Parliamo di musica
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Parliamo di musica

  1. 144 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Parliamo di musica

Informazioni su questo libro

"L'idea che per capire la musica si debba per forza possedere un certo bagaglio culturale è una furbata, spesso è una scusa per pigri, o una medaglia acquisita sul campo per chi crede di essere fra quelli che la 'capiscono'. Avere gli strumenti per godere della musica non significa conoscere né l'armonia né l'epoca in cui è stata scritta né il retroterra culturale del compositore, ma riconoscere qualcosa che abbiamo dentro e che risuona."
In questo libro Stefano Bollani ci spiega il bello della musica. E lo fa con parole semplici, con il suo spirito libero, sfatando insidiosi luoghi comuni e svelando i segreti di un laboratorio fantastico, quello dell'improvvisatore: armonia, melodia, dinamiche, ritmo, colpi a effetto, trucchi, debolezze e assi nella manica dei jazzisti, dei creatori pop e degli interpreti. Parliamo di musica è un viaggio affascinante nei meccanismi della creazione musicale raccontato da uno dei massimi talenti del nostro tempo. Bollani però prima di tutto è un vorace ascoltatore, dai Beatles a Frank Zappa, da Elio e le Storie Tese a Giacomo Puccini, da Bill Evans alla bossanova di Antônio Carlos Jobim e così, compilando una sorta di appassionato "taccuino di appunti", il grande pianista ci guida nella comprensione dei suoni e delle loro diverse chiavi di lettura, fino a farci scoprire che si tratta di un percorso dentro le nostre stesse percezioni nascoste.
Perché "non solo nella musica, ma anche nella vita, il vero spettacolo è ascoltare".

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1
Imparare la musica

C’è un modo abbastanza facile per riconoscere un insegnante in gamba: è quello che propone un programma su misura per tuo figlio. Non gli fa studiare le stesse cose di un altro bambino, oppure, peggio, quello che ha studiato lui da piccolo...
Altrimenti, perché si tengono le lezioni individuali?
Gli insegnanti trascurano il fatto che si può imparare insieme all’allievo, ascoltando i suoi desideri, le sue passioni del momento: se il ragazzo ha curiosità per un brano, perché non approfondirlo? Molte volte si restringe il campo degli studi alle materie d’esame: sbagliatissimo.
Bisogna assecondare l’entusiasmo dell’allievo. Qualsiasi porta di entrata è valida per iniziare un percorso nella musica. Entriamo, prima di tutto, poi vediamo che cosa succede. «Nessuno nasce imparato», diceva la buona signora, e ognuno entra nel mondo in modo diverso.
Semmai si dovrebbe aiutare il bambino a riconoscere i propri pregiudizi, perché anche un bambino di nove anni ne ha.
Io sono stato fortunato. Sono nato a Milano, ho trascorso l’infanzia ad Alba e a sei anni andavo a lezione da un tizio che, nel retro di un negozio di strumenti musicali, dava lezioni collettive. Quella mia prima esperienza è stata importante: nel retro della bottega ho cominciato picchiando su un tamburo insieme agli altri bambini finché il tizio, dopo tre mesi, suggerì ai miei genitori di portarmi da un vero maestro e fece il nome della signora Bartocci, diplomata in pianoforte.
Lei mi fece lezione per sei anni, finché ci trasferimmo a Firenze e mi iscrissi al Conservatorio. Ma si può anche andare avanti due anni a battere su un tamburo, mica si deve diventare tutti musicisti.
La musica dovrebbe far parte del progresso cognitivo di ognuno di noi. Ti insegnano a disegnare e non a cantare, ti insegnano a leggere e a capire le arti figurative ma non ad ascoltare la musica, ti insegnano a godere del suono della poesia e non del suono di un clarinetto, ti insegnano la storia della cultura del tuo e di altri paesi e non ti parlano mai dell’apporto dato dai musicisti. Giuro che non capisco perché.
Non c’è governo che tenga, la musica e la sua storia non interessano a nessuno dei nostri politici. Col risultato che ascoltiamo sempre meno. Ascoltiamo poco in generale: badiamo molto al significato di quello che ci viene detto, ma pochissimo al timbro e al tono che viene usato. Più andiamo avanti e più, con computer e telefonini, preferiamo scriverci credendo di evitare malintesi... quando la solita mitica équipe di scienziati inglesi, che forse esiste solo nella fantasia dei redattori di certi quotidiani, chissà, ci ha fatto sapere che il contenuto delle nostre frasi conta, in caso di comunicazione diretta fra due persone, diciamo un 20 per cento: il resto è linguaggio del corpo, odori, suoni, sguardi, accenti.
Ascoltare la musica significa riconoscere i suoni. Non è mica poco. Riconoscere il ritmo. Il ritmo è la vita: il battito cardiaco, il polso regolare. Sapersi muovere a tempo con la musica non è un’esperienza secondaria. Pensare che addirittura i sordi si fanno aiutare dalla musica, spesso percependo le vibrazioni nella pancia.
Ora, da bambino, io prima ho visto la mamma, poi ho scoperto che si chiama “mamma” e in seguito ho imparato a usare quel vocabolo tutte le volte che ne avevo bisogno. Perché ho capito, consciamente o no, a quante cose può servire saper dire “mamma”.
La musica si insegna, in gran parte del mondo, partendo dal solfeggio.
In sintesi: prima io imparo come si scrive il Do, poi imparo a riconoscerlo quando lo vedo scritto sul pentagramma, poi finalmente comincio a suonarlo e a goderne.
Ma se questo Do non me lo fai sentire, cosa me ne dovrebbe fregare di sapere com’è scritto?
E perché lo devo riconoscere se tanto non ne conosco un utilizzo possibile?
Sarebbe come se per prima cosa imparassi l’alfabeto, poi la parola “mamma” scandita bene bene, poi finalmente – da dietro un albero – uscisse la mamma vera e propria!
Un bambino nei primi anni della sua vita non scrive la propria lingua, la usa. E per scopi ben precisi.
Perché non cominciare suonando, e magari non da soli ma con altri bambini? La musica è condivisione, il suono nasce per comunicare.
Il problema del corso di musica è tutto qui: cioè che non ti fanno ascoltare, sentire la musica. Ti negano il piacere della musica finché non hai imparato le sue regole. Che, e mi ripeto, sono regole inventate e codificate in tempi recenti. Il sistema temperato, su cui si basa il nostro Orecchio Occidentale, per fare un esempio, è stato creato sul clavicembalo tra il XVI e il XVII secolo. In base a questo sistema il Do è un suono preciso, il Re è un suono preciso, e così il Mi, il Fa e via dicendo.
È una convenzione, poiché in natura, tra il Do e il Re, ci sono mille altre possibilità, mille sfumature che molti strumenti musicali, tra cui il pianoforte, non possono riprodurre.
Nel sistema temperato, una volta accordato, il pianoforte diventa la legge. Il violinista chiede sempre il La al pianista, il quale per accordare il piano ha usato una convenzione fatta di vibrazioni, e che si misurano con uno strumento d’acciaio chiamato diapason. Questo strumento, se stimolato, produce una frequenza di hertz che dà origine a un suono. Ma non è sempre stato uguale: nel 1885 a Vienna un congresso di specialisti decise che la frequenza doveva essere di 435 hertz. Poi è stata alzata a 440 e, nel corso del Novecento, è stata alzata ancora: oggi è di 442 hertz, ed è la nota che chiamiamo “La”.
Dunque, un tempo, il La era un’altra nota, più bassa: addirittura, nella musica antica è usata una convenzione a 415, cioè più bassa ancora.
Fu il matematico Pitagora il primo a misurare le vibrazioni di una corda e a scoprire che quella corda vibrando conteneva in sé altre note, i cosiddetti “suoni armonici”, e così capì che in natura c’era più varietà.
Vale a dire che tutto poteva essere musica, tutto risuonava di note.
Successivamente si è deciso di darsi delle regole, diciamo così, non naturali, altrimenti non se ne usciva più! Scoprendo, tramite la divisione della corda e per motivi matematici, che per esempio il Do e il Sol funzionano bene insieme. In questo modo l’uomo ha “temperato”, cioè ha mitigato, ha dato una misura alla natura e ha creato le note che noi usiamo sul piano, sulla chitarra, con la voce.
Così nascono le note: sono semplicemente una decisione dell’uomo di dare una forma alla natura.

2
Com’è fatta la grammatica della musica?

Le note si possono suonare una per volta o insieme, contemporaneamente: così nasce un accordo. Gli accordi sono formati da un minimo di tre note: si chiamano “triadi”, in questo caso.
L’armonia è l’insieme degli accordi e la maniera in cui se ne vanno in giro. Ma, soprattutto, l’armonia è il modo in cui gli accordi si concatenano tra loro: perché ogni accordo, come ogni nota (e come le parole), ha senso in relazione a ciò che viene prima e a ciò che viene dopo.
L’armonia è proprio il senso che gli accordi acquisiscono stando uno accanto all’altro, ed è qualcosa che il nostro orecchio si è abituato da sempre ad apprezzare o a rifiutare, a riconoscere o a considerare “strano” senza che si sappia bene il perché.
Ma un perché esiste.
Per esempio, mettendo insieme un accordo di Re minore, uno di Sol settima e uno di Do maggiore diamo vita a una “progressione armonica” che al nostro orecchio piace molto, dal momento che Joseph Kosma scrivendo Les feuilles mortes ci ha abituato a quel suono, e ben prima di lui l’operetta e prima ancora i compositori romantici come Chopin.
È un tipo di progressione che noi definiamo “orecchiabile” e dove avvertiamo una tensione: prima o poi la canzone tornerà al punto di partenza, e questo “ritorno a casa” ci fa piacere, ci soddisfa, in qualche modo appaga le aspettative del nostro orecchio.
Il “ritorno a casa” è alla base della musica occidentale. È il cuore della cosiddetta “tonalità”.
Prendiamo per esempio una forma musicale che chiunque ha sentito nominare: la Sinfonia in Do maggiore.
Cosa vuol dire?
Non vuol dire che tutta la sinfonia suoni sempre nell’accordo o nella tonalità di Do maggiore, ma che tornerà lì. Andrà in giro per un’ora ma alla fine tornerà al Do maggiore: tutti gli accordi tenderanno a tornare a quel polo magnetico.
Gli accordi saranno definiti lontani o vicini proprio perché lontani o vicini da quel “campo base”, che funziona come un centro: se non esistesse questo centro, non potremmo percepire gli accordi lontani. È inevitabile. Quando l’accordo è bizzarro, è strano, lo è perché è lontano dalla tonalità dominante: è lontano da casa.
Se un bambino che non ha mai ascoltato la musica mettesse le mani sul pianoforte a caso, per lui quei suoni sarebbero tutti meravigliosi e non sarebbero in relazione a un suono più piacevole. Stessa cosa se battesse su un tamburo: il tamburo gli piacerebbe quanto il Do maggiore!
Il nostro orecchio di adulti occidentali invece insegue una consonanza, chiamiamola pure “piacevolezza”. Insegue una concezione della musica prevalentemente tonale, qualsiasi tipo di musica ascolti. Beethoven e i Beatles, armonicamente, stanno sulla stessa barca.
La melodia è la catena di note che viaggia sopra l’armonia e che vi si appoggia. A volte nasce prima dell’armonia, a volte dopo.
Le canzoni non nascono necessariamente da una melodia: i jazzisti del cosiddetto periodo “cool”, cioè i primi anni Cinquanta, prendevano gli accordi di una canzone famosa, tipo Just Friends, per creare un altro brano. Qui bisogna fare attenzione a una cosa molto interessante, che rende l’idea dell’importanza della melodia nel nostro sistema musicale.
Si possono prendere gli accordi (cioè l’armonia) di una canzone e usarli per farne una nuova, ma non il contrario, cioè usare una melodia per crearne un’altra, poiché ci condurrebbe dritti all’accusa di plagio.
Sembra incredibile, ma nessuno può essere accusato di plagio se usa gli stessi accordi di Il cielo in una stanza di Gino Paoli o di I’ve got you under my skin di Cole Porter, mentre si è accusati di plagio se si usano un certo numero di note uguali alla linea melodica, e ciò perché si presuppone che l’orecchio segua la melodia.
La melodia comanda.
Io stesso l’ho fatto. Ho scritto un brano su accordi che già esistevano, ma in maniera un po’ ardita. Ho ri-armonizzato Arrivederci di Umberto Bindi, cioè mi sono ispirato alla melodia di Bindi per scrivere altri accordi, e su questi nuovi accordi ho creato una nuova melodia. Ero certo che non se ne sarebbe accorto mai nessuno, e infatti così è stato: si tratta della Visione n. 3 del disco I Visionari. Volendo, con una certa difficoltà, ci si può cantare sopra Arrivederci.
Nella storia del jazz è molto frequente. Charlie Parker era solito fare così: il suo celebre pezzo Ornithology era basato sugli accordi di una celebre canzone di Irving Berlin, How high the moon. Oppure Groovin’ high di Dizzy Gillespie, che era basata sugli accordi di Whispering, un pezzo che Benny Goodman suonava negli anni Trenta, e che Gillespie trasformò completamente... Questa prassi dei jazzisti di usare una cosa pre-esistente per farne una nuova – e non lo facevano solo i jazzisti, già Johannes Brahms prendeva un tema di Händel e ci costruiva su una serie di variazioni – ci svela qualcosa. E cioè che quella canzone di Berlin ha gli accordi talmente concatenati bene, riconoscibili, gradevoli, che diventa una specie di canone universale. Molti jazzisti moderni hanno creato soprattutto nuove melodie, componendole a tavolino o improvvisando.
D’altra parte, riagganciarsi a una tradizione è la prassi del jazz. I jazzisti non si fanno alcun problema a dichiarare le loro fonti di ispirazione. E possono essere le più varie: un giro armonico, come già detto, oppure il repertorio, come Keith Jarrett che suona le canzoni celebri dei musical degli anni Trenta e Quaranta (i cosiddetti “standard”), o Django Bates che invece li stravolge; chi invece si rifà al blues, chi al free jazz o chi addirittura riparte dal dixieland, cioè il jazz degli anni Venti. Nel jazz è raro che ci si presenti dal nulla, contrariamente a quanto avviene nel pop e nella musica contemporanea, dove è frequente sentir dire: «Ho inventato un nuovo linguaggio!». (Bah.)
Dopo armonia e melodia, al romanzo della musica manca il terzo grande personaggio: il ritmo.
Il ritmo è un elemento centrale, fondamentale, perché non lo è solo della musica ma anche della vita. Come quel bambino di cui parlavo prima che senza sapere nulla di musica scopre che battere sui tasti del piano gli piace, nello stesso modo io dopo due colpi su un tamburo ho capito che sono entrato in una struttura ritmica: mi bastano per intuire che potrebbe essercene un terzo...
Come le note, che da sole, isolatamente, non hanno senso, anche il suono di un battito di mani, un suono ritmico, se preso da solo vuol dire poco... Però se io lo ripeto comincia a formare un discorso.
Il ritmo è anch’esso un ingrediente che può aiutarci a capire la musica che stiamo ascoltando, a volte ancora prima degli altri due.
Il nostro Orecchio Occidentale è abituato a certi ritmi e non ad altri, e così alcuni ritmi siamo in grado di riconoscerli subito, per esempio il tango, al contrario di altri che non seguono la stessa logica e che sentiamo troppo “lontani da casa”.
Come nel linguaggio che usiamo per parlare, anche nella musica è ciò che è avvenuto prima e quello che accadrà dopo a dare il carattere: da solo, un Fa, non ha molto senso. Che senso ha? Ecco, ti suono un Fa, da solo, così, come se improvvisamente dicessi ARMADIO: che senso ha?
Se invece aggiungessi, CHE STO PER COMPRARE DOMANI... allora la frase comincerebbe ad avere un senso. Se a quel Fa aggiungessi altre due note sentirei affiorare una melodia o un accordo: persino una melodia semplicissima può avere già molto senso.
Quando le note si concatenano possono trasmetterci una sensazione, un colore, un mondo.
Per Mozart il Re minore era la tonalità di impianto della tragedia: nel Don Giovanni il momento culmine è in Re minore. Ma è un’idea del compositore, il quale ne è talmente convinto da trasm...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Parliamo di musica
  3. Introduzione - Fuggire dalle mura
  4. 1. Imparare la musica
  5. 2. Com’è fatta la grammatica della musica?
  6. 3. Effetti, trucchi, convenzioni
  7. 4. Cos’è il jazz?
  8. 5. Improvvisazione
  9. 6. Humour e comicità
  10. 7. Il palco
  11. 8. Ma che vuole, il pubblico?
  12. 9. Il concerto
  13. 10. Lo spartito non è un libro
  14. 11. Qualche disco cult
  15. 12. La musica non esiste senza l’empatia
  16. 13. Ossi facili e ossi difficili
  17. 14. Comporre
  18. 15. Amare, copiare, omaggiare
  19. 16. I generi musicali
  20. 17. Carioca
  21. 18. Si può parlare di musica?
  22. 19. ... E parlare di cultura?
  23. 20. La musica è seduzione?
  24. 21. Come convivere con il successo?
  25. 22. È possibile che esista la musica senza musica?
  26. 23. Si può imparare ad ascoltare la musica?
  27. Ringraziamenti
  28. Copyright