Charlotte si svegliò alle sei. Aveva tirato le tende della finestra in modo che i primi raggi del sole le colpissero il viso e la destassero dal sonno: era un trucco cui ricorreva anni prima, quando c’era anche Belinda, e tutt’e due si divertivano a girare per la casa mentre gli adulti dormivano ancora e non c’era nessuno a dire loro che dovevano comportarsi da brave signorine.
Il suo primo pensiero fu per Feliks. Non erano riusciti a prenderlo: era talmente astuto! Quel giorno l’avrebbe sicuramente aspettata nel bosco. Charlotte balzò giù dal letto e guardò fuori. Non pioveva ancora: per lo meno lui aveva passato la notte all’asciutto.
Si lavò con l’acqua fredda e si infilò rapidamente una gonna lunga, gli stivali da cavallo e una giacca. Per le sue cavalcate mattutine non metteva mai il cappello.
Scese da basso. Non vide in giro nessuno. Dovevano sicuramente esserci un paio di cameriere in cucina, ad accendere il fuoco e a scaldare l’acqua, ma il resto della servitù dormiva ancora. Charlotte uscì dalla porta sulla facciata sud e andò quasi a sbattere contro un grosso poliziotto in uniforme.
«Cielo!» esclamò. «E lei chi è?»
«Agente Stevenson, signorina.»
L’aveva chiamata “signorina” perché non sapeva chi fosse.
«Sono Charlotte Walden» disse lei.
«Mi perdoni, milady.»
«Non importa. Che cosa ci fa qui?»
«Sorvegliamo la casa, milady.»
«Oh, capisco. Proteggete il principe Orlov, vuole dire. È rassicurante saperlo. In quanti siete?»
«Due fuori e quattro dentro. Quelli dentro sono armati. Ma tra poco saremo molti di più.»
«Come mai?»
«È in arrivo una grossa squadra di ricerca, milady. Ho sentito che per le nove ci saranno qui centocinquanta uomini. Prenderemo quell’anarchico, non abbia paura.»
«Magnifico.»
«Aveva intenzione di uscire a cavallo, milady? Io se fossi in lei non lo farei. Non oggi.»
«No, non ci andrò» mentì Charlotte.
Si allontanò, girando intorno all’ala est e dirigendosi verso il retro della casa. Le scuderie erano deserte. Entrò e trovò la sua cavalla, Spats. Le disse qualche parolina affettuosa, strofinandole il muso, e le diede una mela. Poi la sellò, la tirò fuori dalla scuderia, e la montò.
Si allontanò dalla casa e attraversò il parco compiendo un ampio cerchio, tenendosi fuori dalla vista del poliziotto. Attraversò al galoppo il paddock ovest, saltò la bassa palizzata e si addentrò nel bosco. Avanzò al passo tra gli alberi finché non arrivò al sentiero, poi si mise al trotto.
Il bosco era fresco. Le querce e i faggi frondosi ombreggiavano il sentiero. Nei tratti dove il sole filtrava attraverso le foglie, salivano dal terreno fumi di vapore. Charlotte sentiva ogni tanto sul suo corpo il calore di quei raggi di sole. Gli uccelli cinguettavano forte.
Pensò: “Che cosa può fare contro centocinquanta uomini?”. Il suo piano ormai era irrealizzabile: Aleks era troppo ben sorvegliato, e troppo ben organizzata era la caccia all’uomo predisposta per Feliks. Ma almeno lei poteva avvertirlo.
Raggiunse l’estremità del bosco senza vederlo. Era delusa: se non fosse riuscita a incontrarlo, non avrebbe potuto avvertirlo, e allora lo avrebbero sicuramente preso. Ma non erano neppure le sette: forse Feliks non si era ancora appostato in attesa che lei arrivasse. Charlotte smontò dalla sella e tornò indietro a piedi, tenendo Spats per le redini. Forse lui l’aveva vista e aspettava per controllare che non l’avessero seguita. Si fermò in una radura a guardare uno scoiattolo: quelle bestiole non temevano gli uomini, anche se fuggivano alla vista dei cani. Di colpo, Charlotte si sentì osservata. Si voltò, e lui era lì, che la guardava con un’espressione strana e triste.
«Buongiorno, Charlotte» disse.
Si avvicinò e le prese le mani fra le sue. Ormai la sua barba era folta. Aveva gli abiti tutti coperti di fili d’erba. «Ha un’aria molto stanca» disse Charlotte in russo.
«Sono affamato. Mi ha portato qualcosa da mangiare?»
«Oh, mio dio, no!» Aveva portato una mela per la sua cavalla e non aveva pensato a Feliks. «Non mi è venuto in mente.»
«Non importa. Sono stato più affamato di così.»
«Mi ascolti» disse Charlotte. «Deve andarsene, immediatamente. Solo così riuscirà a fuggire.»
«Perché dovrei fuggire? Io voglio rapire Orlov.»
Lei scosse la testa. «È impossibile. Ha delle guardie del corpo armate, la casa è sorvegliata dai poliziotti e alle nove arriveranno qui centocinquanta uomini a darle la caccia.»
Lui sorrise. «E se fuggo, che cosa farò per il resto della mia vita?»
«Ma io non la voglio aiutare a suicidarsi!»
«Sediamoci sull’erba» propose lui. «Devo spiegarle una cosa.»
Lei si mise a sedere con la schiena contro una grossa quercia. Feliks le si sedette di fronte e incrociò le gambe, come i cosacchi. I raggi di sole creavano giochi di luce sul suo viso stanco. Cominciò a parlare in un tono piuttosto formale, come se si fosse già preparato il discorso. «Le ho raccontato che, tanto tempo fa, sono stato innamorato di una donna che si chiamava Lydia. Lei ha detto: “Come mia madre”. Se lo ricorda?»
«Ricordo ogni frase che ci siamo detti.» Charlotte si chiese dove volesse arrivare con quel discorso.
«Era tua madre, Charlotte.»
Lei lo fissò. «Lei era innamorato della mamma?»
«Qualcosa di più. Eravamo amanti. Lei veniva nel mio appartamento, da sola. Capisci quello che voglio dire?»
Charlotte arrossì confusa e imbarazzata. «Sì, capisco.»
«Suo padre, cioè tuo nonno, scoprì la nostra relazione. Il vecchio conte mi fece arrestare, poi costrinse tua madre a sposare Walden.»
«Oh, che cosa terribile» mormorò Charlotte. Temeva quello che avrebbe ancora potuto ascoltare.
«Tu sei nata sette mesi dopo il matrimonio.»
Questo pareva sembrargli molto significativo. Charlotte aggrottò la fronte.
Feliks le chiese: «Sai quanto ci mette un bambino a formarsi e nascere?».
«No.»
«In genere, nove mesi, anche se a volte può essere di meno.»
Charlotte si sentiva il cuore pesante. «Dove vuole arrivare?»
«Potresti essere stata concepita prima del matrimonio.»
«Questo significa che lei potrebbe essere mio padre?» domandò Charlotte incredula.
«Non solo. Sei il ritratto preciso di mia sorella Nataša.»
Charlotte sentì il cuore balzarle in gola, e riuscì a stento a parlare. «Pensa davvero di essere mio padre?»
«Ne sono sicuro.»
«Oddio!» Charlotte mise la testa fra le mani e guardò davanti a sé, con gli occhi fissi nel vuoto. Si sentiva come se si fosse svegliata dal sonno e non sapesse distinguere tra sogno e realtà. Pensò a suo padre, che però non era suo padre; pensò a sua madre, che aveva un amante; pensò a Feliks, suo amico e ora, di colpo, suo padre…
«Mi hanno mentito anche su questo?» disse.
Era così confusa che le sembrava di non avere più la forza di alzarsi. Era come se le avessero detto che tutte le carte geografiche che aveva visto erano delle contraffazioni e che in realtà lei viveva in Brasile, o che il vero padrone di Walden Hall era Pritchard, oppure che i cavalli sapevano parlare ma stavano zitti per scelta; ma era molto peggio di tutte quelle cose. Disse: «Se lei mi avesse detto che io sono un maschio, ma che mia madre mi ha sempre vestito come una femmina… sarei altrettanto sconvolta».
Pensò: “La mamma… e Feliks insieme?”. Quel pensiero la fece nuovamente arrossire.
Feliks le prese una mano e la accarezzò. Le disse: «Penso che tutto l’amore e le cure che normalmente un uomo dedica alla moglie e ai figli, nel mio caso siano stati indirizzati alla politica. Devo tentare di prendere Orlov, anche se sembra impossibile, così come un uomo tenterebbe, anche senza saper nuotare, di salvare il figlio che sta annegando».
Charlotte si rese improvvisamente conto di quanto Feliks dovesse sentirsi confuso di fronte a lei, la figlia che non aveva mai davvero avuto. Comprese, ora, quel modo strano e triste in cui talvolta l’aveva guardata.
«Come devi essere infelice» lo compianse.
Lui si morse il labbro. «Tu hai un animo così generoso.»
Charlotte non capiva perché le avesse voluto dire quella cosa. «Che cosa faremo?»
Lui trasse un profondo respiro. «Puoi farmi entrare in casa e nascondermi?»
Lei rifletté. «Sì» rispose.
Feliks montò in sella dietro di lei. La cavalla scrollò la testa e sbuffò, quasi fosse offesa che le si volesse far portare un doppio peso. Charlotte la spronò per metterla al trotto. Seguirono il sentiero per un certo tratto, poi deviarono e si inoltrarono nel bosco. Superarono un cancello, attraversarono un paddock, poi imboccarono un vialetto. Feliks non aveva ancora visto la casa: capì che Charlotte stava facendo un ampio giro per avvicinarsi dal lato nord.
Era una ragazza straordinaria. Aveva un’incredibile forza d’animo. L’aveva presa da lui? Quel pensiero lo riempì d’orgoglio. Era felice di averle detto la verità sulla sua nascita. Aveva la sensazione che lei non l’avesse del tutto accettata, ma era solo una questione di tempo. Era stata ad ascoltarlo mentre lui mandava all’aria il suo mondo, e aveva reagito con un evidente turbamento, ma senza isterismi. Di certo non aveva ereditato quella calma da sua madre.
Dal vialetto girarono in un frutteto. Ora, guardando fra le cime degli alberi, Feliks riuscì a scorgere i tetti di Walden Hall.
In fondo al frutteto c’era un muro. Charlotte fermò la cavalla e disse: «Sarà meglio che tu cammini al mio fianco da questa parte. Così, se qualcuno dovesse guardare da una finestra, ti vedrà meno facilmente».
Feliks smontò. Costeggiarono il muro, e girarono intorno a un angolo. «Che cosa c’è dietro questo muro?» chiese Feliks.
«L’orto. Adesso è meglio non parlare.»
«Sei meravigliosa» sussurrò Feliks, ma lei non lo udì.
Si fermarono all’angolo successivo. Feliks vide alcune costruzioni basse e un cortile. «Le scuderie» spiegò Charlotte sottovoce. «Aspetta qui un momento. Quando ti darò il segnale, seguimi più presto che puoi.»
«Dove andiamo?»
«Sui tetti.»
Charlotte guidò la cavalla fin dentro il cortile, smontò di sella e legò le redini a uno steccato. Feliks la vide arrivare a piedi fino in fondo al cortile, guardare a destra e a si...