manto – ella dovette invocare aiuto dentro la sua stessa casa, e il padre e i fratelli uscirono a spalare la neve. Poi rientrarono con la vanga sulla groppa, in silenzio. Allora il paese parlò. Dietro gli angoli, nelle case, nelle botteghe, la gente si chiese se in quella notte, o in altre come quella, l’innamorato non fosse salito fin su, nella camera della sfacciata, fin dentro il suo letto. Tanto fu quel parlare, che per lui anche l’amore si sciolse come neve. E la finestra sul balcone della signorina si richiuse per sempre.
Sorseggiando rosolio, le due amiche ricordano i bei tempi, quando tutto era intatto. E lei che aveva salvato quel galantuomo dalla sua bara di neve, sussurra: «Che amori Ramondina… Che amori…».
Monda, Monda! Quanti ricordi in quel paese tortile ai piedi della rocca… Un tempo era suo e delle sue sorelle, come pure i campi che si versano in basso. Lo stemma gentilizio è ancora là , sul vecchio palazzo di famiglia, a lato della piazza. Ma ormai lei, quando ci passa davanti, non guarda. Segue solo le scanalature tra le pietre del selciato, e fa correre le gambe. Le pare ancora di vederlo sulla terrazza, suo padre, don Sauro Cerquaglia: la fronte increspata tra i sopraccigli folti, un ritaglio d’occhi sotto la foglia delle palpebre, i baffi a torciglione. Era questo il suo modo di guardarlo a distanza, di tollerarlo, il mondo.
Al mattino s’alzava tardi e gli aggradava far colazione all’aperto, con i maritozzi fatti in casa sparsi sulla tovaglia bianca. Già durante quel primo pasto, spetezzando per liberarsi dai gas notturni, teneva d’occhio la bottega di carni dall’altra parte della piazza. Poi spediva la serva, oppure ordinava lui stesso di lassù – cacciandosi due dita in bocca e fischiando forte per far uscire un garzoncello tutto insanguinato – quattro, cinque palmi di bue, teneri: «Solo fin dove la bestia caccia le mosche con la coda!».
Amava la grascia, la tavola imbandita, e gli piaceva sederci da solo. Le sue sette figlie, d’altra parte, non ci tenevano a desinare con lui. Erano tutte «bocche di sciuscella», olivigne magre e indiavolate, una disgrazia che gli era cresciuta in casa. Vedersele ammuffire, ogni giorno un poco di più, era la sua penitenza. Eppure le voleva con sé, in piedi vicino al tavolo, a guardarlo mangiare, a versargli da bere.
Gliene venne a mancare una, la più tenerella, la preferita, e la piangeva forte nella sala da pranzo con le persiane accostate. Le nocche puntute di sua figlia Monda, che gli bussava sulla spalla, interruppero per un attimo quella contrizione sonora: «Babbo, pesce». Era già apparso sulla soglia un ometto che, circospetto, non s’azzardava a oltrepassarla. «La più buona! La più buona m’ha lasciato!» si disperava don Sauro, scuotendo il capo come un bestione. Intanto l’ometto, tutto compreso del dolore che affliggeva quella casa, spingeva avanti le spasine della sua mercanzia in assoluto silenzio: triglie, saraghi, orate, lucci, con le branchie rosse, spalancate.
Si schiusero appena le mani di don Sauro, dove teneva affondato il grugno madido, e fece cenno alla fi...